QUEL BENIAMINO PLACIDO DALLE MILLE CULTURE
Era nato a Rionero in Vulture il 1 febbraio 1929
il presidente del processo a John Rambo, il terribile ex soldato del Vietnam, diventato il simbolo dell’Imperialismo Reganiano; amato dai giovani ma detestato dalla intellighienza di sinistra, anche in Italia. Eppure il ribelle Rambo, era un italo americano di padre e amerindo, esattamente navajo da parte di madre, si proprio quelli di “Aquila della Notte” Tex Willer, altro personaggio dei fumetti che in Italia fece nascere il dibattito se fosse di destra o di sinistra. Il processo fu organizzato dalla Federazione giovanile comunista italiana di Bologna. Siamo nel 1985,, tra i giurati Umberto Eco, Renato Nicolini e Michele Serra. Il presidente era l’intellettuale lucano. Ebbene Rambo fu assolto, non poteva essere diversamente; era pur sempre un reduce trattato male in Usa; sia da chi non perdonava che avessero perso la guerra contro i rossi Vietcong, sia da chi li accusava di essere assassini di innocenti, civili e bambini. Il presidente lucano al termine del «processo concesse l’assoluzione a Rambo «[…] per via della pochezza complessiva dimostrata condannandolo, però, a un congruo periodo di decondizionamento presso Madre Teresa di Calcutta» (B. Placido et al., in L’Affare Rambo, www. youtube.com/watch?v=Ogvq6HXsPz4). Fonte Treccani». Libero e libertario lo era sempre stato; controcorrente con coerenza, mai accodato a mode o pensiero unico. «Addio amato nemico È stato bello litigare con un critico come te» scrisse il professor Vittorio Sgarbi sul “Giornale” quando il 6 gennaio 2010 a Cambridge ci lasciò l’uomo dalle mille cultura e poi sempre il critico d’arte scrisse « Meridionale colto, lucano, evase con il sogno americano e con la passione per quella letteratura entro la quale era «immigrato» più di quanto non lo fosse a Roma. Dotto e brutto, Beniamino Placido era facile da prendere in giro per l’aspetto, per il vistoso naso, ma il suo pensiero era sottile, mai banale (come quando fece indispettire i suoi colleghi di sinistra dichiarando che l’Einaudi era stata faziosa e partigiana nella scelta dei titoli e nell’indicazione di una linea culturale) e la sua prosa arguta, divertente anche quando era dissacrante (intendo non in astratto ma contro di me, suo amministrato, suo beniamino, anche se criticabile, criticabilissimo)». Beniamino Placido era un Lucano verace, figlio di a Maria Nucci – di estrazione borghese, figlia di un maestro elementare – e da Michele, di origine contadina, nato a Rionero In Vulture il 1 febbraio 1929, quella terra e cultura contadina la portò sempre nel cuore. Una vita dura, a 8 anni orfano, il padre morì «nel 1937 in Eritrea ad Asmara. Adolescente, ogni mattina, assieme al fratello maggiore Valentino, raggiungeva Potenza con la corriera per frequentare il ginnasio al liceo classico Quinto Orazio Flacco. Studente modello, era amante dei grandi classici, soprattutto l’Iliade e l’Odissea, che influenzarono enormemente tutto il suo lavoro. Sulla corriera che lo riportava a casa divorava anche la Gazzetta dello sport; era infatti un acceso tifoso juventino e usò spesso le metafore sportive per raccontare il nostro Paese. In quegli anni cominciò a elaborare una visione politica che lo portò, dopo la guerra, a simpatizzare con il Partito d’azione (PdA) – fonte Treccani». Poi il trasferimento della famiglia a Roma, quartiere Trieste, anni duri di economie per poter vivere e di duro studio, Placido frequenta La Sapienza, materie letterarie e si appassiona alla cultura angloamericana. «Placido divenne un punto di riferimento e un amico fidato per tanti studenti meridionali che approdavano nella capitale. Fu così per Stefano Rodotà: «Se ci fu qualcosa che me lo fece subito sentire vicino, questo fu proprio il bisogno di gettare l’occhio su tutto, o quasi, senza esclusioni intellettualistiche o snobistiche. E dunque avanspettacolo e grande critica letteraria, calcio e università, generi nascenti ed esperienze in via d’estinzione, attenzione politica e rigoroso pettegolezzo. Discutendo o chiacchierando con lui, si avvertiva che egli non proponeva gerarchie, ma criteri rigorosi di giudizio» in Caro Beniamino, 2006, pp. 21-23)». Spirito irrequieto e fantasioso, come i suoi continui cambiamenti di prospettive culturali, a 29 anni vince un concorso, di quelli importanti: funzionario presso la Camera dei deputati. Lavorò nella direzione dello schedario elettronico con il coetaneo Antonio Maccanico, poi segretario generale della Camera dei deputati e anche Ministro delle poste e delle telecomunicazioni , promotore di una riforma televisiva che Placido visse in prima persona, e poi presso la commissione agricoltura, lui di origine contadina del Vulture. Poi un’altra svolta, approfitta delle baby pensioni e si dedica dal 1973 anima e corpo alla scrittura, al giornalismo, alla critica letteraria, soprattutto americana, con un approccio originale e innovativo per quei tempi. Ma la svolta fu nel 1976, il 20 gennaio inizia a collaborare con la neonata Repubblica di Eugenio Scalfari, con una fortunatissima rubrica letteraria. Poi l’intuizione, dieci anni dopo con la critica televisiva. fino a quel tempo considerata un’attività di basso profilo e non per veri intellettuali. La Tv, amore e odio per Placido: «Dicono che la televisione fa male alla Cultura. Ma quante sono le persone – uomini e donne indifferentemente – che vanno in giro orgogliose di sé; che si propongono come persone culturalmente esigenti solo perché “non guardano la televisione” (almeno ufficialmente)? Non parliamo di quelle altre persone – ancora più audaci – che la televisione addirittura non ce l’ hanno. Ne sono così intimamente soddisfatte che tendono a portar la testa come se fosse il Santissimo Sacramento. Magari non conoscono nessun canto di Dante a memoria. Di Giacomo Leopardi ricordano solo la gobba. Alle Mostre, che attivamente frequentano, si distraggono. Ai concerti (hanno l’ abbonamento) si addormentano. Pensieri particolarmente originali non ne formulano» e poi «La televisione presenta un mondo fatto di facce e di facciate, di immagini. Ti fa credere che è tutto lì. Ti fa dimenticare che dietro quelle facce, quelle facciate c’è un altro universo. Che lei, la televisione, non ha modo di esplorare.». Poi la tv, con quel fortissimo accento rionerese che non si tolse mai, con quell’aspetto alla Woody Allen lucano, programmi fortunati e seguitissimi, colorati di cultura e ironia, «Erano programmi in prima serata caratterizzati da una conduzione sobria e ironica con gli ospiti più vari. Placido aveva un forte accento lucano, pur parlando bene tre lingue, rassomigliava a Woody Allen ed era sempre vestito come appena uscito di casa per comprare il giornale. Ma conquistava gli spettatori, soprattutto quando cercava di usare un computer per parlare di Karl Marx mentre quello si ostinava a mostrare i fratelli Marx. Nessuno aveva mai trattato così la cultura in televisione Nel 1994 accettò l’offerta di Angelo Guglielmi per realizzare, assieme a Indro Montanelli, Eppur si muove, cambiano gli italiani? (RAI 3, 1994), un tentativo di definire l’Italia e il carattere degli italiani, sempre sospesi fra tutto e il contrario di tutto: un ‘italiano’, in sintesi, contemporaneamente furbo e fesso, mammone e maschilista, drammatico e melodrammatico, coraggioso e vigliacco cit. Aldo Claudio Zappalà – Dizionario Biografico degli Italiani». Poi la malattia, ma scriveva lo stesso e sempre e riprese a studiare, questa volta greco antico e l’ebraico. Al cinema è apparso nei film di Nanni Moretti Come parli frate? (1974) e Io sono un autarchico (1976), in Porci con le ali (1977) di Paolo Pietrangeli e in Cavalli si nasce (1989) di Sergio Staino, mentre in televisione nei programmi 16 e 35 (1978), Serata Garibaldi (1982), Serata Manzoni (1985) ed Eppur si muove (1994)..