CALCIOPOLI, QUANDO IL SISTEMA CALÓ LA RETE
La riflessione sul calvario che dopo tante assoluzioni chiuse il capitolo del caso Postiglione
LA ZAPPAREDDA, I LAMPASCION E I MARRUCHEDD
Alla diffusione della notizia della fine del processo “Calciopoli” per infondatezza dell’accusa di associazione di stampo mafioso, compariva in veste di imputato, tra gli altri, l’ex patron del Potenza calcio, Giuseppe Postiglione, la rete e i social network sono stati sommersi da una marea di attestati di solidarietà nei confronti dell’allora presidente. Ce m’è uno in particolare, però, che ben esprime il tenore dei messaggi di stima: quello di Domenico Friolo. Di seguito la versione integrale. «Ho seguito la storia, capii da subito che qualcuno dava lustro a sé stesso, infangando il mal capitato. Un giovane venuto dal basso che ebbe una grande intuizione e si incamminò su quel percorso, di certo non facile, che iniziò a dargli frutto e notorietà almeno in Lucania e dintorni. A qualcuno non piacque, non gradì che questo giovane stesse scavalcando i grandi (si fa per dire) di Potenza. Allora la rete della casta fu calata al primo dubbio sul conto di questo ragazzo. Dubbio verificato, ingigantito ma non corrispondente alla realtà. Questo ragazzo, in una città dove è presente una moltitudine di lecchini, fu messo alla gogna peggiore. Anche persone rette non brillarono in questa faccenda, ognuna di queste, si rinchiuse nel suo orticello di ipocrisia silenziosa. Eppure questo ragazzo diede immagine e conoscenza alla città di Potenza. Ma giudici magistrati di allora, marciarono sul verdetto emesso, ed è chiaro che in casi del genere la carriera ne trae vantaggio, tanto è vero ed è verificabile, mentre questo ragazzo ne passò di tutti i colori e venne additato a mafioso. Adesso la verità viene sancita, ma sono trascorsi dieci anni. Un tempo troppo lungo per smaltire ingiustizie subite. Sarebbe il caso di esaminare la condotta primaria dei giudicanti di questo ragazzo, in quanto, questi accanimenti giudiziari, infine, hanno dimostrato la miseria giuridica che non appurò la verità. Taluni Dottori in giurisprudenza per come si sono comportati in questo caso, meriterebbero “Na zapparedda e gi a cavà lampascion o a raccuoglie marrucchedd”»
POTENZA CALCIO, LA VIA CRUCIS DELL’INCHIESTA CON LE VARIE ASSOLUZIONI AD OGNI STAZIONE
Se già i clamorosi casi giudiziari italiani trasformano l’opinione pubblica in una sorta di fazioni contrapposte, innocentisti e colpevolisti, è facilmente prevedibile che quando l’inchiesta abbia per oggetto una catena di eventi riguardanti una società sportiva, come quella del Potenza calcio, il fattore tifoseria che investe i non addetti, aumenti esponenzialmente. Una sentenza, però, è una sentenza e la notizia ad essa collegata, derivante direttamente dalle parole pronunciate dal giudice in aula nel Tribunale di Potenza, non può essere riportata sotto dettatura di personali sentimenti che, per la loro natura contrastante, distorcono finanche un elemento quanto mai oggettivo: la sentenza stessa. Il Tribunale di Potenza ha stabilito che per l’accusa, rivolta all’allora patron del Potenza calcio, Giuseppe Postiglione, e ad altri imputati, di associazione per delinquere di stampo mafioso, finalizzata tra l’altro, per il teorema accusatorio, alle frodi sportive, l’azione penale «non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita». Di conseguenza: nessuna mafia all’ombra dello stadio Viviani. Del resto a giudicare non mafioso il pentito chiave dell’inchiesta dell’allora pm a Potenza, Francesco Basentini, Antonio Cossidente, sono stati in più circostanze anche i giudici che sono al vertice della giurisdizione italiana, gli “ermellini” della Cassazione. Cassazione a parte, però, sarebbe bastato seguire qualche udienza del processo Calciopoli per nutrire seri dubbi, ancora prima della sentenza di proscioglimento, sulla fondatezza dell’impianto accusatorio. Tra intercettazioni carenti proprio nei momenti clou, presunti linguaggi criptici senza riscontri concreti in combinazione col reale svolgimento dei fatti, il tenore del dibattimento è sceso finanche, con puntuali interruzioni da parte del giudice che ricordava alle parti che lo scopo fosse valutare la sussistenza di fattispecie penali e non quello di dare voti a un allenatore a un presidente, a livello del “processo di Biscardi”. Se già dimostrare indirettamente un tipo di illecito dall’aver fatto giocare o meno, in una determinata partita, un calciatore di spicco, appare improbabile, risulta impossibile addirittura attestare, sempre indirettamente, che quella circostanza connoti elementi di mafiosità. Ad ogni modo, la sentenza su Calciopoli, per quanto di agevole comprensione, ha comunque generato, in buona fede o meno, anche degli equivoci interpretativi. Evenienza a seguito della quale, l’allora patron del Potenza calcio, Giuseppe Postiglione, che nel 2009 fu arrestato e trasferito in carcere per le accuse a lui mosse dalla Procura di Potenza, ha esposto doverose precisazioni viste alcune strumentalizzazioni. Prima, però, per aggiungere un dato significativo sull’intera vicenda “Calciopoli”, è bene ricordare come già prima che la giustizia penale facesse il suo corso, quella sportiva si pronunciò, per quanto di sua competenza, con un verdetto ambiguo. L’evento è la partita, per l’accusa «comprata», Potenza- Salernitana finita 0 a 1 per i campani. Potenza, dalla Giustizia sportiva, radiato ed escluso dal campionato di serie C, Salernitana no. Come a dire, una partita venduta, ma senza compratore. Riprendendo il filo delle precisazioni di Giuseppe Postiglione, in ausilio alla memoria, è stato ricordato come la vicenda del Potenza calcio, lo ha visto, nell’ambito dei diversi procedimenti che si sono incardinati intorno ai presunti illeciti, più volte «assolto» e non prescritto. Assolto per le accuse circa la gestione dei tesserati, così come è stato assolto per l’ipotesi di riciclaggio. Assolto, già nel 2016, anche, con sentenza ormai definitiva di non luogo a procedere, per l’ipotesi combine relativa proprio alla partita Potenza- Salernitana. Se alle dichiarazioni dell’allora asso dei granata, il bomber Arturo Di Napoli, qualcuno poteva, legittimamente anche, non credere, «vi posso giurare che mai partita fu più vera di quella: non ci consentirono di fare riscaldamento, lo stadio era completamente vuoto per la scelta di vietare l’accesso alle tifoserie, ci hanno offeso per 90 minuti», con la sentenza di assoluzione della Giustizia penale, non si può negare che la parola fine è stata scritta. Così come la stessa parola, fine, ha chiuso il sipario sull’accusa, caduta, di associazione di stampo mafioso.