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SARACHELLA A TEATRO

Intervista a Teresa Tancredi, sceneggiatrice,e regista in “dengua putunzesa”

“Na saraca”, anzi piatto come una “saraca”, magro come un’aringa, anche perché in quel tempo senza tempo, il cibo era poco. Quando c’era, se no a dieta forzata. Sarachella ora ha una immagine, ha un fumetto, ha una commedia, ambientata in una vecchia Potenza di sottani e viuzze piene di polvere. Il Capoluogo di Regione ha la sua maschera, non sarà Arlecchino, protagonista nei teatri parigini dei re di Francia, non sarà Brighella o Pulcinella, ma è l’anima popolare di una antica Potenza che rivive al tempo dei social network. Anche questa è tradizione, al tempo dell’innovazione.  Ora è la maschera ufficiale, anche con delibera del Consiglio Comunale, ma il percorso è stato lungo, portato con passione e sacrificio anche nelle scuole, disegnato in un fumetto. Qualche dato: circa ventimila copie del fumetto della maschera (edito dalla Sud’Altro), con il coordinamento didattico dell’Insegnante Anna Maria Molinari e illustrate dalla matita raffinata del virtuoso  RosarioRaho, sono state distribuite negli ultimi quattro anni nelle scuole primarie di Potenza.

Ora arriva finalmente in teatro, ovviamente nel Tempio del teatro lucano: Il Francesco Stabile, nel cuore di Potenza. Ne parliamo con chi la commedia in lingua potentina l’ha scritta: . Perché la saraca era cibo possibile in un contesto rigorosamente spartano, ove le pietanze si costituivano di pochi elementi sempre uguali a loro stessi. Teresa Tancredi , anima della compagnia in “Dengua putenzesa”   per citare Raffaele Danzi, potentina verace, nata a da genitori Potentini, dal padre ha ereditato la passione del vernacolo potentino  quello dei primi del ‘900, la sua conoscenza   quasi imposta dal  padre il quale   teneva molto che la figlia apprendesse e portasse avanti quel dialetto che negli anni ’70 era  quasi una” vergogna “, egli rispettava le sue origini e  tutte quelle vecchie tradizioni, vocaboli  e detti  potentini, ne parlava con rispetto, passione e con una gran luce negli occhi.

«All’epoca non riuscivo a capire  il perché di questo quasi accanimento da parte sua nel tradurre ogni volta  le parole in italiano in dialetto, le sue fisse per i vecchi racconti  del padre , della madre e tutti quei detti di pura saggezza contadina – spiega Teresa Tancredi- La stessa passione nata ed esplosa  in me una quindicina di anni fa, quando ho iniziato a recitare quasi per caso e  solo per sconfiggere la mia timidezza, il volermi mettere alla prova, una sorta di sfida con me stessa, con un grande del nostro vernacolo potentino Dino Bavusi, il quale ha fatto  venir fuori quella passione per il teatro dialettale e come attraverso esso potevo rivivere atmosfere passate della mia infanzia quando tutto era semplice e vero, ritrovarne in esso i racconti di mio padre la sua descrizione verbale di un tempo si trasformava  in ogni commedia  in quasi realtà e io potevo viverla su quel palco teatrale, una emozione indescrivibile, tante commedie vissute, tante storie si di fantasia,  ma di estrema concretezza sulla scena. Vivere in prima persona e immergermi nei vari personaggi mi dava ogni volta la possibilità di entrare in un fantastico mondo lontano».

Ma come nasce poi il passo dal recitare allo scrivere in potentino?

«Ringrazio infinitamente il Bavusi perché oltre a far venir fuori la passione della recitazione è venuta fuori anche quella della scrittura dei testi teatrali, questo mezzo meraviglioso apre degli orizzonti infiniti dove la fantasia , l’immaginazione si trasformano attraverso la rappresentazione teatrale,  un effetto fantastico di gioia, una grande possibilità per creare vita».

Sei cresciuta parlando potentino stretto, quello dei sottani, quello che corre il pericolo di perdersi . Che sensazione ti dà poterlo farlo rivivere?

“Mi meraviglio ogni volta alla fine della stesura di un nuovo testo ed è questa meraviglia a darmi lo stimolo e l’entusiasmo di vederlo poi interpretato e vissuto dai miei attori. Io dico creare vita perché così facendo riesco ogni volta a dare una doppia vita a chi interpreta i personaggi. E’ questo forse il lavoro più difficile. Far mettere ad ogni attore la propria vita da parte ed entrare nella nuova vita, quella del personaggio da interpretare, tanto difficile ma tanto poi gratificante.

Molti testi scritti sono nel cassetto in attesa di venir fuori ed essere portati alla luce, personaggi, storie,  intrecci e sempre accompagnati da  un messaggio finale con morale seria”.

Arriviamo a Sarachella ora. Parlaci di questo lavoro che andrà in scena il 1 e il 2 marzo.

«Un personaggio fantastico e di fantasia, SARACHEDDA che rappresenta a pieno quella che era la vera povertà , l’esistenza dei vicoli e dei sottani, quando si viveva per la strada, quando i ragazzini si divertivano con il nulla, quando la puzza di fumo impregnava i vicoli della nostra Potenza, quando il freddo  nostro si sentiva nel sangue, quando quella neve faceva venire i geloni ai piedi coperti a malapena. Questo testo lo scrissi  due anni fa  ed era in programma in uscita  per il  2020,  ma un giorno, parlando con l’amico Gianfranco Blasi, non so’ perché venne fuori  un discorso sulla  maschera  potentina  Sarachella, avendogli confessato di avere nel cassetto un testo su Sarachella mi  entusiasmò  a portarlo in scena per quest’anno, (in programma avevo  “Marir e figlcumdij t’ li manna t’ li piglia”. Questo ovviamente sarà  il prossimo lavoro) successivamente ho avuto occasione, sempre grazie a Gianfranco Blasi, di conoscere lo storico Lucio Tufano, letto il suo libro “il Canapone” nel quale ho ritrovato il mio Sarachella. Felice di questa cosa, avrei potuto prendere tanti spunti per creare nuove situazioni ma ormai eravamo già in corso di prove ed erano già stati caratterizzati tutti i personaggi, ma ciò non toglie che in futuro e quasi sicuramente scriverò altre avventure di Sarachella prendendo spunto dal Sarachella di Lucio Tufano».

Chi è Sarachella?

«Sarachedda   è un ragazzo cresciuto da solo, smilzo  nel fisico, giocherellone, credulone e cosciente della sua estrema povertà. Accettato un po’ da tutti e soprattutto da una famiglia di ortolani i quali gli vogliono bene. Spesso, però, sono in conflitto con lui  a causa delle sue marachelle. Il mio Sarachedda è molto superstizioso e adora le “sarache” da qui il suo nome, non ha mai conosciuto i suoi genitori,  di base ha sempre una grande allegria, ha un amico di nome Miseria con il quale condivide qualche umile lavoretto tipo il vendere qualche ciliegia, corre sempre da Melina che lui vede come madre protettiva e che gli dà sempre da mangiare. Compagno di giochi con Bicetta la figlia minore del capo famiglia Rocco il quale si innervosisce quasi sempre con lui perché non accetta il  suo modo di fare e di essere.  Rusnella, la loro figlia maggiore, lo vede come un fratello e Sarachedda contraccambia quell’affetto come un amore speciale, infatti fa di tutto per vederla felice. Tante cose accadono, ma alla fine tutti i guai si trasformano in cose buone e positive».

Ci daresti qualche anticipo prima di poterlo vedere in scena?

« La rappresentazione della  Compagnia dialettale Potentina LA PRETORIA dipingerà l’immagine di Sarachella come spirito inquieto, impertinente, credulone, giocherellone, ignorante. Il tutto con ingenua innocenza, spirito grottesco e a tratti drammatico. E’ ambientata in una Potenza povera, agli inizi degli anni ’50, quando si viveva con poco, nell’era dei sottani e della vera povertà. La maschera, il personaggio che attraversa gli inferi del passato, entrando nelle viscere della città più autenticamente popolare. La sceneggiatura è ricca di personaggi carismatici, con scene leggere ed allegre, ma anche con momenti di forte commozione, infatti non manca una morale, attraverso un finale emozionante.”

Hai lavorato molto sui dialoghi, sull’intensità dei testi…

“Il testo vuole portare il pubblico a riconoscersi nelle atmosfere create dai dialoghi, dalla scenografia, fin dentro i personaggi, promuovendo e valorizzando il nostro vernacolo. La nostra è una storia con i caratteri e le maniere di una città non solo moderna, ma antica e da vecchio teatro, senza orpelli o infingimenti di falso realismo e di luoghi comuni».

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