L’avvocato penalista e il rapporto con il cliente
“Il coraggio e la professionalità in ambito forense: gli avvocati penalisti protagonisti in ambienti rischiosi come i processi afferenti gravi reati di mafia”
“Il coraggio e la professionalità in ambito forense: gli avvocati penalisti protagonisti in ambienti rischiosi come i processi afferenti gravi reati di mafia”
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L’avvocato penalista e il rapporto con il cliente
(Articolo, 11/05/2006 Antonino Ciavola)
Questo articolo riproduce la conferenza svoltasi il giorno 4 aprile 2006 presso la Scuola Forense di Catania, organizzata dalla fondazione “Vincenzo Geraci”
All’iniziativa hanno partecipato oltre 200 allievi della Scuola, e i seguenti organizzatori:
Docente: Antonino Ciavola
Docente aggiunto per il Consiglio dell’Ordine: Edoardo Ferlito
Tutor della Fondazione: Deborah Incognito
Ha collaborato Maria Platania
Organizzazione logistica: Daniele Orazio Sgroi
La poesia finale è dell’avv. Paolo Camassa.
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§1 – I primi incontri e il conferimento del mandato
Si insegna tradizionalmente che il momento iniziale, quello del primo colloquio con il cliente, è decisivo per un approccio corretto, finalizzato alla conoscenza reciproca tra la parte che chiede assistenza e il difensore nelle cui mani sono rimesse le sorti di chi gli si affida.
Sempre tradizionalmente si afferma che tale colloquio, così come i successivi, deve avvenire presso lo studio del professionista, al fine di mantenere in capo a quest’ultimo la necessaria immagine di professionalità, che dovrà essere conservata nel corso del rapporto.
Questa regola generale, nel campo penale, non sempre può essere rispettata; vi sono infatti ipotesi nelle quali il cliente è detenuto, e dunque il primo contatto avviene presso il carcere, oppure è preso non direttamente con il cliente bensì con i suoi parenti. Al di fuori di queste ipotesi, è bene che il colloquio avvenga personalmente con l’interessato, e presso lo studio del professionista.
Sul piano formale, quando ciò è possibile, la migliore dottrinai consiglia, in linea con l’art. 36, canone III, del codice deontologico, di procedere innanzi tutto con la sicura identificazione del cliente, corredando l’atto di nomina con la fotocopia di un documento d’identità.
Sul piano sostanziale, si afferma che l’avvocato dovrebbe possedere doti culturali ed umane ben superiori a quelle degli altri professionisti, dovendo essere capace di cogliere, con una sorta di analisi psicologica, i più reconditi aspetti della personalità del proprio assistito, dei testimoni, del pubblico ministero e dei giudici.
Tra i diversi tipi di cliente, merita di essere ricordata questa divertente casistica: il diffidente, l’indignato, il riluttante, il logorroico, lo sconclusionato, l’arrogante, l’intraprendente, il parente e l’addetto ai lavori; l’uno peggiore dell’altro, come soggetti umani da affrontare, ma pur sempre clienti con i quali è indispensabile trovare il giusto equilibrio
§ 2 – La cordialità nei rapporti
Nei confronti del cliente, l’avvocato penalista deve saper instaurare un reciproco rapporto di conoscenza e di cordialità, ma senza sconfinare nel territorio di una eccessiva dimestichezza e familiarità. Ciò è assai difficile, potendo l’avvocato e il cliente essere amici da vecchia data, o anche parenti; solo l’esperienza può insegnare i giusti limiti, che qui possiamo esprimere ricordando il principio generale del distacco dalla lite e dal litigante, cosa che può realizzarsi anche compiendo una difesa appassionata.
Nella relazione intersoggettiva, comunque, l’avvocato deve svolgere una funzione trainante e saper trovare il giusto equilibrio tra la cordialità e il distacco, evitando in ogni ipotesi di finire succube del cliente, sia sul piano personale che sulla linea difensiva, che deve sempre essere concordata.
Questo aspetto diventa particolarmente delicato nell’ipotesi di difesa del cliente latitante.
Può accadere che in questi casi il consolidato rapporto umano induca l’avvocato a comportamenti poco chiari; se infatti è ammesso, in queste ipotesi, incontrare l’assistito al di fuori dello studio, occorre evitare che l’incontro si trasformi in disponibilità ad agevolare la latitanza stessa
Pertanto, l’avvocato non dovrà mai rendersi latore di messaggi di alcun tipo, nemmeno se apparentemente innocui, ma dovrà prestare la normale assistenza tecnica e limitare il contenuto del colloquio agli aspetti legati alle strategie difensive.
Anche nel corso dei normali rapporti professionali, comunque, l’avvocato deve mantenere il normale distacco per evitare di confondere la propria posizione con quella dell’assistito, come risulta chiaro da questo episodio:
“pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che, al fine di far conseguire ad altri l’impunità per il reato di contrabbando ed evitare il sequestro delle merci, offenda l’onore e il decoro degli agenti di pubblica sicurezza con l’uso di violenza e minaccia e causando agli stessi lesioni volontarie e danni all’autovettura di servizio”
Infine, per chiudere questo punto con un paradosso, l’avvocato dovrà evitare, oltre ai rapporti economici con il cliente previsti dall’art. 35 del codice deontologico, anche i rapporti sessuali.
È stato infatti ritenuto deontologicamente rilevante il comportamento dell’avvocato “sorpreso in atteggiamento intimo e sconveniente con un detenuto, suo cliente, durante un colloquio tenuto in qualità di difensore presso la casa circondariale”
§ 3 – Il segreto professionale
L’art. 622 del codice penale obbliga i professionisti a mantenere il segreto professionale; tale dovere è meglio precisato, limitatamente agli avvocati, dal codice deontologico che individua all’art. 9 il dovere di segretezza e riservatezza.
La formulazione del codice deontologico amplia e muta il concetto di segretezza, individuandolo non solo come un dovere ma anche come un diritto primario e fondamentale dell’avvocato.
Il dovere di segretezza e riservatezza è valido, naturalmente, per tutti gli avvocati e non soltanto per i penalisti; tuttavia è nel campo del diritto penale che il segreto professionale può comprendere anche fatti di eccezionale gravità, creando non pochi dubbi anche di ordine morale.
Come è stato acutamente rilevato, non potrebbe esistere un’attività professionale libera ed indipendente se non vi fosse questo rapporto tacito ma cosciente tra avvocato ed assistito che si realizza nella tutela del segreto.
Questo diritto/dovere prevede alcune eccezioni che sono indicate dai canoni complementari dell’art. 9.
Si tratta di ipotesi in parte relative al rapporto tra avvocato e cliente, in parte concernenti gli obblighi dell’avvocato nei confronti della società che oggi sono espressamente indicati dall’art. 7 del codice deontologico, nella versione modificata il 27 gennaio 2006.
È stato infatti aggiunto un canone complementare che certamente provocherà intense discussioni perchè introduce il riferimento al rispetto dei doveri che la funzione impone agli avvocati “verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”
Le prevedibili contestazioni che questa aggiunta comporterà riguardano la previsione di una sorta di interesse collettivo, superiore a quello della parte assistita, che in qualche modo scinderebbe il rapporto di fiducia davanti a situazioni di particolare gravità.
Le eccezioni previste dall’art. 9 riguardano, per quanto interessa il collegamento con l’art. 7, la necessità di impedire la commissione, da parte dello stesso assistito, di un reato di particolare gravità.
Vi sono infatti ipotesi nelle quali il cliente non chiede assistenza per fatti già avvenuti e a lui contestati, ma per ottenere informazioni riguardanti reati che intende commettere.
In questo caso i redattori del codice deontologico si sono ispirati all’analoga regola vigente negli Stati Uniti che prevede l’obbligo di rivelare il segreto all’autorità giudiziaria quando il male minacciato attenga alla persona, e non quando riguardi il patrimonio.
La nostra regola è stata però formulata in modo flessibile con un generico riferimento al reato di particolare gravità, lasciando così all’interprete la valutazione dei singoli casi.
Il codice deontologico precisa che la segretezza deve essere rispettata anche nei confronti degli ex clienti e persino nei confronti di chi si rivolga all’avvocato per chiedere assistenza senza che il mandato sia accettato.
Può accadere che un potenziale cliente si presenti nello studio ed esponga alcuni fatti, e che l’avvocato non accetti il mandato per mancanza di rapporto fiduciario, oppure che il soggetto non condivida la linea difensiva proposta dal legale.
In questo caso il rapporto di clientela non sorge ma i fatti riferiti all’avvocato restano coperti dal segreto.
Alcuni classici esempi di violazione del segreto professionale sono rinvenibili in giurisprudenza.
In una occasione il professionista, avendo appreso dal proprio cliente i propositi criminosi in danno di controparte, utilizzò le informazioni riferendole alla stessa controparte per ottenerne una remunerazione in denaro.
Tale comportamento è stato ritenuto disdicevole e sanzionato con la sospensione per un anno
La seconda ipotesi è ancora narrata dal DANO e nel caso di specie l’avvocato, con un comportamento di segno positivo, ha rivelato di aver appreso da un cliente che l’omicidio di un benzinaio era stato compiuto da un componente di un movimento politico; la rivelazione del segreto professionale si è resa necessaria poiché il processo stava per concludersi con la condanna di un innocente.
Il comportamento dell’avvocato fu valutato dal Consiglio dell’Ordine di Milano che contestò all’avvocato la violazione del segreto professionale e l’affermazione ai giudici dell’innocenza dell’imputato basata solo sulla propria parola.
Il Consiglio dell’Ordine di Milano stabilì di assolvere l’incolpato, a differenza del Consiglio dell’Ordine di Catania che, in una fattispecie pressoché identica (risalente a moltissimi anni addietro), punì il proprio iscritto con la radiazione.
Anche in quella ipotesi il professionista, appresa la verità dei fatti da un testimone che era stato pressato per rendere una deposizione non veritiera, ascoltò la propria coscienza violando il segreto professionale, evitando così la condanna di un innocente.
Dopo alcuni anni di privazioni, l’avvocato protagonista dell’episodio fu riabilitato e nuovamente iscritto nell’albo professionale.
L’episodio è stato commentato da Alfredo De Marsico con queste parole, che qualcuno potrà non condividere ma che costituiscono un importante spunto di riflessione: esse testimoniano l’interiore tormento che, a volte, coinvolge l’avvocato penalista:
“La coscienza dell’avvocato deve identificarsi in ogni momento con la coscienza morale dell’uomo e nessuna responsabilità tecnica può far derogare da questo supremo imperativo etico che riassume la dignità dell’uomo e dell’avvocato”.
Quanto diremo nel prossimo paragrafo potrà apparire in contraddizione con queste parole; sta al singolo professionista, con l’esperienza, trovare il giusto punto di equilibrio.
§ 4 – L’avvocato e la verità
Questi episodi che abbiamo ricordato ci dimostrano quanto sia difficile valutare i casi concreti e soprattutto quanto sia arduo individuare il limite tra il segreto professionale e il vincolo dell’avvocato nei confronti della collettività oggi previsto dall’art. 7 del codice deontologico.
Più in generale, è sempre stato dibattuto il rapporto degli avvocati con la verità, e tale dibattito assume rilevanza nella valutazione del rapporto tra avvocato e cliente e nell’immagine dell’avvocato di fronte alla società.
Spesso infatti il comune cittadino chiede all’avvocato, nel corso di conversazioni salottiere, come possa egli difendere anche persone sicuramente colpevoli di orrendi delitti senza dover scendere a patti con la propria coscienza.
Il dubbio in questione non è però limitato al comune cittadino, ma a volte si coglie anche negli studi di etica.
Qualcuno, ad esempio, si è posto il problema della difesa della cosiddette cause ingiuste e quindi se sia lecito per un avvocato assumere la difesa dei terroristi o dei mafiosi di “sicura colpevolezza”.
Ci si è chiesti ancora se il patrocinio dell’avvocato si debba spingere fino al punto di chiedere l’assoluzione di individui certamente colpevoli e particolarmente pericolosi per la società.
L’equivoco insito in queste domande nasce dall’erronea percezione dell’attività difensiva come difesa del reato in sè, quasi che l’avvocato difensore dello stupratore o del pedofilo sostenesse la correttezza del comportamento di chi stupra ed abusa.
In realtà è bene precisare, utilizzando il titolo di un paragrafo di un libro che ogni penalista dovrebbe leggere, che l’attività dell’avvocato riguarda la difesa dell’imputato, e non del reato; e che non è ammissibile in capo ad un avvocato il rifiuto aprioristico della difesa di chi è accusato di reati particolarmente infamanti.
Ferma restando la possibilità di rifiutare l’accettazione di un incarico quando manca il rapporto fiduciario, commette un grave errore l’avvocato che per principio rifiuti di difendere stupratori, pedofili, violenti e simili; egli in realtà difende l’imputato – presunto innocente – di quel reato, e non certo il reato stesso.
A ben vedere, anzi, proprio la difesa dell’essere più abbietto, “sicuramente” colpevole magari perchè colto in flagranza di reato (ma non c’è mai la certezza assoluta), rappresenta un momento elevato della funzione difensiva, poichè in quel caso l’avvocato dimostra che chiunque, anche se colpevole di reati infamanti, in un sistema democratico ha egualmente diritto ad un giusto processo, alle sue garanzie e a tutti i vantaggi che la legge stessa gli concede, poichè la legge è superiore alle emozioni di piazza e al desiderio, che talvolta si diffonde nella collettività, di giustizia sommaria.
L’avvocato, insomma, quando accetta un incarico deve difendere l’imputato senza mai dimenticare la presunzione di innocenza, ed anzi ricordandola ai giudici in ogni momento; lo stesso autore già citato ricorda che nemmeno la stessa confessione dell’imputato è una prova da sola sufficiente, potendo essere non veritiera.
Ed allora, se l’avvocato penalista riuscirà a salvare il cliente dalla condanna anche quando tutte le prove sembrano univoche, non dovrà mai essere additato dall’opinione pubblica come un complice, ma solo come un difensore dei diritti.
La verità nei processi non è quella assoluta, bensì quella che emerge dagli atti; e l’avvocato, al termine del dibattimento, deve prendere le conclusioni secondo quelle che ne sono le risultanze, e non in base al proprio eventuale personale convincimento della colpevolezza del proprio assistito, nè in base all’eventuale confessione rivelatagli sotto il vincolo del segreto.
In sostanza, all’esito di un processo emerge dagli atti e dalla sentenza quella che è stata definita una “verità convenzionale”, che è la scelta finale tra le varie opzioni, necessariamente rimessa all’autorità del giudice.
Il processo, allora, conduce ad una verità probabile, nella quale l’unica certezza assoluta è data dal rispetto delle regole fissate dalla legge per ciascuno dei suoi attori; all’interno di tali regole, quella dell’avvocato è di difendere il proprio assistito, utilizzando solo le prove a favore (e non certamente quelle contrarie) ed evitando di introdurre prove che egli conosce come false, nel rispetto di quanto prevede l’art. 14 del codice deontologico.
Non dobbiamo dimenticare che nel nostro sistema processuale penale l’imputato non ha alcun obbligo di dire la verità nè di confessare i fatti a lui sfavorevoli.
È una scelta ben precisa del legislatore, un diritto garantito che ovviamente si riflette anche sulle strategie della difesa.
Naturalmente, una cosa è il diritto dell’imputato di tacere o mentire, altra è la dichiarazione che l’avvocato faccia impegnando la propria parola: si tratta di comportamenti che in linea di massima devono essere evitati, ma quando ciò sia necessario le dichiarazioni dell’avvocato devono essere veritiere.
L’ipotesi classica è presa dalla giurisprudenza disciplinare e riguarda il caso di un avvocato che ha dichiarato al giudice, durante l’interrogatorio di due imputati nomadi, suoi assistiti, che gli stessi non erano imputabili perchè minori di anni 14 e che di tale circostanza disponeva documentazione.
La dichiarazione è risultata falsa ed il comportamento dell’avvocato è stato sanzionato con 4 mesi di sospensione dall’esercizio della professione.
Altra ipotesi di dichiarazione falsa resa dall’avvocato è stata valutata dal Consiglio dell’Ordine di Catania ed è certamente singolare: il professionista aveva infatti favorito l’accesso al carcere di una persona non autorizzata, dichiarando contrariamente al vero che si trattava di un suo praticante, allo scopo di farla incontrare con il proprio cliente.
Anche in questo caso il professionista è stato sanzionatoxv, con la sospensione per tre mesi, avendo impegnato la propria parola con false dichiarazioni.
Al di fuori di queste specifiche ipotesi, l’avvocato penalista deve fare tutto ciò che la legge gli consente per far ottenere al suo cliente il miglior risultato possibile.
Leggiamo spesso sui giornali di presunti colpevoli (mentre tutti gli imputati dovrebbero essere presunti innocenti) che riescono a salvarsi dalla condanna perchè l’avvocato è riuscito a far maturare la prescrizione, o perchè con un cavillo ha fatto annullare prove raccolte in modo irregolare.
Il commento a queste sentenze è spesso negativo nei confronti dell’avvocato, che in realtà non ha fatto altro che tutelare i diritti di un presunto innocente.
Se il sistema giudiziario non riesce a terminare i processi in tempo ragionevole, e se il sistema investigativo non riesce a raccogliere prove valide, la colpa non è dell’avvocato; qualche volta l’attività difensiva potrà comportare anche l’assoluzione di un colpevole, ma qualche altra volta eviterà ad un innocente una condanna ingiusta.
Ciò che conta è comunque la centralità del processo con il rispetto delle sue regole, che l’avvocato dovrà interpretare lasciandosi guidare dal peso della sua toga:
“È nera come un’ombra che ricopre un’anima.
È nera come un manto di dolori e di piaghe.
È nera come la notte che nasconde gli smarrimenti.
Basta indossarla, per raccogliere il peso
di tutti i dolenti, di tutti i colpevoli, di tutti i derelitti.
È un manto che va portato
come corona di spine”
(La poesia è dell’avv. Paolo Camassa)
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{Domenico Gozzo è sostituto procuratore generale di Palermo}
Da magistrato vi spiego perché gli avvocati dei mafiosi non vanno demonizzati
Leggo sui giornali di una polemica relativamente alla indicazione, quale membro di un comitato legato alla commissione antimafia lombarda, di un avvocato, che sarebbe non degno di rivestire questo incarico perché ha difeso mafiosi.
Tra questi, viene indicato come principale “capo di imputazione” l’ex capo di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo. Premetto che non conosco l’avvocato in questione, ma essendo una questione di principio, penso di potermi ugualmente esprimere. Del resto, visto che il principale capo di incolpazione è la difesa di Lo Piccolo, io che Lo Piccolo ho contribuito a catturarlo il 5 novembre 2007, penso di avere quantomeno diritto di intervenire su di una questione che a mio personale avviso, rischia di fatto (al di là delle buone intenzioni di chi la pone) di gettare un’ombra sinistra sulle istituzioni antimafia di questo paese.
Dobbiamo stare molto attenti: perché da una idea giusta, senza il rispetto della legge e del diritto, può nascere anche una dittatura.
È chiaro che il sentimento antimafioso è di per se giusto.
La mafia, come diceva Peppino Impastato, “è una montagna di merda”
La violenza insita nei comportamenti mafiosi, la sopraffazione del forte sul debole, la straziante storia delle nostre Stragi, tutto ci porta ad essere convintamente antimafiosi.
Ma qualsiasi idea deve inserirsi in un quadro di principi: i principi della nostra Costituzione, più volte riaffermati anche nel voto come giusti dal popolo italiano. Tra questi principi, ci sono anche quelli dello stato di diritto: il diritto ad una difesa, ad una giusta e chiara imputazione, ad un processo equo, alla salute (anche e soprattutto in carcere) etc…
Il difensore è sempre architrave dello stato di diritto.
I romani dicevano che il processo è un atto di tre persone, giudice, attore e convenuto, e cioè, nel processo penale, giudice, pm ed avvocato difensore.
Senza una di queste persone, il processo non è equo. Il processo non può stare in piedi. Non c’è giustizia. Trovo buffo che una persona sia parte essenziale del processo, l’atto più alto della giustizia, e che non possa essere parte di una commissione antimafia.
Ha difeso mafiosi? Li ha difesi, appunto. Non è mafioso per proprietà transitiva. Si dice in maniera sprezzante “avvocato di mafia”: ed allora ci sono anche gli “avvocati di corruzione”, quelli “di truffa”, etc…?
È molto difficile fare l’avvocato di mafiosi.
Il mafioso è abituato ad usare la violenza e vorrebbe utilizzarla anche nei confronti dell’avvocato.
Vorrebbe che l’avvocato si piegasse ai suoi voleri.
Se si fa bene l’avvocato, e la stragrande maggioranza dei difensori – vi assicuro da pm – lo fa, si rischia anche in prima persona.
Questo lo sa chiunque le aule di giustizia le frequenta.
Mi pare ovvio che l’antimafia non è e non può essere solo una questione di magistrati, parenti delle vittime e avvocati di collaboratori o parti civili… l’anti mafia ha bisogno di tutti, e di tutti gli operatori del diritto, avvocati in primis, e deve essere una “precondizione” politica: non può e non deve esistere una forza politica che non abbia nel suo Dna l’antimafia.
Questo è quello cui tutti dobbiamo tendere.
Non un’antimafia solo dei duri e puri, ma un’antimafia di tutti.
Ed è importante che la lotta alla mafia non diventi un pretesto per rinunziare, o per sottovalutare, concetti e diritti fondamentali: ho sentito tante volte, sui giornali ma anche sul web, sostenere che per i mafiosi il diritto non dovrebbe valere, che si dovrebbero uccidere tutti, che non hanno diritto alla salute e devono rimanere in carcere anche se gravemente malati, ed altre assurdità del genere.
Se poi, invece, si cede alle richieste dei mafiosi, non è più una questione di fare parte o meno di una commissione antimafia: si arriva alla possibile responsabilità penale.
E questo vale per tutti, non solo per gli avvocati.
Ma nessuno, nel caso di specie, ha richiamato una ipotesi del genere.
Per questo, pur stimando Nando Dalla Chiesa, non posso condividere la sua campagna contro un avvocato, che, si badi bene, non è “di mafia”, ma “solo” un avvocato.
E con la sua esperienza di difensore può portare, a mio avviso, armi in più per la comprensione del fenomeno mafioso, che possono veramente arricchire una commissione antimafia.
* Domenico Gozzo è sostituto procuratore generale di Palermo
https://www.instagram.com/tv/CBLfSh4CgYv/?igshid=2gjx6lhqbljo
Quattro condanne per l’omicidio Fragalà, l’avvocato temuto dalla mafia
“Mi aspettavo almeno un ergastolo”, commenta la figlia del penalista massacrato a bastonate 10 anni fa, tolta anche l’aggravante della crudeltà. Per i pm la sentenza certifica la matrice mafiosa
Una spedizione punitiva per colpire l’avvocato temuto dai boss.
Quattro condanne e due assoluzioni: è la sentenza della prima sezione della Corte d’Assise di Palermo, dopo una camera di consiglio durata circa sei ore, tra mille precauzioni legate all’emergenza coronavirus nell’aula bunker dell’Ucciardone, ha condannato quattro dei sei imputati del processo per l’omicidio di Enzo Fragalà: sono Francesco Arcuri, Antonino Abbate, Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia.
Sono ritenuti gli assassini dell’avvocato penalista, ferito a morte a Palermo, sotto lo studio professionale, vicino al Palazzo di Giustizia, il 23 febbraio 2010, e spirato in ospedale tre giorni dopo.
Assolti, invece, Francesco Paolo Cocco e Francesco Castronovo.
Arcuri ha avuto 24 anni, Abbate 30, Siragusa 14 e Ingrassia 22.
L’accusa aveva chiesto l’ergastolo per tutti e sei.
I giudici del collegio presieduto da Sergio Gulotta, a latere Monica Sammartino hanno ritenuto che ci fossero troppe contraddizioni riguardo alle posizioni dei due assolti, di cui è stata ordinata la scarcerazione.
Per il resto i giudici hanno applicato la norma che punisce meno severamente il reato “diverso da quello voluto”, nel senso che i quattro imputati condannati avrebbero avuto lo scopo di picchiare Fragalà “per dargli una lezione”, ma avrebbero finito con l’assassinarlo.
Come esecutore materiale è stato condannato solo Abbate, che ha avuto la pena più alta, 30 anni.
Con lui quella sera ci sarebbero stati Ingrassia e Siragusa: il primo non ha avuto altre attenuanti, mentre a Siragusa è stata riconosciuta la collaborazione, perché, pur non essendo stato creduto dalla Procura, ha reso una serie di dichiarazioni.
Infine Arcuri è stato ritenuto il mandante e condannato a 24 anni.
“E’ stato riconosciuto l’impianto accusatorio. Ha retto anche il movente che avevamo individuato: fu un omicidio punitivo, voluto dalla mafia”, affermano i pm Francesca Mazzocco e Bruno Brucoli, “naturalmente dovremo leggere le motivazioni per valutare pienamente la decisione”
Il motivo del delitto, secondo i pm sarebbe strettamente collegato alle richieste di Fragalà, nell’ambito delle difese dei propri clienti, di farli parlare con i magistrati. Cosa che portò l’avvocato a essere “ritenuto pericoloso perché la difesa deve cedere alle ragioni del sodalizio mafioso, dell’omertà”
A chiedere l’omicidio sarebbero stati il boss Nino Rotolo (da anni detenuto al 41 bis), capo di Pagliarelli, e Gregorio Di Giovanni, che comanda sul mandamento di Porta Nuova, indagato, ma non sottoposto a misura cautelare (è detenuto per altro).
I carabinieri si sono basati sul contributo di Francesco Chiarello, pentito che ha fatto riaprire un’indagine in un primo momento archiviata, ma che ha reso, pure lui, versioni apparse contraddittorie.
A lui si sono aggiunti altri collaboranti e una serie di intercettazioni effettuate da varie forze di polizia.
“Mi aspettavo almeno un ergastolo”, dice a caldo Marzia Fragalà, figlia del penalista ucciso. La giovane donna, anche lei avvocato, ha assistito, unica tra i familiari, alla lettura del dispositivo.
“Non mi aspettavo le due assoluzioni – prosegue – né queste condanne, nessuna delle quali al carcere a vita. Rispettiamo comunque la decisione. La sentenza non ci soddisfa appieno. Hanno anche tolto l’aggravante della crudeltà nonostante il modo in cui è stato ucciso mio padre”
La sentenza riconosce, infine, il diritto dei familiari al risarcimento dei danni e liquida una provvisionale immediatamente esecutiva per la vedova, i due figli e la sorella della vittima e ordina anche il risarcimento in favore della Camera penale e dell’Ordine degli avvocati, costituiti parte civile assieme al Consiglio nazionale forense, all’associazione Caponnetto e al Comune di Palermo.
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Franco Coppi: “Uno Stato è forte e autorevole quando rispetta i diritti. Anche quelli di un mafioso…”
Secondo l’avvocato e giurista, «il processo da remoto non garantisce l’oralità, l’immediatezza del contatto tra le parti e la cross examination.
Tutte caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere»
In un periodo così delicato per l’amministrazione della giustizia, in cui i principi fondamentali dell’ordinamento vengono messi in discussione, l’analisi del professore e avvocato Franco Coppi è una utile bussola che ci aiuta ad orientarci nella giusta direzione.
In questi giorni hanno suscitato molte polemiche le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Secondo alcuni magistrati lo Stato si è indebolito.
Qual è il suo punto di vista?
Se non sbaglio tutti questi personaggi vengono “scarcerati” per motivi di salute. Non è che ad un certo momento vengono mandati a spasso perché le carceri sono piene o lo Stato cede al ricatto di qualcuno.
Sono persone le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario.
Il nostro ordinamento è pieno di disposizioni che stabiliscono che se una persona si trova in uno stato di salute tale da renderla incompatibile con la reclusione in carcere viene sospesa l’esecuzione delle pena o si concedono i domiciliari.
La regola è questa, anche se si tratta di un boss mafioso, e la forza dello Stato sta proprio nel rispettare le regole, piacciano o non piacciano.
Sul fronte politico quasi tutti sono contro queste concessioni di misure alternative a carcere.
Matteo Renzi ha detto: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i superboss”
Se il boss si trova in una situazione di salute tale per cui non risulta più curabile in carcere, trattenerlo lì dentro significa trasformare la pena in un trattamento disumano che l’articolo 27 della Costituzione vuole sia bandito dal nostro sistema.
Si può essere garantisti con il “ma” davanti?
O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni.
Queste affermazioni vanno ad alimentare quel populismo penale per cui i mafiosi sono dei sanguinari (non sapendo ad esempio che Pasquale Zagaria non si è mai macchiato di reati di sangue) che non hanno più diritti e per cui dobbiamo buttare la chiave.
Come rispondere?
Espressioni come “buttare la chiave” o “deve marcire in carcere” non dovrebbero far parte del vocabolario di uno Stato forte che amministra la giustizia con equilibrio.
Il vecchio Beccaria avvertiva e ammoniva che mai una persona può essere trasformata in cosa.
I diritti fondamentali sono riconosciuti dall’ordinamento penitenziario a tutti i detenuti, anche ai responsabili di reati di mafia.
In questo a mio avviso c’è la dimostrazione della forza dello Stato.
*****
In questi giorni si discute molto anche del processo da remoto.
Il decreto legge presentato due giorni fa ha scongiurato il peggio.
Secondo lei, come originariamente concepito, avrebbe offerto un buon servizio ai cittadini e alla macchina della giustizia?
Ritengo di no. In passato è stato compiuto uno sforzo per dare al Paese un processo tutto fondato sull’oralità, sull’immediatezza del contatto tra le parti e sulla cross examination, mentre il processo da remoto, così come concepito inizialmente, contraddiceva tutte queste caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere. Aggiungo che mi sarebbe parso di difficile praticabilità un processo di quel genere quando ci si trova di fronte ad un procedimento con una pluralità di imputati, con decine di testimoni. Non dobbiamo dimenticare che in ogni grosso tribunale – pensiamo a Roma o Milano – si celebrano decine di processi al giorno. Si figuri l’organizzazione che sarebbe necessaria per mettere in atto qualcosa del genere.
Per come era immaginato, il processo da remoto non avrebbe permesso la pubblicità dell’udienza e la presenza della stampa.
Su questo punto cosa pensa?
La pubblicità dell’udienza è un fatto che viene spesso sottovalutato.
Ma rappresenta il controllo della collettività su come si amministra la giustizia, è partecipazione ad essa, quindi è un dato che non può essere sottovalutato.
In questo momento che ministro della Giustizia vorrebbe?
Mi piacerebbe avere un ministro della Giustizia capace di valutare i risultati conseguiti con il cosiddetto nuovo codice di procedura penale e che sappia prendere atto anche dei suoi fallimenti disastrosi, per poi avere il coraggio di riesaminare la situazione, eventualmente rivalutando qualche cosa del passato. Non è detto che tutto quello che è passato sia cattiva merce.
A cosa si riferisce?
Questa idea della prova che si deve formare nel contraddittorio delle parti, per cui tutto quello che è stato raccolto in fase istruttoria non deve essere messo a disposizione del giudice prima del dibattimento perché si teme che l’organo giudicante possa formarsi un pre-giudizio, ha fatto sì che processi che con il vecchio codice si potevano concludere in due/tre udienze, oggi vengono trattati in venti/trenta udienze, con distacchi temporali incredibili tra l’una e l’altra.
Ciò arreca uno svantaggio enorme, ad esempio, al principio dell’oralità e della formazione del giudizio aderente agli atti processuali.
Ecco, questo sarebbe proprio il momento in cui ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per esaminare freddamente e lucidamente qual è lo stato dell’arte.
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«Se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla» (Serafino Famà)
Serafino Famà (Misterbianco, 3 aprile 1938 – Catania, 9 novembre 1995) è stato un avvocato italiano, vittima della mafia.
L’assassinio
La sera del 9 novembre 1995, alle 21 circa, Serafino Famà e il collega Michele Ragonese escono dallo studio e, all’angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca, a Catania vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono l’avvocato Famà.
La vittima dell’agguato si accascia al suolo e muore alle 21.20 circa, dopo una inutile corsa in ambulanza al Pronto Soccorso dell’ospedale Garibaldi.
Le indagini e i processi
Per circa un anno e mezzo le indagini non conducono a piste investigative concrete, sino al 6 marzo 1997, quando Alfio Giuffrida, affiliato e reggente del clan mafioso Laudani, manifesta la sua intenzione di collaborare con la giustizia.
In base alla prima ricostruzione, Giuseppe Di Giacomo (reggente del clan Laudani) è il mandante che, dal carcere, ordina l’omicidio agli esecutori materiali Salvatore Catti e Salvatore Torrisi, mentre lo stesso Giuffrida e Fulvio Amante osservano la scena da un’automobile. Il 16 marzo del 1998 il GUP del Tribunale di Catania dispone il rinvio a giudizio per loro e per altre quattro persone, accusate di omicidio volontario pluriaggravato, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e ricettazione.
Di Giacomo era stato arrestato negli anni precedenti mentre si trovava a letto con Stella Corrado, moglie di suo cognato Matteo Di Mauro. L’infedeltà di Di Giacomo e della Corrado avrebbe potuto causare ripercussioni all’interno del clan e per questo motivo Di Giacomo aveva programmato l’omicidio della donna: intento non realizzato poiché lo stesso era stato arrestato prima di poterlo portare a compimento.
A quel punto l’uomo sperava che la sua amante lo scagionasse durante una deposizione che avrebbe dovuto rendere al Tribunale di Catania in un processo a carico di Di Mauro, difeso dall’avvocato Famà. Ma Famà aveva consigliato alla donna di astenersi dal fare qualunque dichiarazione, e lei aveva accettato il consiglio del legale. Questo suggerimento è costato la vita all’avvocato Serafino Famà, nella sentenza si legge: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo, ovvero la scarcerazione»
I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà»
Catti, Amante, Di Mauro, Di Giacomo, Fichera, Gangi e Torrisi gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all’ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida e a Giuffrida Alfio Lucio è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.
Testimonianze di coraggio: Serafino Famà, l’avvocato ucciso per esercizio corretto di attività professionale
Fu vittima di un agguato a Catania il 9 novembre del 1995, per ritorsione della sua azione di penalista che determinò l’irrealizzabilità della scarcerazione di un boss mafioso
Era il 9 novembre 1995 quando intorno alle ore 21, all’angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca a Catania, Serafino Famà cadeva vittima di sicari, raggiunto da 6 colpi di pistola mentre, uscito dallo studio, stava raggiungendo la sua macchina posteggiata in piazzale Sanzio. Aveva 57 anni.
Famà era un avvocato penalista che non considerava la sua funzione un semplice lavoro: era un professionista integerrimo che agiva a difesa della forma e delle regole, un uomo di Legge che si rifiutava di scendere a compromessi.
L’uccisione di Famà fu ordinata dal boss di mafia Giuseppe Di Giacomo dal carcere di Firenze in cui era detenuto, per ritorsione, in quanto l’intervento di Famà come penalista in un processo che lo vedeva imputato in prima persona, aveva condotto alla mancata testimonianza di un testimone considerato “chiave” da Di Giacomo e quindi causa diretta della irrealizzabilità della sua scarcerazione.
Lo Stato ha onorato il sacrificio di Serafino Famà con il riconoscimento concesso dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99 a favore dei suoi familiari, costituitisi parte civile nel processo.
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