MORIRE IN CITTÀ, MORIRE IN PAESE
Lettere lucane
Qualche giorno fa nella contrada lucana dove sono cresciuto è morta za’ Iursula. Sono andato a vegliarla a casa sua, perché la conoscevo da ragazzo, e perché sono molto amico dei figli. Za’ Iursula stava male da anni, ma non l’ho mai sentita lamentarsi. Era coraggiosa e autoironica, ed era al polo opposto di qualsiasi forma di ipocondria. Ero andato a trovarla pochi giorni fa, e anziché parlami della sua malattia, mi faceva domande su mia madre, su mia figlia, sul lavoro. Era pelle e ossa, ma non aveva nessuna intenzione di dare soddisfazione alla malattia, che lei aveva accolto in casa senza darle confidenza, ignorandola coraggiosamente. Quando sono andato a salutarla per l’ultima volta, ho provato una strana pace. Di solito la morte e il pensiero della morte mi procurano angoscia, malessere, panico. Invece al suo fianco mi sentivo in pace, e avvertivo la naturalezza di un evento che in città percepisco come alieno, mostruoso, scandaloso. Quanto più mi allontano da Roma e ritorno nella civiltà rurale e contadina delle mie origini, tanto più il mio corpo si calma, e il terrore della morte si attenua. Il contatto con la natura e con un destino comunitario condiviso e partecipe rendono consapevoli della ciclicità della vita, e indeboliscono quella presunzione – che in città è più accentuata – di sapere molte cose, di sentirsi forti, quasi invincibili. La città è un gigantesco anestetico che tiene lontani dall’essenza dell’essere. Ma, quando poi arriva il momento della verità, ci si ritrova sgomenti, isolati, disperati, esclusi, gettati in anonime corsie d’ospedale. In paese è diverso, perché la caduta è una presenza innascondibile, che non puoi stordire con il rumore e con una vita liquida e frenetica. Ecco perché mi auguro un giorno di morire a Fratta, e di infondere in chi mi starà intorno la stessa pace di za’ Iursula.
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