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S COME SCEMITA’

L’integrale paradosso di un femminile imprevisto

di Rosella Corda*
Praticare rovesciamenti sarebbe poca roba… Un modo come un altro per mantenere intatto un paradigma nei suoi riferimenti sostanziali. Invece qui si tenta di spiegare, senza però in alcuna misura pretendere di risolvere, in un senso assoluto, i significati che si dischiudono. La lettera di oggi è S come “Scemità”, il cui correlato soggettivo sarebbe lo “scemo”. Le domande allora sono, come al solito, che significa “scemità” e chi è lo “scemo”. Giocando sul pretesto di una immediata etimologia, scopriamo che, dal latino, questa parola ha a che fare con il “mezzo”: SEMUS. Con questa parola, dunque, ci arrischiamo nel mezzo di una questione sostanziale: la mancanza, il difetto, la privazione significata, indicata dalla Metà e dall’Altra-Metà. Si tratta, lo premetto, di una parola particolarmente terribile, perché nei suoi significati tende a disarticolare il tema della relazione e del rapporto, con il conflitto che ne è naturalmente alla base, in termini di negatività patita. D’altronde, secondo le nostre abitudini discorsive, dare dello “scemo” a qualcuno non è certamente un complimento. Ma è tutto qui, in questo rimproverare a qualcuno e qualcosa la responsabilità di una carenza, il senso del termine? Le questioni, in genere, pongono dei problemi. Il problematico non ci indica solo qualcosa di non facile risoluzione. Ci indica, innanzi tutto, l’indecidibilità di qualcosa. Le questioni importanti, quelle, appunto, decisive, sono tali in quanto ci pongono di fronte a un dubbio che non si può ridurre a un dubbio su qualcosa-o-qualcos’altro, ma più propriamente a un “sospetto” radicale. Il sospetto di trovarsi nel mezzo di una vicenda in cui, mettiamola così, non sia sufficiente individuare una porta e bussare, immaginando già chi si trovi dall’altra parte a riceverci emettendo in scena le abituali convenzioni linguistiche, nel solito commercio di pratiche sociali. Il sospetto tremendo per cui la parola-chiave non abbia ancora alcuna porta – e che, fatto ancora più spaesante, ci si trovi in un corridoio di porte senza serrature, con maniglie finte. Scemo potrebbe apparire, allora, chi insiste a utilizzare la chiave sbagliata – quando, in realtà, sta usando una chiave nuova, pensata al di fuori delle combinazioni con le matrici date. Una parola-chiave scombinata. Scempia, appunto. Ma è possibile una chiave senza serratura? Il calco e la matrice vanno in serie doppia. C’è una ridondanza propria di ciò che è problematico. Ma il problematico è l’empio, il folle per eccellenza. E anche qui, esiste davvero una eccellenza? Esiste, piuttosto, una stra-ordinarietà che domanda la costruzione della sua porta – e della dimensione nuova che questo può dischiudere. Quindi una eccedenza, un oltre, un altrove. Ciò che resta dopo lo scempio – dallo smembramento. Si tratta, insomma, di addentrarsi nel tema dell’eccedenza, della diversità, tradotta, per malafede, in difetto. E si tratta, quindi, della logica della corrispondenza a un modello posto a priori come corretto e giusto. Se “scemità” è metà-di, lo scemo è chi manca di qualcosa. Qual è il modello presupposto in questa logica? Esattamente la logica: quella ordinaria struttura di ragionamento basico che ci accompagna in quel commercio di pratiche sociali di cui sopra. Ovvero la convenzione, più sociale che metafisica, che ci sia un ordine dato, assunto come invariabile di riferimento. Assurta a parametro sacro, che consente così di operare qualunque sacrificio: giudicando. Additando questo o quello di esser-scemo. L’accusa peggiore, la più subdola, quella mette in questione la verità di una persona, il suo essere “intera”: manca di qualcosa, manca di – senno. Ovvero disadattata, in condizione di scarto – smembramento, appunto. Il problematico della questione, allora, concerne la validità dell’assunzione a-problematica di questo modello apriorico. Ma cosa sta succedendo nel nostro ragionamento? Accade che pensando, pensando, la situazione di quel corridoio dove se ci sono dei “mezzi” – mezzi-scemi e “mezzi” intesi come strumenti – che non si sa come si possano meglio usare, non è poi una situazione di totale svantaggio. Comincia a profilarsi, pensando pensando, una condizione di assoluta creatività in cui si è al di sopra o al di là del modello, nello scarto prezioso tra calco e matrice che fa sì che un pezzo difettoso sia l’incastro giusto di un nuovo ordine: il pezzo prima dell’intero. Il pezzo di un intero avvenire.
Questa condizione terribile, di scemità, di inferiorità (presunta e in molti casi assunta e sussunta) è stata per secoli ed è ancora, quella del femminile. Non dico “donna”, sarebbe già fin troppo “territorializzato” (ovvero individuato e risolto in cliché). Dico “femminile” nel senso stra-ordinariamente pieno di una eccezionalità e eccedenza che percorre e, soprattutto, precorre, ogni genere e ogni categoria: ogni modello. La potenzialità realmente rivoluzionaria del femminile è tutta qui, in questo “intero” del non ancora, che è anche il paradosso di una soggettività che non può essere pensata in riferimento-a ma deve dischiudere riferimenti nuovi. In altri termini, che non può accontentarsi di essere pensata alla-pari-di, ponendo l’a priori di un modello maschile (che poi è il soggetto classico della nostra tradizione occidentale: maschio, bianco, “razionale”, ecc.), come fosse pura “scemità”: mancanza-di. Deve invece pensarsi secondo le modalità nuove di un intero che sia un Integrale, che ponga cioè le basi di una soggettività in fieri, aperta, pensata per se stessa ma senza un Volto-chiave che ne risolva una volta per tutte l’identità. Bella, madre, donna, compagna, lavoratrice. Di-più. Una soggettività che non possa e non debba più patire scarti e sia invece il post-modello del “minore”, cioè di tutto ciò che integrale e in-divenire sia la differenza come valore aperto.Scemo, dunque, chi è? Se vogliamo accettare il termine come “offesa”, ovvero come lesione dell’integrità altrui, possiamo solo dire che “scemo” non è alcuno e che la condizione di “scemità” si pone solo per malafede, nella convinzione erronea, cioè, che si dia il suo contrario, cioè un soggetto perfetto, impeccabile, nato-adeguato. Dire “scemo” a qualcuno, al di fuori della ridondanza che sta tutta nel fatto che scemi siamo in realtà e per fortuna tutti, non può che svelare la presunzione – falsa – di voler soggiogare l’altro nel conflitto delle divergenze: farsi-scemi e fare-scemi. Ovvero nel voler tradurre-l’altro, ma prima ancora se stessi nello specchio delle reciprocità, nella cifra di una inadeguatezza negativa. Portare l’Altro sul terreno meschino della negatività. E resistere a questa malevolenza è proprio il compito del femminile – e di ciò che può integralmente rappresentare.
*PhD Filosofia e Storia

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