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OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, CRIMINOLOGA URSULA FRANCO: BINDA NON HA UCCISO LIDIA

Stefano Binda possiede la protezione del cosiddetto “muro della verità”, un’impenetrabile barriera psicologica che permette ai soggetti che dicono il vero di limitarsi a rispondere con poche parole, in quanto gli stessi non sentono la necessità di convincere nessuno.

criminologa URSULA FRANCO
Omicidio di Lidia Macchi: analisi di alcuni stralci di dichiarazioni di Stefano Binda

Stefano Binda

Lidia Macchi è stata uccisa con 29 coltellate il 5 gennaio del 1987, il suo corpo senza vita è stato ritrovato due giorni dopo nel bosco di Cittiglio, in provincia di Varese.

Lidia, nelle ore precedenti alla sua morte, aveva avuto un rapporto sessuale.

Nel 1987, il medico legale che eseguì l’autopsia sul cadavere di Lidia Macchi scrisse che prima di morire la ragazza aveva avuto un rapporto sessuale consenziente. Nel 2016, nell’ordinanza che ha disposto l’arresto di Stefano Binda, il GIP ha ammesso che il rapporto sessuale fu probabilmente consenziente ma ha avanzato l’ipotesi che la costrizione avrebbe potuto essere, non fisica, bensì effettuata con minaccia.

Il dato medico legale fa testo, sul cadavere di Lidia non sono stati riscontrati segni che indichino una violenza sessuale.

Il 15 gennaio 2016 è stato arrestato ed accusato dell’omicidio della Macchi un suo ex compagno di liceo, Stefano Binda, 49 anni.

Binda, il 18 maggio 2016, ha rilasciato brevi dichiarazioni spontanee davanti al Tribunale del Riesame di Milano durante un’udienza relativa all’istanza di scarcerazione presentata dai suoi legali:

Stefano Binda: “Non c’entro nulla con l’omicidio, non ho ucciso io Lidia, non ho inquinato le prove né potrei farlo”.

“non ho ucciso io Lidia, non ho inquinato le prove” sono negazioni credibili, Binda prende possesso di ciò che dice aggiungendo il pronome personale “io” ad una frase che non ne avrebbe avuto bisogno.

Binda ha parlato di “prove”, non spontaneamente, lo ha fatto perché il GIP riteneva che non dovesse essere scarcerato per il pericolo di inquinamento delle prove.

Da notare che Binda usa le parole “omicidio” e “ucciso” invece di minimizzare facendo ricorso a termini più blandi, come fanno di solito i colpevoli. Chi commette un reato generalmente minimizza per evitare lo stress che gli indurrebbe il confrontarsi con il reato di cui è sospettato o accusato, non è questo il caso.

Binda ha detto poche parole, quelle giuste e ha mostrato di non avere alcun bisogno di convincere nessuno.

Il legale della famiglia Macchi, Daniele Pizzi, ha così commentato le dichiarazioni di Binda:

“Se Stefano Binda è davvero innocente, come continua a ripetere, è bene che dica una volta per tutte tutto ciò che sa”.

L’avvocato Daniele Pizzi ci riferisce di non essere convinto della colpevolezza del Binda in quanto lascia spazio alla possibilità che sia innocente. Un innocente non “sa”, come potrebbe dire “una volta per tutte tutto ciò che sa”?

Nell’aprile 2016 il corpo di Lidia Macchi è stato riesumato, nessun reperto biologico isolato dai resti della Macchi è risultato ascrivibile a Stefano Binda. Ciò che stupisce è che la riesumazione e gli esami sui reperti biologici siano stati effettuati all’indomani dell’arresto del Binda e non prima.

Stefano Binda, una volta venuto a conoscenza dei risultati degli esami sui reperti biologici isolati sui resti di Lidia, ha dichiarato:

“Sono sereno, si conferma quanto ho sempre sostenuto: non ho ucciso io Lidia”.

“non ho ucciso io Lidia” è una negazione credibile.

Il 24 aprile 2018 i giudici della Corte d’assise di Varese hanno condannato Stefano Binda all’ergastolo sulla base di due consulenze riguardanti la poesia “In morte di un’amica”, recapitata a casa Macchi dopo l’omicidio.

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Susanna Contessini, la grafologa, consulente della procura, ha attribuito la poesia “In morte di un’amica” a Stefano Binda.

La psicologa Vera Slepoj, consulente della procura, ha sostenuto che la poesia “In morte di un’amica”,  è da attribuire all’assassino in quanto rappresenta “un atto liberatorio, un gesto dovuto dall’omicida entro il meccanismo complesso della verità e del desiderio di dare una spiegazione inconsapevole della vicenda e forse una simbolica assoluzione a se stesso. E’ una sorta di tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie responsabilità”.

Cinzia Altieri, la consulente grafologa della difesa, ha comparato la grafia di “In morte di un’amica” con la grafia presente sulla busta che conteneva la missiva e con quella della frase “Stefano è un barbaro assassino” trovata a casa di Binda e secondo lei nessuna delle tre grafie è riconducibile a Binda.

Secondo la Altieri lo stampatello di “In morte di un’amica” è la scrittura abituale dell’estensore, così come è naturale e abituale la grafia degli scritti sequestrati a Binda. Cinzia Altieri ha dichiarato: “Esistono somiglianze fra scritture di mani diverse, ma qui sono rilevanti le differenze che sono sostanziali. Per esempio Binda non è uso mettere i punti sopra le “i”. Fa uno scarsissimo ricorso ai segni d’interpunzione. Sembra amare il punto esclamativo che invece non viene usato in “In morte di un’amica” dove avrebbe trovato una giustificazione nell’enfasi che pervade la prosa anonima. Diversa la formazione di “r”, “l”, “t”. Conclusione: né “In morte di un’amica”, né l’indirizzo sulla busta, né la frase “Stefano è un barbaro assassino” sono stati scritti da Binda. L’attribuzione non presenta elementi inequivocabili di identificazione”.

Le conclusioni della Altieri sono logiche e condivisibili.

Non solo non vi è certezza scientifica che la poesia “In morte di un’amica” sia stata scritta da Stefano Binda ma è aleatorio attribuire quella poesia all’assassino di Lidia Macchi.

Per quanto riguarda l’analisi del linguaggio, le parole analizzate sono sicuramente attribuibili a Stefano Binda (a differenza della poesia) e sono le parole di un soggetto che nega in modo credibile e che non apre alla possibilità di essere l’autore dell’omicidio di Lidia.

Binda possiede la protezione del cosiddetto “muro della verità”, un’impenetrabile barriera psicologica che permette ai soggetti che dicono il vero di limitarsi a rispondere con poche parole, in quanto gli stessi non sentono la necessità di convincere nessuno.

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