NOSTALGIA DI ELIGIO, IL PASTORE CHE NON PARLAVA MAI
Lettere lucane
Nella contrada dove sono cresciuto a Rotonda, che si chiama Fratta, spesso passava un ragazzo poco più grande di me che si chiamava Eligio, e che andava a pascolare le capre. Era timidissimo, parlava poco. Ma era di un’educazione commovente. Ricordo che quando c’erano le feste religiose – Sant’Antonio, San Giuseppe, ecc. – si metteva sempre la cravatta, proprio come un ragazzo degli anni ’40. Il padre non lo aveva conosciuto, la madre morì giovane. Viveva con la nonna e con alcuni cugini, che ancora oggi si occupano di lui. Quando lo vedevo facevo di tutto per parlarci, ma di fronte alle mie domande rimaneva in silenzio, al massimo annuiva con la faccia rossa. Si sentiva a disagio, preferiva fuggire dai suoi animali. Una volta andai a trovarlo – viveva in una casa umile in una costa scoscesa – e la nonna, za’ Maria Ntunia, mi accolse come un figlio, felice che il suo Eligio avesse un “compagno” – così si chiamano al mio paese gli amici. Non lo vedo da alcuni anni, ma ogni tanto penso a lui. Ai suoi occhiali a fondo di bottiglia. Al suo balbettio. Alla sua struggente timidezza. E alla sicurezza che prendeva non appena aveva a che fare con gli animali – le persone invece lo intimidivano, sapevano cose che lui non sapeva, riuscivano ad avere scioltezze che il suo corpo di legno non aveva. In paese noi di campagna eravamo un po’ derisi, perché eravamo più rustici, lavorando quasi tutti, nei pomeriggi, o nelle terre o con gli animali. Eligio lo era ancora di più, perché faceva fatica a parlare in italiano, e perché quando era intimidito iniziava a balbettare, e diventava rosso. Io so che un giorno busserò alla sua porta, e ammetterò a me stesso che tutto quello che ho fatto vale molto meno del suo candore. Berremo un bicchiere di vino al crepuscolo e staremo in silenzio, perché le parole sono state soltanto un imbroglio.
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