CORONAVIRUS LIBERA BOSS: DA MELFI A CORLEONE
Dal Dap nessuna alternativa al carcere lucano: Pollichino torna a casa
Condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, dal carcere di Alta Sicurezza di Melfi a Corleone, patria dell’ei fu “Capo dei capi”, Totò Riina. Anche dalla Basilicata, i boss sono in partenza per le rispettive abitazioni nei territori in cui hanno esercitato il potere. È il caso del 78enne Pietro Pollichino, condannato, dalla Corte d’Appello di Palermo, nel 2018, a 6 anni e 8 mesi di reclusione, il cui unico avvocato difensore, Giuseppe Colucci, ha già ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Potenza il via libera alla scarcerazione. Coronavirus, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il cui capo è il lucano ex procuratore antimafia di Potenza, Francesco Basentini, e cancelli delle Case circondariali aperti per i boss: anche la Basilicata nel tritacarne della bufera di polemiche, al di là delle verità burocratiche, che sta attraversando il Ministero della giustizia. Investigatori e inquirenti siciliani inquadrano Pollichino come «appartenente all’associazione denominata Cosa Nostra operante nell’area Corleonese» e come «referente del sodalizio intrattenendo rapporti con i consociati dell’associazione criminale suddetta e in particolare con il reggente del Mandamento di Corleone, Rosario Lo Bue». Tra le carte dell’inchiesta, anche le intercettazioni, quali, per esempio, «a bordello è finito», pronunciata proprio da Pollichino, della riunione dei boss di Corleone nella quale si stava progettando, secondo gli inquirenti, l’attentato all’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, accusato di aver aggravato il carcere duro. Un attentato in grande stile, alla Kennedy: «Perchè a Kennedy chi se l’è masticato? Noi ce lo siamo masticato, noialtri là in America».
Gli uomini dell’Antimafia di Palermo, nell’istruttoria per i domiciliari a Pollichino, hanno sottolineato come lo stesso «non risultava essersi ravveduto, non avendo posto in essere manifestazioni di dissociazioni dal sodalizio mafioso». Pollichino non è un collaboratore di giustizia. Per questo da Palermo si sono opposti ai domiciliari per Pollichino. Anche il Pg Felicia Genovese si è opposta. Ma l’operato del Dap, con particolare riferimento alla gestione dell’allarme Coronavirus nelle carceri, è stato fatale. Per il boss, problemi di cuore non del tutto incompatibili col regime carcerario. Sennonché «non può escludersi, in caso di eventuale contagio da Coronavirus, il verificarsi di un serio peggioramento delle condizioni di salute», di Pollichino, «difficilmente fronteggiabile all’interno del carcere». Fuori dal carcere di Melfi e nelle vicinanze, c’è un centro ospedaliero con reparto di Cardiologia.
Data l’allerta Coronavirus, come emerge dall’istruttoria redatta dai magistrati del capoluogo, si consigliava, tra le altre cose e in riferimento a particolari condizioni di cura, un trasferimento «presso Istituto dell’Amministrazione penitenziaria dotato di assistenza sanitaria e infermieristica h24». Ad ogni modo il Dap, da parte sua, una manciata di giorni fa ha ritenuto di «confermare l’assegnazione del detenuto presso l’attuale sede penitenziaria il Melfi». Stando così le cose, e «non potendosi escludere eventuali ulteriori epiloghi negativi della emergenza sanitaria in atto a livello nazionale in termini di accrescimento della diffusione dei contagi con conseguente aumento dell’afflittività della esecuzione al di là della invalicabile soglia del rispetto della dignità umana», i magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Potenza, non essendo neanche giunta alternativa al carcere di Melfi, non hanno potuto far altro, sulla base della cartella clinica del boss Pollichino, che concedergli, con libertà di allontanarsi dalla propria abitazione per due ore ogni mattina, i domiciliari nella “sua” Sicilia. Almeno per un periodo di 9 mesi. «I magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Potenza – ha dichiarato il legale difensore di Pollichino, l’avvocato Giuseppe Colucci – hanno applicato scrupolosamente la legge facendo prevalere il diritto alla salute costituzionalmente garantito».