LA MORTE PER ACQUA DEL FILOSOFO LOMONACO
Lettere lucane
Il suicidio è sempre un abisso. Quando un essere umano preferisce la morte alla vita ci troviamo sempre di fronte a un dolore annichilente, che noi, finché decidiamo di rimanere in vita, non possiamo comprendere. In questi giorni si è molto parlato del suicidio di Cesare Pavese, io invece ho più volte ripensato a Francesco Lomonaco (1772-1810), uno dei più grande filosofi di origini lucane – era di Montalbano jonico – che il primo settembre del 1810 si tolse la vita gettandosi nel fiume Ticino, a Pavia. Lomonaco aveva appena trentotto anni quando si congedò dalla vita terrena, ma già a quell’età era un grande patriota, uno scrittore, un filosofo che aveva segnato la cultura del tempo (era amico di Foscolo), e che si era disntinto per aver partecipato alla madre di tutti i fallimenti meridionali, la rivoluzione napoletana del 1799, dalla quale si salvò per un errore burocratico. Andato in esilio in Francia, diede alle stampe il “Rapporto al cittadino Carnot”, che analizzava le cause della fallita rivoluzione, rovesciata dalla violenta reazione del cardinale Ruffo. Lomonaco era molto stimato, tanto che il giovane Alessandro Manzoni lo considerava un maestro, fino al punto di dedicargli una poesia giovanile e parole affettuose all’indomani del tragico gesto, sottolineando l’animo tormentato di quel piccolo lucano che gli aveva insegnato non poche cose di filosofia. Gli esuli patrioti dei primi dell’800 fecero vite grame, disperate, raminghe, e non poche volte pensarono che solo il suicidio potesse dar loro pace e dignità. Io non so che darei per sapere cosa provasse Lomonaco in quei giorni a Pavia, e perché non vedesse più luce davanti a sé. A volte chiudo gli occhi e fantastico, e m’immagino lì, su quelle sponde, e urlo “Francesco!”, e lui, voltandosi, che si perde piangendo nel mio abbraccio.
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