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M COME MEDIOCRITA’

Nell’epoca delle tanto rivendicate e rilanciate “eccellenze”, che senso ha parlarne?

Di Rosella Corda ( PhD Filosofia e Storia)

Nell’epoca delle tanto rivendicate e rilanciate “eccellenze”, che senso potrebbe avere parlare qui di “mediocrità”? Forse perché una riflessione sui chiaro-scuri di questa parola potrebbe far luce sulle fitte trame di una politica delle risorse umane in cui di eccellente ci sarebbe solo il mediocre – mentre di un’altra mediocrità occorrerebbe far tesoro? Proviamo a capirci. Si tratta, in questo caso, di una parola che richiama altro genere di simboli. Quali? I numeri. La parola “mediocrità” è tutta intessuta di numerabilità e calcoli. Ovvero di quella materia di cui, attualmente, sono per lo più nutriti i discorsi circa la gestione delle risorse umane. Non sto – ancora! – affermando che l’attuale gestione “economicista” delle risorse umane sarebbe,a più livelli, una mediocre sovrascrizione di dati numerici su dei volti così sfigurabili. E tuttavia ci arriverò gradualmente.  Che significa “mediocrità”? Partiamo da “mediocre”, dal latino MEDIOCREM, a sua volta da MEDIUS, che vuol dire semplicemente “medio” nel senso di “mezzo”. “Mediocre” vorrebbe dire stare in mezzo, tra due estremità. Immaginiamo un punto che lampeggia su una linea e assegniamo a quel punto il valore di M. M è il nostro elemento mediocre. Si trova in mezzo, senza soluzione di continuità, tra elementi disparati, come un più o un meno rispetto ad altro da sé. M è l’elemento mediocre, soggetto solo a valutazione e, in questo senso, a svalutazione necessaria. È il punto labile dell’approssimazione: M è più meno lì ma non nel senso di una non meglio precisabile condizione; piuttosto, la sua definibilità rispetto a una misura del “più-o-meno” ne fa l’approssimabile per eccellenza. Avendo introiettato la misura, M è in grado di opportunamente avvicinarsi e allontanarsi dal fuoco. Infatti, essere soggetto a valutazione fa di M un candidato Ideale. Egli incarna la misura, le presta volentieri il proprio volto. Ma la misura cambia ed ecco cambiare anche il profilo di M. Un po’ qui, un po’ lì, a seconda delle occasioni e del metro per misurarle. Che significa misurare? Misurare vuol dire contare quante volte una stessa grandezza è contenuta in un numero. Ciò richiede che preliminarmente sia definita una unità di misura, rispetto a cui si può procedere al confronto. L’essenza del mediocre è proprio nell’astrattezza di questa elaborazione elementare. M è più o meno lì, attraverso il MEDIUM di una misura astratta che consente di allocarlo. Ma queste unità di misura regine cambiano a seconda dei calcoli da effettuare, sicché la valutazione può mutare diventando aberrante. Rischio e virtù della “moderazione”. Intanto, prima delle virtù della moderazione, occorre ulteriormente chiarire in che senso la valutazione, cui M si sottopone, diventi una svalutazione necessaria. Introiettare quell’unità di misura significa, per M, una notevole facilitazione. Può fare paragoni, può, quindi, non sentirsi isolato. È più-o-meno-di qualcun altro. Rientra a pieno titolo in una gerarchia, eventualmente perfino scalabile. Ma allora perché tale condizione sarebbe una svalutazione necessaria? Semplicemente perché funziona solo in astratto. L’artificialità di certi calcoli offre numerosi vantaggi, all’unica originaria condizione di vendersi l’anima. Introiettare una misura regina, un modello, un calco, significa una alienazione originaria, un compromesso di fondo, una corruzione in

sanabile. Perfino la Bellezza può diventare una dannazione, se introiettata in termini di modello rispetto a cui misurare tutti gli scarti che così veniamo a rappresentare. Sicché, in rapporto a quel comando, si è sempre in una posizione di soggezione e svalutazione. Quanto più mi commisuro, tanto più mi svaluto. Porto la mia identificazione sul piano di una perdita di identità necessaria. È la ripetizione del calcolo: il divenire-manichino. Il divenire-artificiale. Competere è una declinazione di questa astrazione. Certo, alla logica dell’efficientismo economico delle risorse umane una giusta dose di divenire-artificiale, calcolabile, controllabile, sembrerebbe  procurare notevole vantaggio pratico. Salvo poi rendersi conto che il corpo di un esercito di soggiogati, cui tutti prendon parte come punti lampeggianti lungo una linea, non giova ad alcun piano nella profondità creativa richiesta dalla reale variabile temporale. Perché? Che succede realmente? Accade che la condizione di mediocrità, quello stare sempre in mezzo a tutti gli affari del mondo a temperatura indolente, si alteri, inceppando il meccanismo del divenire-artificiale. Dall’indifferenza propria del mediocre, che conosce solo emotivismo avendo e radicato l’affettivo, si passa al desiderio di far valere la propria differenza. E il calcolo si fa così aberrante. In tal caso, non ci sono unità di misura che possano soggiogare in una valutazione, che infine svaluta perché ha svalutato già da sempre e a partire dall’inizio del discorso. Non si è più al cospetto di “eccellenze”, quegli indici di M valutabili perché assoggettabili a degli standard. Si è piuttosto di fronte a delle “eccedenze”, quello che rimane, quello che resta fuori dalla cornice, fuori-quadro. Forse un’aurea mediocritas intesa come preziosa moderazione, quello “stare-tra” di un ponderato potenziale differente? In effetti c’è una pratica dello stare nel mezzo che sa portare a valore ogni valutazione, semplicemente perché capace di criticarne e smascherarne gli apriori, ovvero le condizioni che ne sono a capo e che possono inficiarne sviluppo e crescita. C’è un modo diverso di intendere il “capo”. Non più e non solo come misura che grava sulle cose, ma come misura che parte dalle cose per se stesse, per portarne a valore la singolarità ed eccezionalità. Si tratta forse di gruppi aberranti, di difficile amalgama. Ma se si punta all’innovazione nel senso della reale apertura al tempo che muta, allora non si può non investire nelle persone e nelle persone come valore a sé.

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