GIUSTINO FORTUNATO E L’INFELICITÀ LUCANA
Lettere lucane
Tanti anni fa, leggendo “Le due Italie” di Giustino Fortunato, un’antologia di scritti del grande meridionalista curata da Stefano De Matteis, mi colpì molto una pagina nella quale Fortunato descriveva il male oscuro dei suoi concittadini lucani. Fortunato raccontava in quella pagina che ogni volta che tornava nel suo collegio gli capitava di notare l’improvvisa scomparsa di qualcuno. Chiedendo informazioni sulla persona che si era eclissata, spesso si sentiva rispondere: “S’è chiuso”. Questa frase mi colpì molto, perché corrispondeva a qualcosa che conosco personalmente. Anche a me càpita, tornando in paese, di notare l’improvvisa scomparsa di qualcuno.
E, quando chiedo informazioni, mi sento dire frasi come “non scende più in piazza”, “non si fa più vedere”. Sarà la solitudine del suo territorio, sarà il silenzio delle sue campagne e dei suoi paesi, sarà la difficoltà di realizzarsi, ma in Lucania è più facile che altrove rimanere delusi, rinunciare alle ambizioni, chiudersi in un silenzio ferito e ostinato. C’è poi un aspetto caratteriale che non aiuta: una certa ingenuità, una certa propensione alla solitudine, una mitezza sognante e difensiva, una diffidenza naturale che viene probabilmente da secoli di angherie subite mordendo corde, picchiando i figli per non picchiare signori e padroni. Personalmente penso di essere emigrato anche per fuggire dai raggi di questo sole nero, ma mi rendo conto che questa vocazione all’infelicità non mi ha mai lasciato, ovunque sia andato. L’infelicità lucana, ecco. Sono cresciuto con padri e madri che non erano mai felici di niente, né del lavoro fatto, né del guadagno ricevuto, né dei figli che avevano. E allora sono scappato in cerca di felicità e di stordimenti, ma oggi sono consapevole che l’infelicità della mia terra mi ha seguito dappertutto come un cane fedele.
diconsoli@lecronache.info