URSULA FRANCO SCAGIONA STEFANO BINDA : LIDIA MACCHI UCCISA DA UN SERIAL KILLER
Questo è un cold case e quindi guardare ex novo alla ricostruzione dei fatti è cruciale. A mio avviso, dagli atti d’indagine non emerge nulla che induca a pensare che Lidia conoscesse il suo assassino e non vi è alcun dato investigativo che possa supportare un eventuale movente sessuale, anzi il contrario. L’ipotesi più probabile è che Lidia sia stata una vittima casuale di un predatore violento che aveva premeditato un omicidio e lasciato al caso la scelta della vittima.
«Lidia uccisa da un serial killer»
La criminologa Ursula Franco scagiona Stefano Binda: l’assassino è un predatore sconosciuto
La risposta della Corte d’Assise di Varese è nota: è stato l’ex amico tossicodipendente Stefano Binda, per questo condannato all’ergastolo. Ma nel 2019 la difesa spera di ribaltare questo verdetto in un processo d’appello che non è stato ancora fissato.
Un processo in cui gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli utilizzeranno anche una consulenza della criminologa Ursula Franco, che in passato si è occupata tra l’altro del caso Elena Ceste e che oggi ricostruisce l’omicidio di Lidia Macchi del 1987 in modo inedito.
E dunque, dottoressa Franco, chi ha ucciso Lidia?
«Non lo sapremo mai. Il nome dell’assassino non è agli atti»
La sua ricostruzione delle ultime ore di vita di Lidia e dell’omicidio è diversa da tutte le altre: perché e perché è fondamentale per lei tornare a quel giorno?
«Questo è un cold case e quindi guardare ex novo alla ricostruzione dei fatti è cruciale. A mio avviso, dagli atti d’indagine non emerge nulla che induca a pensare che Lidia conoscesse il suo assassino e non vi è alcun dato investigativo che possa supportare un eventuale movente sessuale, anzi il contrario. L’ipotesi più probabile è che Lidia sia stata una vittima casuale di un predatore violento che aveva premeditato un omicidio e lasciato al caso la scelta della vittima. Il contesto è la chiave, la Macchi raccolse il suo assassino in un luogo particolare, un ospedale, in cui un abile manipolatore – e tali sono spesso i predatori – avrebbe saputo conquistare la fiducia della sua vittima. Con tutta probabilità Lidia e il suo assassino rimasero insieme pochissimi minuti, il tempo che impiegarono per raggiungere il bosco di Sass Pinì e il tempo della commissione del delitto. Che alla guida dell’auto al momento dell’aggressione ci fosse la povera Lidia è inoltre provato dalla posizione avanzata del sedile del guidatore e dalla dinamica dell’aggressione, con l’assassino che scende dall’auto, apre la portiera del guidatore e sferra le prime coltellate, e con la vittima che si sposta sul sedile del passeggero, esce da quel lato e muore accanto alla macchina».
Parliamo del movente, che per lei non è sessuale.
«Il movente dell’omicidio non è un movente sessuale per l’assenza di segni sul cadavere, di segni sugli abiti della vittima e di segni sulla scena del crimine riferibili ad una violenza sessuale o alla consumazione di un rapporto sessuale consenziente. Il ritrovamento di sperma all’interno della vagina della vittima ha indotto gli inquirenti a credere che Lidia avesse avuto un rapporto con il suo assassino, ma a mio avviso si può escluderlo e le conclusioni dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo che indicano “in un intervallo tra i 30 minuti e le tre ore prima della morte” l’orario in cui Lidia ebbe un rapporto sessuale, permettono di ipotizzare che quel rapporto sessuale risalga al pomeriggio del giorno della sua morte e che nulla abbia a che fare con l’omicidio. Purtroppo, nessuno ha mai approfondito i movimenti di Lidia e di altri di quel pomeriggio».
La lettera anonima è una confessione?
«È proprio la corretta ricostruzione della dinamica omicidiaria che ci permette di escludere che chi scrisse la poesia “In morte di un’amica” volesse confessare il delitto o ne fosse l’autore. La poesia è stata scritta da un soggetto che non aveva altre informazioni riguardanti il delitto se non quelle rese pubbliche dai media, dalla famiglia e dagli amici, con l’ipotesi di un’uccisione durante un tentativo di stupro. Parrà paradossale ma attribuire la lettera/poesia a Stefano Binda equivale ad escludere che lo stesso sia l’autore dell’omicidio».
Secondo lei quanto ha pesato, nella valutazione dei giudici, il passato di Binda, la sua tossicodipendenza?
«Stefano Binda è la vittima ideale di un errore giudiziario. Non c’è nulla nei tre decenni di vita di Binda post 1987, che gli inquirenti e i giudici hanno potuto mettere sotto la lente d’ingrandimento, che possa supportare l’idea che sia l’autore di un delitto che ha tutte le caratteristiche di un omicidio commesso da un assassino seriale».
Chi potrebbe scagionarlo?
«Sono tre le persone che potrebbero scagionare Binda: l’assassino di Lidia, che però dopo tanti anni potrebbe essere deceduto, l’autore della poesia anonima e un altro soggetto di sesso maschile che si intrattenne con Lidia nel pomeriggio del giorno della sua morte tra le 17 e le 18. Ritengo che gli ultimi due fossero coetanei di Lidia e, se ci atteniamo alle tavole di mortalità, possiamo aspettarci che siano ancora in vita».