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ASCENSIONE A CASTROCUCCO

Il Castello è un luogo per viaggiatori lenti, il premio per pochi mistici

Di Giampiero D’Ecclesiis

Domenica mattina mi sveglio presto, doccia, pantaloni comodi, prendo mio figlio Marcello e parto, la destinazione ce l’ho ben chiara nella testa, era tempo che ci pensavo, la spinta finale me l’hanno data un paio di vecchie foto recuperate con google in cui si vede una vecchia torre diruta e un portale a sesto acuto.

La sera prima ho studiato le immagini satellitari, l’accesso è impervio, praticamente non ci sono strade e, almeno per un tratto, è necessario sapersi districare tra rocce, scarpate ripide e macchia mediterranea intricata; dopo aver osservato dal basso il vecchio insediamento di Castrocucco mille volte ho deciso che devo andare a vedere di persona.

Mi piace visitare antichi centri scomparsi, da Craco a Romagnano al monte, da Campomaggiore vecchio a Uggiano, mi mancava Castrocucco e, dopo aver visto quelle due vecchie foto, proprio non potevo rinunciare.

I percorsi possibili sono due, il primo utilizza una strada asfaltata privata, chiusa da una sbarra ma senza lucchetto, che porta alle antenne e ai ripetitori posti sul crinale che sale verso la Serra di Castrocucco più in alto della quota dei resti dell’antico centro abitato.

La strada è comoda si può seguire fino ad un punto in cui occorre abbandonarla per un tratturo percorribile a piedi oppure con un fuoristrada per percorrere la seconda tappa di avvicinamento al castello e ricongiungersi all’itinerario rosso che porta ai ruderi.

La seconda strada non è per tutti, è un sentiero che sale verso la cresta partendo dalla SS.18, è faticoso e intricato, assolutamente più breve del primo, richiede forza fisica e un po’ di abitudine ai percorsi ripidi.

Dal punto in cui i due percorsi di incontrano in poi non ci sono alternative, l’unica è seguire il crinale in direzione prima della Chiesa e poi della torre, si cammina scomodi, su un campo carreggiato scoperto, costellato di scannellature e rocce aguzze figlie del carsismo, ostacolati da cespugli di mirto.

Arriviamo a Castrocucco alle 9,30 e, naturalmente, ci infiliamo sull’itinerario più corto e più difficoltoso, mio figlio Marcello mi guarda con un filo di perplessità ma io sono deciso vado avanti e lui mi segue, la salita è veramente faticosa per di più, da perfetto pollastro e per uno come me che sono 40 anni che va per monti è un errore imperdonabile, ho dimenticato gli scarponi e salgo con scarpe sportive.

A metà strada un piccolo edificio dell’acquedotto ci consente una pausa al fresco, la parte meno acclive è finita, più avanti le cose si faranno più faticose, lascio che la mia respirazione torni normale, asciugo un po’ il sudore e dopo qualche minuto ripartiamo.

Accidenti mi dico, sono ancora indiscutibilmente un cazzo di tirannosauro, mi conforta la mia buona forma ma quando guardo Marcello che si ferma ad aspettarmi, so con certezza che le mie escursioni da velociraptor sono finite per sempre.

Non mi scoraggio, uso una tattica adatta alla mia età, salgo piano e ogni tanto mi fermo per riposare, man mano che saliamo l’antica Castrocucco emerge dalla visuale inclinata con cui siamo abituati a percepirla, oramai siamo alla stessa quota, la vedo di fronte e ancora meglio capisco che è assai più di quello che sembrerebbe dal basso.

Non mi sembra un semplice castello ma piuttosto una cittadella fortificata con l’unica torre difensiva, giustamente, posta a guardia dell’accesso che non poteva che avvenire da monte essendo la rupe inaccessibile da mare.

Finalmente raggiungiamo i tralicci Enel e da lì possiamo vedere dall’alto i ruderi e la direzione verso cui dobbiamo avviarci, sul lato meridionale la valle del Noce con il litorale di Praia è spettacolare, sullo sfondo l’isola di Dino. Tra i filari degli alberi che delimitano strade e proprietà alcuni cavalli si muovono veloci, il sole sul mare è un riflesso dorato abbagliante, il verde delle piante è saturo di luce, l’azzurro del cielo è limpido, lo rivedo riflesso nell’azzurro degli occhi di mio figlio e come sempre mi emoziono.

Superiamo una recinzione di filo spinato e scendiamo verso l’insediamento, un percorso non agevole ma per lo meno facile da intuire, arriviamo alla Chiesa.

Fuori della cinta delle mura dell’insediamento c’è una chiesa, si riconosce per la forma della pianta rettangolare con l’abside che guarda verso NE e l’asse della costruzione da NE a SW; entro dal lato, mi guardo attorno e noto subito due cose: il portale a sesto acuto che guarda verso la torre e l’insediamento e le tracce di antichi affreschi che ancora si riconoscono vicino l’abside e in qualche angolo della Chiesa.

Un po’ mi emoziona, il frammento più ampio sembra un decoro, come un panneggio, qui e lì frammenti di cornici di colore rosso, mi domando se sotto i detriti che riempiono in parte l’antica costruzione non ci sia altro, ma con rispetto mi astengo dallo smuovere anche solo una pietra.

Superiamo l’antico portale e ci dirigiamo verso la torre che si innalza a difesa delle mura che su di essa fanno cerniera, da un lato verso lo strapiombo che delimita i manufatti verso il mare e dall’altro verso l’ingresso, ci avventuriamo all’interno.

La torre sul lato interno è crollata del tutto, quello che si vede dall’esterno è solo la metà in piedi di una vecchia torre, saliamo all’interno districandoci tra pietre e mirto e varchiamo un portone, su un lato mostra ancora i vuoti di quelli che dovevano essere i blocchi di un portone o magari i cardini.

Supero l’ultima costruzione verso il mare e mi avvicino al bordo della rupe.

È tutta imbragata in reti metalliche ad alta resistenza, avvicinarsi al bordo è veramente un azzardo, ci rinuncio e scatto qualche immagine di Cala la Secca in tutto il suo splendore.

Ci fermiamo sotto la torre e lì, dopo aver bevuto, ci concediamo una pausa ristoratrice all’ombra degli alberi, tira un filo di vento che mi rinfresca, Marcello, come sempre quando si trova nei pressi del mare, ha gli occhi più azzurri che mai, mi guarda con un filo di apprensione e mi chiede se sono stanco.

Lo rassicuro e cerco di galvanizzarlo promettendo un lucanissimo pranzo da Giovanni a Pecorone, che più tardi non smentirà il buon ricordo che conservo di lui e dei tempi in cui ho tanto lavorato in quella zona, con ottimi ravioli e salsiccia arrostita buonissima.

Percorriamo la strada del ritorno lasciandoci tentare dalla soluzione più lunga ma più comoda che in effetti si rivela di gran lunga più confortevole di quella che abbiamo scelto per salire, mentre percorriamo la statale 18 per raggiungere l’auto, dal basso, mi fermo a guardare quelle antiche mura che abbiamo appena lasciate.

Poco più a Nord, su un altro picco isolato, Torre Caina ancora vigila sul “nero periglio che viene dal mare”, dall’alto le antiche mura dell’insediamento di Castrocucco ispirano rispetto, sia pure dirute, abbandonate, cancellate dal mirto e dalla salsedine, sono ancora potenti.

Mi domando se in altri paesi una cosa così si lascerebbe in balia del lento disfacimento del tempo poi mi dico che sono italiano, vivo in un paese in cui ogni angolo è storia e ci racconta del passato ed è difficile tenere tutto sotto tutela, sarebbe bello che un’associazione si prendesse cura di questo monumento, lo adottasse, lo rendesse fruibile per quello che si può.

Il Castello di Castrocucco è un luogo per i viaggiatori lenti, il premio per i pochi mistici disposti a fare la fatica che ci vuole per raggiungere un posto simile, i mangiatori di calippo, i bevitori di spritz, restano ai lidi a sentire lambade. Per chi sale su quelle rocce mangiare un panino con la frittata, sorseggiando aglianico proprio lì è di per sé motivo sufficiente a giustificare la fatica, non sarebbe affatto male organizzare una nuova escursione con pernottamento, dormire lì e guardare il tramonto dall’alto del Castello di Castrocucco.

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