RIVOLTA CARCERI, LE PURGHE DI DJ FOFÓ
Tornano nell’occhio del ciclone Basentini (Dap) e il ministro Bonafede: Stato punitivo
Dalle carceri di Melfi, Foggia e altre città nelle cui case circondariali dal 7 marzo scorso fino ai giorni successivi si sono registrate rivolte e proteste, direttamente nelle “zone rosse” del Coronavirus del Piemonte e della Lombardia. Sembra una punizione, e chi sa che non lo sia, ma è andata così. Non a caso serpeggia, montando, il malumore tra parte degli stessi agenti della Polizia penitenziaria. Sul fronte lucano con un’operazione alla quale hanno partecipato circa 200 uomini della Polizia penitenziaria, sono stati 70 i detenuti del carcere di Melfi, tutti della sezione “alta sicurezza”, trasferiti in «altri istituti di pena d’Italia». Altre carceri, per l’appunto situate, nel caso dei detenuti segnalati tra i più rivoltosi, anche nelle “zone rosse”. Per il ministro della Giustizia, il pentastellato Bonafede, e per il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il lucano Francesco Basentini, all’orizzonte nuova ondata di polemiche dopo quella seguita proprio alle violente rivolte di marzo, con aggressioni, evasioni di massa e finanche detenuti morti come accaduto a Modena e a Rieti. Per il non aver gestito al meglio lo “Stato nello Stato”, quello delle carceri, da più parti, politiche e non solo si era alzato il grido: «Dimissioni». Le rivolte hanno interessato anche tutte e tre le case circondariali lucane: Potenza, Matera e Melfi. Proprio a Melfi, però, quella più violenta durante le quale, per oltre otto ore, sono rimasti ostaggio dei detenuti cinque operatori sanitari e quattro agenti della polizia penitenziaria. I sindacati di categoria, nell’immediato dei trasferimenti già avevano, sì plaudito alla «prova di forza dello Stato», ma anche , contestualmente, invitato a tenere alta la guardia per il rischio che le tensioni possano riaccendersi con nuove proteste e rivolte. Il trasferimento nelle “zone rosse” potrebbe rappresentare, per una serie di motivi, tra questi la perdita dei contatti con i familiari, una delle ragioni che potenzialmente possono dare adito a ulteriori ribellioni. Il malumore, però, come serpeggia tra i detenuti serpeggia anche in parte degli agenti della polizia penitenziaria. Alcuni preoccupati ancor di più proprio per il viaggio fatto, per trasferire i più rivoltosi, nelle “zone rosse” del Coronavirus. A tutto ciò si aggiunge anche la volontà di chiarimenti da parte dell’universo dei penalisti. In contestazione, in generale, non è la scelta dello smistamento dei detenuti dal carcere di provenienza ad altro di destinazione. Quanto, invece, la ragionevolezza sulla quale è stata basata l’individuazione delle “zone rosse” del Coronavirus come sede di allocazione dei più rivoltosi. Perchè se non motivatamente giustificata, la decisione apparirebbe, di conseguenza, estremamente punitiva e oltre i limiti parametrati dal diritto. La giustizia penale, se non per le attività per legge improcrastinabili, ha subito, causa Coronavirus, una pausa d’arresto con riguardo all’andamento dei processi. Il sistema penale, però, unitamente al quello carcerario, è un tassello del macrosistema educativo della condanna detentiva. Sospese le udienze penali, non ugualmente sono stati sospesi determinati diritti, tra cui anche quelli dei detenuti. Mentre il trasferimento dei rivoltosi nelle carceri delle “zone rosse” del Coronavirus, appare oltre il punitivo che la condanna penale in carcere già di punitivo ha. Un pericoloso deterrente fine a sé stesso, se non idoneamente motivato, che ha poco a che fare sia con l’amministrazione della Giustizia che col “sistema educativo” delle carceri italiane di cui il massimo responsabile è il capo del Dap, Francesco Basentini.