O COME ONESTA’
Cosa significa e dove guarda il senso di questo termine, più al futuro o a un ideale passato?
di Rosella Corda (PhD Filosofia e Storia)
Parola di grido: O come Onestà. Rivendicata, urlata, parola chiave che dovrebbe aprire le porte di un rinnovato senso del politico e del bene comune. Allora cosa significa “onestà” e dove guarda il senso di questo termine, più verso il futuro o verso un remoto e ideale passato? Ci sono concetti che tendono al futuro e concetti che invece tendono al passato. Ma di quali tempi parliamo? Il concetto non è un’attitudine del pensiero, bensì delle parole. Il pensiero, o l’idea attraverso cui il pensiero instrada i suoi collegamenti, agisce, come G. Deleuze insegna, attraverso “lucori differenziali”. Si tratta di qualcosa che precede l’immagine mentre le dà corpo, nel chiaroscuro. Il pensiero opera per intuizioni e concatenamenti, pressoché inafferrabili nella loro mutevolezza, frenesia, frequenza. Inarrestabile, fino all’ultimo. Scorre un tempo infinitesimale tra le operazioni del pensiero e il tentativo di afferrarne e comunicarne il transito. Il concetto è questo tentativo di metà strada. Lo strumento della parola che, come una mano di forbice, ritaglia, sagoma, profila. Come si diceva, le cose sono in un aldiquà dalle parole e, a maggior ragione, dai concetti. Questi possono solo tentare di afferrarle, mentre in realtà, esse rifuggono. Perciò, quando si parla, si parla di sé. E quando si tenta di afferrare qualcosa, è innanzitutto un qualcosa di sé che si cerca di cogliere. Cosa vuol dire questo ripiegamento su chi pensa, parla, scrive? Vuol dire esattamente riflessione. Ma, come accade per gli specchi, accade che questi, a seconda delle angolazioni attraverso cui li si inquadra, rimandano a tutt’altro che a se stessi. A un mondo fuori, infinitamente fuori. Perciò i concetti sono a metà strada, fra questo Dentro e questo Fuori rappresentato da una linea riflettente. Una sorta di “orizzonte degli eventi”. Il passato e il futuro si distribuiscono così. Sono frecce che orientano il pensiero, la parola, i concetti. Mentre il presente è il luogo del calco. Si parla nel presente – quel tempo che ci presenta sia il passato che il futuro. Il concetto è un tentativo estremo, al limite, di presentificazione. Eppure ci sono concetti orientati al futuro e concetti orientati al passato. Concetti tristi e concetti gioiosi. Come riconoscerli? In base a come si rapportano al “calco”. Il calco è la presa che le parole (o le immagini) producono sulle cose – sugli eventi. Siamo circondati e sopraffatti da calchi di ogni tipo, quasi da non poter intravvedere altro. Telecomandati dai calchi, si vive pre-orientati, in un presente che non va da nessuna parte. Sta come un anello fuori da ogni catena. Scatenato ma a zero potenziale (di connessione). O meglio, il potenziale c’è, la differenza si produce continuamente, ma è come silenziata dall’effetto analgesico del calco. Ci sono differenze che però stridono particolarmente e da lì riprende il movimento delle immagini, delle parole, dei concetti. Da un pensiero che non quadra. Si diceva, però, che il concetto può tendere al passato o al futuro. Il differenziale rispetto al calco, all’immagine che scade, può sbilanciarsi all’indietro o in avanti. È così che si giocano le lotte tristi o le lotte felici, la resistenza passiva o la resistenza attiva, le rivoluzioni che si traducono in restaurazioni e la chance di una rivoluzione sempre possibile. E la parola “onestà” dove va? Dove pende? Basta osservare il calco. Per passato si intende il rapporto che il differenziale instaura con il modello. Se io penso a una cosa, non penso mai la cosa, ma tramite la cosa (per provocazione) e attraverso un’altra cosa (immagine/parola che mediano). L’inaderenza, ovvero l’inadeguatezza sostanziale tra parole e cose fa sì che si produca sempre uno scarto ed è quello scarto che promuove ulteriore ricerca (di significati, significanti e senso). Ma se la parola riposa sul calco, è chiaro che il differenziale è perequato e il presente torna statico sul passato di quel modello, che appunto è stato assunto in precedenza. C’è chi – a parole – si accontenta… E vive di cliché. Allora qual è il calco cui la parola “onestà” fa riferimento? Mantiene o non mantiene vivo il rapporto, inteso come differenziale tra le cose e le parole e, prima ancora, tra la realtà del pensiero e la realtà delle cose pensate e pensabili? “Onestà”, piuttosto facilmente, viene dal latino HONESTUS, con la stessa radice di HONOR. Insomma, il calco della parola “onestà” rimanda alla parola “onore” e la parola “onore”, in termini di significato, rimanda alla parola “dignità”, che si è già avuto modo di analizzare. La parola “onestà” richiama la parola “dignità”. Si è onesti nella misura in cui si è degni – il che, di per sé, non vuol dire niente. O meglio, il senso del discorso e il rapporto al calco si chiarisce rispetto al senso e al significato assunto dal termine “dignità”, che abbiamo già detto significare “merito” e, nello specifico, non un “merito” prestabilito, un sigillo sulle carte, ma qualcosa di strutturalmente aperto, “differenziale”, come il paradosso di ciò che è fermamente-aperto nella autodeterminazione sempre a venire. Quindi anche la parola “dignità” può essere una parola al passato o una parola al futuro. Se ricade dal lato di una riflessione spenta, che si appaga del proprio modello, un merito prestabilito, è una parola dal senso saturo, un presente che,dormendo sul calco, non va da nessuna parte. Se invece ricade dal lato di una riflessione vivida, coglie il differenziale e rilancia verso un’apertura nuova. Una utopia del differenziale. Un’altra possibilità di pensare, dire, rappresentare. Dunque se la parola “onestà” viene pensata rispetto a un calco nel senso di adeguarsi a un merito predefinito, preassegnato, diventando una caricatura, produce solo “maschere oneste”, non persone oneste. Strillare onestà è ancora troppo poco. Se invece la stessa parola si pensa in ordine all’orizzonte degli eventi dischiuso dall’autodeterminazione, allora diventa una fucina di futuribili. Ma per far ciò, per sentire la frizione del differenziale e farne nutrimento, occorre la modestia del paradosso. Una tale onestà intellettuale sa bene che non si dormono sonni tranquilli quando si vuole fare la rivoluzione vera, mettendo in gioco l’autodeterminazione piena e stridente delle persone, delle comunità, dei popoli.