GLI STUPRI DOPO CAPORETTO
DI Michele Strazza Durante il primo conflitto mondiale anche l’Italia registrò numerosi casi di stupro. Alla fine di ottobre del
DI Michele Strazza
Durante il primo conflitto mondiale anche l’Italia registrò numerosi casi di stupro. Alla fine di ottobre del 1917, a seguito della rotta di Caporetto (24-25 ottobre), le zone di confino tra il Regno d’Italia e l’allora Impero austro-ungarico come il Friuli e parte del Veneto vennero invase dall’esercito asburgico.
Ben 250.000 civili furono costretti a fuggire mentre 900.000 rimasero confinati in un regime di occupazione militare che durò un anno intero e fu caratterizzato da saccheggi e stupri in quasi tutti i territori.
Dopo la guerra in Italia si formò una prima Commissione d’inchiesta organizzata dall’Ufficio Tecnico di Propaganda Nazionale che, in poco tempo (4-14 novembre), concluse i propri lavori dando alle stampe Il martirio delle terre invase nel quale vennero evidenziate le aggressioni sessuali delle donne italiane. Ben più cospicua la documentazione raccolta dalla successiva “Reale Commissione d’Inchiesta” contenuta nei sette volumi pubblicati tra il 1920 e il 1921 (Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico), in particolare nel IV volume (L’occupazione delle provincie invase, capitolo “Delitti contro l’onore femminile”) e nel VI (Documenti raccolti nelle provincie invase).
Il lavoro di quest’ultima commissione, istituita nel novembre 1918, che peraltro doveva servire solo a sostenere la richiesta di danni dell’Italia alla Conferenza di pace, attribuiva, nel IV volume, agli stupri la qualificazione giuridica di “delitti contro l’onore femminile”.
L’attenzione della Commissione d’inchiesta naturalmente non era rivolta alla situazione “di genere” delle vittime ma al significato che la violenza sessuale aveva nella graduatoria valoriale della Patria. In questa, pur occupando un posto minore rispetto a quello dell’eroismo maschile e del sacrificio della vita in guerra, il tema dello stupro solleticava analogie ed implicava significati simbolici non irrilevanti visto che, come già detto, il corpo delle donne violate si configurava come un simbolo del corpo della nazione vinta ed umiliata.
Il VI volume pubblicato dalla Commissione si occupava della documentazione, delle deposizioni e delle testimonianze. In tale volume, tra gli “Allegati”, venivano anche raccolti i “Rapporti delle autorità locali” sollecitati dalla Commissione con la spedizione, il 27 novembre 1918, di un questionario ai Comuni nel quale, tra le altre cose, si chiedeva di accertare “se nelle terre invase la soldatesca nemica” si fosse abbandonata “a violenze contro le persone con uccisioni e ferimenti di cittadini inermi e con stupri di ragazze e di donne maritate, specificando i fatti e le singole responsabilità”.
Naturalmente la reticenza a parlare di tali esperienze traumatiche da parte delle donne, accompagnata da quella della comunità locale, preoccupata di attirare troppo l’attenzione su di sé per eventi di tale specie, rese meno attendibile il quadro finale.
Si tenga, inoltre, presente che si commise il grande errore di fare svolgere a uomini l’interrogatorio delle vittime, provocando una comprensibile reticenza per pudore e vergogna e favorendo il processo d’occultamento.
Tutto questo, naturalmente, non fece altro che inficiare le risultanze del lavoro della Commissione. E, comunque, il numero delle violenze indicate risulta tutt’altro che irrilevante: 165 quelle in cui compaiono le generalità delle vittime e si conoscono le circostanze e ben 570 quelle senza l’indicazione dell’identità delle donne ma accertate. Quello che appare è una sostanziale impunità per le violazioni commesse, considerate dalle autorità d’occupazione “reati minori” nel clima generale di guerra.
Le conseguenze degli stupri minacciarono il tessuto familiare locale perché, come già detto, nacquero molti bambini frutto delle violenze subite. Tutti questi “figli della guerra” o “figli del nemico”, come venivano appellati, non essendo degli orfani, formalmente non potevano essere accolti dai brefotrofi e, nello stesso tempo, era molto difficile che potessero rimanere presso le madri. Queste, ultime, infatti, se sposate, incontravano l’opposizione dei mariti, se nubili, quella di padri, madri, fratelli e sorelle.
Così si arrivò, nell’immediato dopoguerra, alla nascita dell’istituto “Ospizio dei figli della guerra” con il compito di accogliere questi bambini. Sorto il 2 dicembre 1918 a Portogruaro, in provincia di Venezia, quello che poi sarà l’istituto “San Filippo Neri”, iniziò la sua attività per iniziativa del sacerdote Celso Costantini e fu volto all’assistenza di quei bambini che, come si disse allora, in quanto “figli della colpa” non avevano “diritto di nascere” ma, pur tuttavia, avevano “diritto di vivere”. Ricoverò da subito più di un centinaio di gestanti che temevano le reazioni dei propri mariti tornati dal fronte e, più, tardi i neonati stessi, accogliendo anche “i figli della guerra” della Venezia Giulia, frutto della violenza degli stessi soldati italiani sulle donne giuliane.