PAOLO ARMELLI : piccola guida per parlare e scrivere con rispetto delle persone lgbt+
Un sinonimo anglofono è transgender, che esprime un’accezione più ampia nel senso che non contempla che una persona trans debba necessariamente approdare al sesso maschile o a quello femminile.
Per inciso è preferibile non usare mai trans come aggettivo sostantivato in sé (non “un/una trans“, meglio “una persona trans, una donna trans” ecc.)
Di seguito alcune norme di base che, fra terminologia ed espressioni ricorrenti, possono aiutare a superare – se davvero c’è volontà – un retaggio giornalistico ancora arretrato e discriminatorio.
Piccola guida per parlare e scrivere con rispetto delle persone lgbt+
Nessuno nega che parlare di temi lgbt+ sia linguisticamente complesso: ma come sempre quando si parla di diritti e minoranze, il linguaggio è politica e le imprecisioni in questo senso sono una mancanza di rispetto
Il terribile caso di cronaca è tristemente noto: Paola Maria Gaglione era una ragazza diciottenne di Acerra rimasta uccisa dopo che, secondo le ricostruzioni, il suo scooter è stato speronato dal fratello che non accettava la sua storia con Ciro Migliore, ragazzo transessuale rimasto ferito dopo la caduta e il successivo pestaggio da parte sempre del fratello della sua fidanzata.
Ad aggravare il caso di misoginia e violenza transfobica, già agghiacciante di per sé, nelle ore scorse ci si sono messe le ricostruzioni grossolane e spesso tendenziose dei mezzi di stampa italiani.
Moltissime testate hanno trattato la vicenda con una serie di inesattezze tremende e spesso offensive: si è parlato di “due ragazze“, “Paola Maria e la sua ragazza“, e poi di “amore omosessuale” e di “relazione lgbt“
Ciro si identificava invece come un uomo, dunque era il ragazzo di Paola Maria, e il fatto che molti giornali avesse riportato il suo nome di prima è stato sia impreciso che indelicato.
Questo però è solo l’ennesimo esempio di una pratica molto diffusa soprattutto nel giornalismo italiano, per il quale i temi lgbt+sono rilevanti solo in relazione a sensazionalistici casi di cronaca oppure a coloriti dibattiti di costume.
Parlare delle persone lgbt+, invece, significa parlare di individui con una propria storia, spesso coi propri traumi e i propri dolori, relegati in tutti gli ambiti a una minoranza discriminata e maltrattata (e il dibattito estenuante sulla proposta di legge sull’omobitransfobia ancora lo dimostra ampiamente)
Nessuno nega che le questioni della comunità lgbt+ siano complesse, a livello linguistico e non solo, ma l’impegno a conoscere i termini esatti e i modi di dire più dignitosi è solo il primo passo nel rappresentare con dignità e rispetto queste persone.
Mai come in questi casi, ma in generale sempre quando si tratta di minoranze e diritti, il linguaggio è politica, e la sciatteria verbale una forma più o meno esplicita di complicità.
Di seguito alcune norme di base che, fra terminologia ed espressioni ricorrenti, possono aiutare a superare – se davvero c’è volontà – un retaggio giornalistico ancora arretrato e discriminatorio.
La pertinenza
Dovrebbe essere scontato ma la prima regola dovrebbe essere piuttosto semplice: se una persona è gay, lesbica, bisessuale o transessuale non è sempre rilevante dal punto di vista giornalistico.
L’orientamento o l’identità sessuale di una persona dovrebbe essere menzionato solo se è davvero pertinente a ciò che si sta raccontando (per esempio come aggravante di un delitto, come spaccato di un fenomeno sociale, come racconto di una certa categoria di persone in un ambito professionale ecc.). Per il resto, si può raccontare di una persona in quanto tale anche senza fare riferimento alla sua vita privata, se non strettamente necessario o importante (vedi anche outing qui sotto).
I termini
Mai come quando si parla di temi lgbt+ la chiarezza sui termini è fondamentale. Innanzitutto è importante la distinzione fra sesso biologico (ovvero le caratteristiche anatomiche con cui si nasce o che sono assegnate alla nascita), il genere (il pacchetto di caratteristiche sessuali, estetiche e storico-sociali attribuite all’essere maschio, femmina o altro) e l’identità di genere (ossia il genere nel quale una persona si identifica, indipendentemente dal sesso di nascita). Diverso ancora è l’orientamento sessuale, cioè la definizione della propria attrazione sessuale, romantica o emotiva nei confronti di una certa tipologia di persone. Bisogna distinguere questi termini, senza confonderli ed evitarne altri di ambigui o irrispettosi come “preferenza sessuale” o “stile di vita“
La sigla
Spesso si utilizza una sigla complessa per indicare le persone non eterosessuali o non cisgender (cisgender significa persona che si riconosce nel sesso con cui è nato).
Lgbt è la sigla storica che vuole rappresentare con le iniziali le persone lesbiche (donne attratte da donne), gay (uomini attratti da uomini), bisessuali (persone attratte sia da uomini sia da donne, o da altre persone al di là del loro sesso), transgender o transessuali (persone che non si riconoscono nel sesso di nascita).
Nel corso del tempo per ragioni di inclusività si sono aggiunte altre lettere, fino ad arrivare a una sigla come Lgbtqia+, in cui vengono comprese anche le iniziali di queer (persone che non si riconoscono nella divisione binaria dei generi), intersessuali(persone i cui caratteri sessuali di nascita non sono definibili univocamente né come maschili né come femminili), asessuali (persone che non provano attrazione verso nessun genere). Il + finale sta a indicare tutte le altre definizioni possibili nello spettro dei generi e degli orientamenti.
Non c’è una sigla migliore di un’altra, tanto che anche all’interno della comunità ci sono dibattiti talvolta accesi, ma è bene puntare a essere il più inclusivi possibili (Wired per convenzione ricorre, unendo sintesi e inclusività, a lgbt+).
Un o una trans?
Note le definizioni, bisogna anche sapere come trattare linguisticamente gli individui di cui si parla. Un equivoco molto ricorrente riguarda le persone transessuali (che, ricordiamolo anche se è avvilente farlo, non sono travestiti).
Le persone transessuali, come detto, non si riconoscono nel sesso assegnato alla nascita: nei casi più frequenti questi individui seguono un percorso di riassegnazione del genere – detto transizione – che può svolgersi in più fasi (ormoni, chirurgia di riassegnazione sessuale ecc.) ma non necessariamente in tutte.
È importantissimo rivolgersi a queste persone e parlare di loro rispettando l’identità di genere in cui si riconoscono: gli uomini transessuali sono persone che, nati donne, si riconoscono nel sesso maschile (si useranno quindi articoli, pronomi e aggettivi maschili: “un ragazzo trans“); le donne transessuali sono persone che, nate uomini, si riconoscono nel sesso femminile (si useranno quindi articoli, pronomi e aggettivi femminili: “una ragazza trans“).
Un sinonimo anglofono è transgender, che esprime un’accezione più ampia nel senso che non contempla che una persona trans debba necessariamente approdare al sesso maschile o a quello femminile.
Per inciso è preferibile non usare mai trans come aggettivo sostantivato in sé (non “un/una trans“, meglio “una persona trans, una donna trans” ecc.).
Il deadnaming
In nessun modo è dato o rilevante sapere a che punto della transizione le persone transessuali si trovano, né se è loro volontà completarla: sono da evitare assolutamente espressioni del tipo “prima/dopo il cambio di sesso”, “trans operata/o” e via dicendo. In più è da evitare il più possibile – se non per scopi biografici non evitabili in alcun altro modo – il cosiddetto deadnaming: quando una persona inizia un percorso di transizione con tutta probabilità sceglie un nuovo nome che identifichi la sua identità più autentica, abbandonando dunque quello assegnato alla nascita.
Quello è un dead name, il nome di una persona che non esiste più, ed evocarlo è una profonda mancanza di rispetto per le persone transessuali (evitare dunque frasi del tipo “X, che prima si chiamava Y, …” e ancora peggio “Y, che ora si fa chiamare X, …“).
Soluzioni non binarie
La situazione linguistica si fa evidentemente più complessa quando ci si deve riferire a persone non-binarie o genderqueer, ovvero quelle persone che si identificano al di fuori dell’opposizione binaria fra sesso femminile e maschile.
Mentre lingue come l’inglese ha adottato da tempo soluzioni intermedie (come utilizzare il pronome they/them al singolare per non scegliere fra maschile e femminile, o coniando addirittura altri pronomi neutri: ey, ze, sie ecc.), l’italiano è a oggi sostanzialmente impreparato a superare il binarismo grammaticale.
Alcune proposte, come l’utilizzo dell’asterisco o della schwa (“Ciao a tutt*“, “Ciao a tuttə“), sono molto dibattute ma di fatto ancora lontane dall’uso comune per essere universalmente applicabili.
L’ambiente omosessuale
Superate le mere, ma già complesse, questioni grammaticali in quanto tali, bisogna fare attenzione alle questioni di stile. Partiamo dal presupposto che, soprattutto quando si affrontano i casi di cronaca, l’ideale sarebbe riportare i fatti con assoluta oggettività, senza allusioni o giudizi anche impliciti.
Quando quindi si ritiene opportuno far riferimento all’identità e all’orientamento delle persone coinvolte, è preferibile abbandonare certe frasi fatte ambigue e tendenziose, del tipo: “il delitto si è consumato nell’ambiente omosessuale“, o peggio ancora “in contesti sospetti“, “X è stato beccato in atteggiamenti equivoci“. Altrettanto da evitare sono espressioni del tipo “storia gay“, “amore lesbico” o “relazione lgbt“: le storie, gli amori e le relazioni sono storie, amore e relazioni al di là delle etichette semplicistiche che gli si affibbia.
Non sarà il caso di ricordare che “lobby gay“, “mafia gay” o “interessi lgbt” sono cose che non esistono nemmeno nei libri fantasy.
Coming out e outing
Ultimo ma non ultimo, un equivoco più che mai ricorrente e duro a morire: si parla di coming out quando una persona dichiara pubblicamente il proprio orientamento o la propria identità sessuale; l’outing, al contrario, è la pratica di rivelare l’orientamento o l’identità sessuale di un’altra persona senza il suo consenso.
Se nel primo caso si tratta di una scelta consapevole e libera (persino liberatoria), nel secondo è invece una violazione della privacy, un vero e proprio sopruso fatto con intenti spesso e volentieri malevoli.
A riguardo è assolutamente inappropriato rivelare nei propri articoli l’identità o l’orientamento sessuale di una persona che non ha pubblicamente manifestato l’intenzione di rendere note queste informazioni: si tratta appunto di outing, e dei più gravi perché appunto fatto a mezzo stampa.
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