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Z COME ZENIT

La parola viene dall’arabo e significa “via” e “via del capo”

di Rosella Corda

Quando scriviamo tracciamo delle linee. Moduliamo spazi e ritagliamo confini. Ma lavoriamo anche sulle densità. Scrivere è profilare in 3D, dare corpo alle idee. Sagomati, corpi, luoghi e confini mostrano il loro grado di porosità, il respiro che un concetto lascia soffiare attraverso. Attraverso gli ambiti e gli habitus. Si tratta di “un atto di creazione”, inteso allo stesso tempo come “atto di resistenza”, ovvero produzione di un nuovo ordine che, in quanto tale, offre il suo inaggirabile indice di caos. Tracciare linee o scavare cunicoli. Andare alla radice delle cose? Spesso si confonde la profondità con l’affondare. Il paradosso, al limite del non-senso, è che nella scrittura, in realtà, si scavano sempre superfici: è sempre un portare alla luce. Quanto più si va in fondo, tanto più la scrittura si traduce in emersione. Ovvero in perdita del fondo. Nostalgia del fondo, vertigine del fondo. Desiderio di un prima originario. Ma è molte volte un galleggiare, senza saper nuotare. Magari con gli occhi chiusi, in modo da far esplodere il buio dal suo dentro.

Lo sapeva Cartesio, che ragionava sulla natura del piano per orientarsi nel pensiero. Cercando coordinate. Lo sapeva Platone, che non ha mai smesso di pensare in termini di linee. E ancora, quando Heidegger legge Nietzsche, nel suo faticosissimo corpo-a-corpo, parlando di “compimento”, sa bene cosa sia riannodare le linee spezzate del tempo, allorché è la fine a qualificare gli inizi. Perché in fondo c’è un groviglio, rispetto a cui ogni trama è una improvvisazione, all’insegna della provvisorietà. Se fosse dato un inizio, un principio, un cominciamento per tutte le volte, non ci sarebbe bisogno di guardare alla “fine”, di chiedersi come va a finire. Sarebbe già tutto lì, nudo nel cuore dell’eterno. E invece no. Tutti a cercare il capo per trovare la coda. Tutti a sviluppare linee. Tutti a provare a dare senso alla propria storia – e, i più ambiziosi, alla Storia.

Dalle nostre parti, in occidente, la linea si traccia in orizzontale, seguendo l’ordine che procede da sinistra verso destra. Si potrebbe tracciare seguendo altre frecce, da destra a sinistra o lungo il foglio. Penso anche ai calligrammi di Apollinaire.Ma la linea è in fin dei conti come un’edera: si arrampica, ricopre, si duplica, veste. Vuole vivere la sua vita. Salire in alto, tentando tutte le direzioni, per guadagnare spazio: di luce e di aria. La nostra linea è una Z. Potremmo allora scrivere Z come Linea? Nel segno e nel senso sì, nel simbolo e nella parola scriviamo Z come Zenit. La Z non vuole ricalcare un ordine: si modula mantenendo basso il tasso di emulazione. Non siamo andati da A a Z.Come insegna forse Deleuze, siamo andati a Zonzo.Ma sulla fine, sull’essenza della fine che qualifica l’inizio, non si può avere dubbi: la linea è spigolosa, marca degli angoli stretti, contempla lo Zero. Ma lo Zero è pur tuttavia un numero. Cosa stiamo cercando di dire? Diciamo che la fine, per quanto indubitabile, non è mai solo una fine, il compimento è sempre una “transduzione”, per dirlo prendendo in prestito una parola difficile e affascinante usata da un filosofo che si incontra di rado negli outlet delle grandi firme. Mi riferisco a G. Simondon. La fine è una “trasformazione” e ogni trasformazione ha bisogno del suo “Zero”, del suo “stacco”, della sua pausa, del suo silenzio. Nella Z si respira il caso e si respira la necessità. È il tavolo da gioco di ogni alfabeto, di ogni rigo e di ogni riga. Del farsi strada di un discorso. Il richiamo è allo Zenit, all’ora del meriggio, al sole alto, momento in cui l’ombra è sottile ma allo stesso tempo il chiarore è tale da annebbiare la vista.La linea diventa verticale: è perpendicolare al piano della terra, passando attraverso la nostra testa. La parola “Zenit” viene dall’arabo e significa originariamente “via” e “via del capo”, direzione: “via che passa attraverso il capo”. Allo Zenit il peso è anch’esso sottile: si allunga come una lama. Pesa e taglia. Squadra. Allo Zenit tutto è Idea, ma la massima luce – quella di cui l’etimologia della parola Idea ci parla – è invisibile. Schiaccia ogni sagoma. L’acme è dunque lo Zero. Lo zero è la fine. Lo zero è l’apertura, la ferita, che lascia il passo a tutte le trasformazioni. Dal Trauma alla Meraviglia, dalla Gioia alla Nostalgia, lo Zenit è l’epifania di ogni possibile inizio. Di ogni possibile affetto o intersezione, commutazione.Dal nero al bianco, dal rifiuto all’assorbimento di ogni colore. All’ora dello Zenit ci siamo dati appuntamento per prendere commiato da questa piccola rubrica del quotidiano, sapendo però che altri inizi e altre de-scritture saranno sicuramente praticabili, per altri spazi e per altri confini.

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