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ANTONIO NICASTRO NEL RICORDO DEL FIGLIO VALERIO

Perché lo so, papà, che forse non ci siamo mai detti troppe volte quanto ci volevamo bene. Ma, in fondo, non ne avevamo certo bisogno

Di certezze, nella vita, ne ho sempre avute poche. Forse due. Una di queste era il fatto di sapere che, anche nei momenti più bui, avrei potuto trovare conforto nelle parole. Scritte, lette, cantate. E invece, da qualche giorno, non riesco ad aggrapparmi più nemmeno alle parole. Leggo, ma la testa vola altrove.
Ascolto, ma qualsiasi canzone passa solo come rumore di fondo. Provo a scrivere, ma nemmeno quella che è sempre stata la mia valvola di sfogo sembra funzionare più.

Ho cercato di buttare giù le parole giuste per parecchi giorni, ma forse è arrivato il momento di capire che a volte le parole possono anche non essere quelle giuste, basta solo farle venire fuori. E forse è successo proprio perché è venuta meno l’altra certezza che mi portavo dietro, ma che più che una certezza si è rivelata essere un’illusione. Guardavo mio padre e mi sentivo sicuro. Sapevo che, in tutto quello che avrei fatto o combinato nella vita, lui sarebbe stato lì, alle mie spalle, in silenzio, pronto a prendermi nel caso in cui fossi cascato per terra. Non me l’ha detto, non ce lo siamo mai detti. Proprio perché sia io che lui non siamo mai stati bravi a tirare fuori i nostri sentimenti a voce. Sarà per questo che, se devo dire qualcosa, io preferisco sempre scriverla. Non ce lo siamo mai detti, ma lo sapevamo.
E saperlo orgoglioso di me, in ogni piccola cosa che abbia mai fatto nella mia vita, mi faceva sentire speciale. Trovarlo ad aspettarmi alla stazione quando scendevo da un treno che mi riportava a casa da Roma, da Bologna o da Milano era il nostro piccolo rituale.
Mettere nel bagagliaio la valigia e raccontargli quello che avevo combinato, i progetti che stavamo portando avanti, quanto era stato bello entrare a San Siro per lavoro o aver potuto stringere la mano a Francesco Totti.
Sapevo che non me lo avrebbe mai detto con le parole, ma il modo in cui mi ascoltava mi faceva capire che avrebbe avuto voglia di dirmi quanto era contento.

Ma, tranqullo, lo so. Siamo fatti così.

Adesso, invece, anche quella certezza è venuta meno. Mio padre, il mio supereroe che ho sempre ammirato in silenzio, non potrà più rassicurarmi con la sua presenza. Certo, forse è questo che significa diventare grandi, malgrado tutto.

E forse è questa paura, questo timore di fare questi primi passi in un mondo oscuro, senza una guida, che non mi fa trovare le parole giuste. Ma, prima o poi, sono sicuro che torneranno.

Che tornerò a trovare conforto nel battere le dita sulla mia amata tastiera (a proposito, papà, mi perdonerai: siccome quella che stavo usando faceva schifo, mi sono rubato la tua…), che tornerò ad innamorarmi di un sostantivo, di un aggettivo, di un avverbio, e a essere felice per essere riuscito a buttare su uno schermo quello che mi passava per il cuore.

Perché lo so, papà, che forse non ci siamo mai detti troppe volte quanto ci volevamo bene. Ma, in fondo, non ne avevamo certo bisogno.

E siccome voglio disperatamente tornare ad aggrapparmi alle parole, visto che in questo momento di aggrapparsi agli abbracci non se ne parla proprio, forse è il momento di mettere tutto insieme.

Ed è il momento di tirare fuori la mia canzone da “panic button”, una di quelle che è sempre riuscita a farmi tirare su dai momenti più brutti. E, tranquillo, papà, che lo so che anche a te il Professor Vecchioni piaceva parecchio:

“Ti ho conosciuto, dolore, in una notte di inverno
Una di quelle notti che assomigliano a un giorno
Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente
Io sono un uomo… e tu non sei un ca**o di niente”

VALERIO NICASTRO

 

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