VINCENTI: UNA PAROLA COMPLESSA
Dalla radice indoeuropea di “WEIK”, richiama i concetti di guerra, combattimento e forza
di Rosella Corda*
Successo, fama, trionfo. Popolarità. Credito, stima. Opportunità.Il mondo dei “vincenti” è a scorrimento veloce. Ma sono queste le parole che realmente esprimono e descrivono il senso di “vincere”? Oppure si cela, in questa patinatura finissima, solo l’effetto stratificato di una narrazione tanto retorica quanto effimera? Che significa “vincere”? Chi sono i “vincenti”? Un occhio veloce all’etimologia ci fa subito strada, avviandoci alla riflessione. Sono prevalentemente tre, i significati che si possono riportare alla storia di questa parola. Due richiamano l’origine latina, il terzo fa riferimento a quella di matrice indoeuropea. Nei primi due casi, “vincere” si riporta a “soggiogare” e, in una analisi più sottile, ricollegando il termine a “VINCÍRE” come sua prossima variante, a “soggiogare” nel senso proprio di “vincolare”, ovvero legare mediante un “VINCULUM”. Vincere, allora, significherebbe avere la meglio su di un vinto. Le figure che si profilano sono allora due: un soggetto che lega e l’altro che risulta legato. “Vincere” è una parola chiaramente polemos, rimanda cioè a più soggetti che delineano insieme un contesto o, meglio, uno schema di gioco. Insiste nel termine una dualità che va ulteriormente approfondita – un po’ come si è già avuto modo di vedere in questa rubrica, ripensando la parola “barbarie”. Si diceva, inoltre, di un terzo significato del termine, che concorre a rimarcarne l’aspetto sostanzialmente dialettico. L’italiano “vincere”, macroscopicamente vicino all’inglese“TO WIN”, derivante a sua volta dalla radice indoeuropea di “WEIK”, richiama i concetti di guerra, combattimento e forza. La dinamica che si intravede potrebbe allora essere rappresentata da un’immagine di questo tipo: un confronto tra due forze che si commisurano vicendevolmente. Due soggetti, dicevamo, in gioco nella stessa partita, rispetto a cui “vincere” vorrebbe dire aggiudicarsi cosa? Vedremo come, in un primo senso, il significato del termine si può spiegare nella logica di un’economia dell’“adaequatio”, ovvero della proporzione coerente. Ma sarà sufficiente fermarsi a questa piega del discorso? In un secondo senso, scompaginando i nessi della questione, vedremo come “vincere” non possa che riconfigurare interamente i termini del contesto, della partita, del gioco, della vittoria, passando attraverso le fasi di una commisurazione di forze in cui il protagonismo del vincente (colui che lega) passerà attraverso il necessario risvolto del perdente (colui che risulterebbe legato e costretto in schiavitù). Che significa giocare la stessa partita? L’”adaequatio” è forse proprio questo: la possibilità intrinseca del gioco, ovvero quel misurar-si in cui, evidentemente, si danno a priori delle regole che rimangono invarianti. Quando giochiamo una partita, sostanzialmente ci affidiamo a una cornice che dia stabilità al quadro. Il tempo e lo spazio di gioco sono inseriti in questo frame. Dall’inizio alla fine della conduzione del nostro sforzo, combattiamo confidando nella condivisa partecipazione a uno schema superiore in cui l’inimicizia della lotta, la differenza di posizioni spese in campo, è a priori compensata dal vincolo di un’amicizia di fondo che lega gli avversari e fa degli avversari ciò che sono. Questa amicizia è appunto un adeguar-si, un sottostare alle stesse regole del gioco. Alla possibilità intrinseca, dicevo, di giocare la stessa partita. Solo questo vincolo preliminare fa sì che ci sia il vincolo secondario del vinto e del vincente. Ma se saltano le coordinate statiche di un tempo e uno spazio fissi, se salta la possibilità del fuori-gioco perché il limite è continuamente mobile, se la natura convenzionale e artificiale delle regole mostra il suo volto inquietante, ha ancora senso parlare di una lotta in cui ci si commisura vicendevolmente? Se guardiamo alla microfisica di questi rapporti di forza, appuriamo l’elemento che davvero definisce la posta in gioco del combattimento, ovvero la circostanza per cui nessuna commisurazione è davvero possibile, laddove “adaequatio” e “misurazione” sono smascherate nel loro significato di convenzione artificiale più o meno condivisibile. Chi decide le regole del gioco è la vera questione, che si declina nei termini di un problema di modalità. Come si stabilisce o stabilizza un frame? Quando il gioco si fa serio, combattere è innanzi tutto una commisurazione impossibile perché sostanzialmente aberrante. Come si diceva a proposito di “dignità”: è incommensurabile la singolarità di un processo di soggettivazione, cioè di quel processo che dà luogo a una personalità. Chi sono i vincenti, allora? Mettiamola così, ci sono vincenti di primo grado e vincenti di secondo grado. Ci sono quei vincenti che dicono di “esser nati per vincere” e invece semplicemente entrano in una economia di gioco dove sono già vincolati a uno schema precostituito, che può consegnare loro il triste premio di un soggiogare l’altro dopo aver soggiogato se stessi, nel segno di una “prepotenza pacifica”, una sorta di giustizia di basso profilo in cui, secondo un cinismo da lupi, si pensa: si combatte, si muore, meglio muoia tu che io – ignorando un dato di fondo, ovvero che nessuno è slegato dalla condizione di mortalità, così come i greci bene ci hanno insegnato, chiamando l’uomo “il mortale”. Questi sono i “vincenti” che presumono di vincere. Poi ci sono i “vincenti” che presumibilmente perdono. Quelli che hanno saggiato la sofferenza dell’inadeguatezza.I vincenti di secondo grado. Costoro non vincono mai la partita perché hanno sostanzialmente messo le mani sulla serietà del gioco nel suo complesso. Hanno perso, ma hanno perso tutto. Hanno messo in gioco non una piccola parte di sé, ma tutto. Hanno scommesso per davvero. E qui hanno svelato il portato rivoluzionario della dignità. Quel merito incommensurabile che slega a priori dall’effimero e consegna a una dimensione superiore: quella dell’invenzione e della creatività. Per vincere davvero, superando le convenzioni, non basta vincere-qualcosa. Occorre andare oltre, aprire nuovi tavoli di gioco. E un tempo nuovo. Come dire: sapersi pesare al netto dei venti a favore e dei venti a sfavore.E continuare a navigare. I vincenti allora, non sono de banali bravi giocatori, ma rivoluzionari fuori-classe.
PhD. Filosofia e Storia*