#LEPAROLESONOIMPORTANTI: BARBARIE
Come mai è sempre più frequente nel dibattito pubblico?
di Rosella Corda
Come spiegare la parola “barbarie”? e come mai è sempre più frequente nel dibattito pubblico? Partirei dalla parola “barbaro”, dal greco “barbàros”, in cui la ripetizione di “bar” aveva in origine la funzione onomatopeica di richiamare una difficoltà di articolazione verbale. Barbaro si diceva di quel soggetto che avesse problemi di linguaggio, dunque, a maggior ragione, venne a riferirsi allo straniero, che si esprimeva in una lingua sconosciuta. Per stigmatizzare il primo dato empirico, coglibile nel rapporto a un altro che si presentava nelle forme di una sua indecifrabilità, si utilizzò l’aggettivo barbaro, da cui “barbarie”. La connotazione particolarmente negativa si fece strada nel tempo, quando il senso della parola divenne “inciviltà”, alludendo evidentemente alla frequenza con cui questo incontro con l’altro si è per lo più presentato come scontro. Uno scontro di civiltà vissuto in un forte attrito culturale, in cui la linea di demarcazione dell’identità è passata attraverso il discorso, il logos, e da qui si è rafforzata nei termini di una resistenza, di un irrigidimento del confine, di un parlare che si fa propaganda identitaria, arma tra le armi, più che parola osmotica, di scambio, di contatto, di incontro – appunto. La parola “barbarie” ci racconta dunque di relazioni complicate, di rapporti di forza. È una parola interessante proprio perché portatrice di un marcato indice “differenziale”: non mette solo al centro la questione dell’identità, convoca sulla scena il rapporto fra le identità, rivelando dunque una pluralità originaria, un “polemos” problematico che anima profondamente la possibilità stessa di una comunità, dal momento che questa non è mai sola, ma sempre “fra”. Una comunità è sempre al plurale nella misura in cui è fra elementi disparati che si coagula il senso di una comunità per ravvivarsi nel tempo. Ma cosa c’entra la parola “comunità”, che di per sé indica un ritrovarsi affine, condiviso, con la parola “barbarie”, che invece indica il suo contrario, il diverso e al limite il difforme? Da un lato l’amicizia e dall’altro inimicizia, non sono forse contrapposte? In realtà, la parola “barbarie” è una di quelle “parole-film”, una di quelle parole dialettiche, che contengono in sé una sorta di movimento (ermeneutico). Detto in altri termini, è come se proiettassero una storia, un film, appunto. Ci fanno vedere un passaggio, che è un momento particolare, un cambio di stato, ma anche una via di fuga. Nel caso specifico, attraverso la parola “barbarie” vediamo non solo l’altro vissuto e interpretato in tutto il suo carico di pericolosità (inciviltà), ma vediamo anche l’originarsi di questa proiezione in una presunzione di superiorità basata sul linguaggio (fra i principali aspetti condivisi in una comunità). Pensando alla sintesi della storia che ci scorre davanti, la parola “barbarie” ci indica il costituirsi di un rapporto di forze e la sua possibile risoluzione a vantaggio di chi rimanga a dire barbaro all’altro. La “barbarie” allora ci rappresenta il teatro drammatico in cui si profila l’identità, un’identità che dunque, proprio perché polarizzante, è sempre differenziale, sempre al limite e sui bordi di un “confine”. Perché attualmente straborda la parola “barbarie”? Si è portati a dire che l’accelerazione del mutamento culturale attuale sia dovuto all’implementazione delle nuove tecnologie della comunicazione, pensiamo ai social, ma sarebbe sbagliato credere che sia la virtualità dei social, in sé e per sé, a portarci al limite della nostra identità, sul crinale di una sofferenza identitaria da cui individuare e additare “barbarie” varie. I social ci portano più che altro al simile, alla coazione a ripetere, all’identico, che è uno dei correlati possibili dell’identità. Quindi è vero in parte che il problema siano i social. Non è lì che si incontra l’altro, quel “nemico” che in realtà è l’opportunità più ricca di ritrovare l’amico in noi e l’avvicinabile nel distante preservato nella sua irriducibilità. I social hanno una responsabilità: sottraggono terra alle parole, sottraendo alle parole corpo. Disabituando al corpo a corpo, all’imbarazzo effettivo del corpo e ai suoi cangianti paesaggi emotivi, i social ci rendono inadeguati e inadatti al tu-per-tu con il primo altro che incontriamo, il nostro corpo. Ed è sempre più difficile gestire la complessità della vita affettiva. Dove passa la linea dell’inciviltà ora? Quale territorio demarca? La barbarie si annida sempre laddove si dà più importanza alla norma che al nome, alla legge che alla persona, alla parola rispetto al corpo, laddove le parole sono nate per mentire – essere altro dalla cosa – mentre il corpo no. La barbarie si annida sempre laddove si fa fatica a mettere al centro la persona, intesa questa come laboratorio di una “interculturalità” stratificata, continua, aperta. Posto che siamo tutti barbari rispetto alla verità domandata dal nostro corpo, in cui scorre la vita, la barbarie è una medaglia a due facce: amico-nemico e l’opportunità di costruire ponti invece che muri. Se la persona è al centro, i confini si dilatano e le negatività sfumano. E l’in-civiltà superabile.