ZOMBITUDINE, IN SCENA LA MORTE VIVENTE DELLA SOCIETA’
Una società soporifera, amniotica. Da cui sembra impossibile riaversi. Un atto di accusa e autoaccusa del mondo al proprio mondo,
Una società soporifera, amniotica. Da cui sembra impossibile riaversi. Un atto di accusa e autoaccusa del mondo al proprio mondo, del teatro a se stessi. Dei viventi alla vita vissuta. Il Città delle 100 Scale Festival propone mercoledì sera allo Stabile di Potenza “Zombitudine”, scritto, diretto, interpretato e prodotto da Daniele Timpano ed Elvira Frosini. Un nudo integrale delle nostre paure di cui non possiamo fare a meno per morire da vivi. Di una vita che dura un battito di ciglia con le banche, la finanza, le multinazionali che rappresentano i morti che vivono per sempre. Zombitudine non è solo uno spettacolo sulla condizione dell’essere umano pensante, critico, precario, in un mondo instabile che non regala certezze. Ma anche un ragionamento, amaro, sulla cultura e sul teatro in Italia. Lo zombie è colui che è stato domato, sodomizzato, privato della sua umanità. Non è un caso che la parola sia di origine africana. E indicava sia l’idolo che il Dio serpente. La parola è poi approdata attraverso le navi negriere nelle isole di Haiti dove ha cominciato a indicare i non morti, i non più vivi, esseri a metà telecomandati da uno stregone che poteva fare di loro ciò che voleva. La connessione tra lo zombie e la subalternità coloniale è evidente. Non poteva morire perché il potere lo voleva attivo, da sfruttare. Però era anche il catalizzatore di paure che il palazzo aveva verso le masse. È perciò ambivalente. Da una parte, una minaccia dall’altra una figura salvifica. E nello spettacolo slitta continuamente da una cosa all’altra. Sono descritti belli, eleganti, fascinosi, con gli abiti firmati, o sporchi, cenciosi, puzzolenti. Fino a essere tratteggiati in fase di decomposizione. Uno spettacolo nella sua essenzialità anche semplice. Con due corpi toccati da una luce sfumata di rosso mattone. L’uno disteso e immobile, l’altro in piedi rivolto alla platea. Entrambi morti. La voce del corpo in piedi, di donna, da un microfono fa uscire un suono sottile, parole tra morte e vita che iniziano a determinare la loro presenza “morente” tra presunti vivi. Il prologo fa un salto decisivo nel dialogo tanto che il risveglio agognato colpirà il corpo disteso, di uomo e la loro morte diverrà il primo passo di una rivolta collosa, lentissima, claudicante, di zombi. E’ l’avvio della protesta in cui il dialogo prende toni più aspri. Dalla platea una marcia avvilita, tra il fumo, raggiunge il palco. I morti viventi e i morenti insieme. “Il mondo non appartiene più ai vivi, ma ai morti”, dicono mentre una luce cerea, poi verde, disegna il volto dei due come di porcellana. Sembrano automi in un corpo che non serve più. Questi morti viventi prendono la forma di una protesta già incanalata, fredda, automatica, inaccessibile. Ma fa rabbia scoprire la propria inerzia a specchio tra palco e platea, vittime dello stesso destino, tutti morti, abitanti di un mondo, generato, dal divenire, non creato, a immagine e somiglianza.
Mario Biscaglia