L COME LIBERTA’
Deriva dal latino liberum, detto di uomo nato libero, ovvero non schiavo
di Rosella Corda (PhD Filosofia e storia)
Difficile trattare le parole come fossero solo parole. Se le parole sono importanti è perché fungono da cassa di risonanza semantica dei nostri affetti e, dunque, risuonano e colorano le nostre esistenze in un modo o nell’altro. Le parole piegano e dispiegano i nostri profili, li liberano o li imprigionano, in una molteplicità di sfumature. Parole in libertà, delirio. Libertà di parola, consapevolezza. Regimi di senso austeri, regimi di senso disinvolti. Incatenamenti e scatenamenti, attraverso i nessi, connessi e sconnessi delle parole. Che pettinano e spettinano divenire multiformi e sfuggenti. Assegnano binari ai treni dei pensieri. Fino al deragliamento, fino al silenzio. La parola bianca. La parola che assorbe e dissolve tutte le parole. La parola più libera? In questi nostri discorsi abbiamo sempre dato per scontato un assunto di base: il pensiero non è linguaggio. Il pensiero non coincide con la razionalità – logos, secondo la tradizione greca antica. Il pensiero è per buona parte inconscio, ovvero letteralmente “non conscio”, indisponibile, nella sua interezza e integralità, al dominio delle parole. Esattamente come la vita e come le esistenze. C’è qualcosa che resiste al linguaggio, è di un’altra natura. E tuttavia, in questa resistenza, dà forza al linguaggio stesso. Produce quella che è la ricchezza dei linguaggi. Potremmo dire che l’ombra del linguaggio sia qualcosa come il corpo, inteso a partire dalle sue radici di irriducibili profondità. E nel corpo si annidano tendenze, bisogni che sono slanci, organizzati come eccedenze: ulterioritàbio-evolutive. Il corpo sono i corpi – sbagliato parlare di corpo al singolare. Occorrerebbe parlare sempre di corpo al plurale, per raccogliere quella sfida, che ogni giorno si compie, di essere uno, di essere sé, che i corpi nel corpo portano in scena. Questa pluralità, che lavora all’ombra di ciò che si vede, ovvero all’ombra della plasticità dei simboli, dà spessore alle idee e ai concetti. La forza in questione è la vividità pulsionale che ci abita. Senza questa dialettica tra passione e ragione, senza questo laboratorio di dualità immanente, non ci sarebbe alcuna parola sensata, solo lettera morta. Ma le parole, allora, hanno un compito molto impegnativo. Servono a fare luce su queste zone d’ombra – sapendo che la pinza che usiamo per afferrare e stringere le cose, pizzicando da un lato, non potrà che liberare dall’altro. L’ombra ricadrà sempre di lato, nella porta girevole dei nostri discorsi. Come a dire che, se noi entriamo in scena, qualcos’altro, di noi stessi, dalla scena si defilerà. Ma servire e liberare possono essere due facce della stessa medaglia? Che significa libertà? Non presumiamo in alcun modo di risolvere il senso delle parole, dunque quella dialettica immanente che le struttura, in nessuna stilizzazione ad effetto. Tanto meno per la parola “libertà”. Ma non possiamo non chiederci cosa significhi-per-noi, a partire da quell’umile inter-esse dato nel quotidiano ricorrere del suo utilizzo nei nostri discorsi. Dicevamo, libertà di parola. In che rapporto è con la libertà di pensiero? Ed entrambe, in che rapporto sono con la libertà di vivere? Ossia, con la liberazione di energie vitali o con un modo dissoluto di esistere? Il termine libertà, inteso come concetto, si nutre dell’intero archivio enciclopedico del nostro mondo culturale. Eppure, due parole a proposito possiamo dirle… Il termine di per sé viene dal latino LIBERUM, detto di uomo nato libero, ovvero non schiavo. La radice “lib”, però, rimanda ad altre parole connesse al significato di “piacere”, come si coglie nella parola “libido”. Potremmo dire che c’è sempre stato del piacere a esser liberi o che l’esser libero volesse indicare fare le cose a proprio piacimento? Occorrerebbe a questo punto un corollario, spiegare cosa si possa intendere con “piacere”. E anche qui noteremmo come le parole, anche quelle più astratte come la parola “libertà”, non possono che rinviare a qualcosa di concreto, di affettivo e di sfuggente rispetto a una possibilità di univoca definizione. E libertà di pensiero, allora, vorrebbe dire perfino de-pensare? Pensare in maniera arbitraria? Esser-liberi vuol dire consegnar-si all’arbitrarietà? Rassegnarsi all’arbitrarietà? E veniamo qui a un punto fondamentale. Troppo spesso l’esser-liberi ha rimato con una sorta di vertigine dell’assolutezza. Lo scioglimento totale di ogni vincolo. Esser-liberi come voluttà dell’annientamento di ogni legame. Se c’è un consegnarsi all’arbitrarietà più sterile, un vanificare la forza del senso di questo termine, è proprio nel portarlo sul binario morto di un’astratta e assoluta libertà – benché questa idea nasca sempre e comunque da qualcosa di concreto, come l’insofferenza per un legame triste, fosse anche solo quello con il dolore del proprio corpo malato, che si esprime tante volte in un bisogno-di non soddisfabile. Paradossalmente, l’idea di una libertà siffatta ci rende ancor più schiavi. Schiavi di un ideale di liberazione assoluta, non riproducibile in realtà, ma solo nel laboratorio delle nostre fissazioni. Nell’arbitrario cosa manca? Manca la relazione come fonte virtuosa di legami. A un senso astratto e asfittico di libertà come esser-liberi, derivato dalla presunzione che ci sia chi nascerebbe libero a dispetto di chi invece sarebbe schiavo, mentre nasciamo tutti-da e -con qualcuno, quindi “legati”, sarebbe da accostare il senso concreto di un divenire-liberi (come ventilato dal filosofo G. Deleuze, quasi in un corsivo a latere dei suoi testi principali), colto come pratica plurale di liberazione. Le pratiche di liberazione, allora, ci mostrano come il piacere e/o il dispiacere della libertà sia legato non tanto all’esser-liberi o all’esser-servi, quanto ai legami tristi o ai legami felici, alle relazioni costruttive o a quelle distruttive. Ai discorsi che ci mortificano o a quelli che, invece, ci fanno sentire vivi. Se c’è un piacere del divenire-liberi, è quello che si sperimenta nel processo di soggettivazione, cioè di costruzione della nostra auto-determinazione, che non è mai arbitraria (se non in una insana pato-logia), ma sempre relazionale. In tal senso, divenire-liberi e dimensione sociale sono indissociabili. La stessa liberazione-dal-bisogno andrebbe letta in maniera più radicale, nella misura in cui il “bisogno” rappresenta non una carenza originaria ma un eccedenza frustrata – una creatività soggettiva irrisolta. Una dimensione sociale che traduce la ricchezza di cui ciascuno è portatore in una mancanza di fatto, annichilendo le energie positive dei legami sociali, va certamente combattuta. Quella sì che è una dimensione arbitraria e delirante, al limite auto-distruttiva.