RIFLESSIONI LUCANE SULLA BORGHESIA NAPOLETANA
Lettere lucane
Frequento assiduamente Napoli per motivi privati. È una città che amo molto, e che studio da sempre con passione. Non a caso mi sono laureato con una tesi intitolata “Le due Napoli di Domenico Rea”. Tuttavia mi chiedo per quali motivi, quando decisi di iscrivermi all’università, scelsi Roma e non Napoli. Al di là della differenza delle possibilità professionali e culturali tra queste due città, credo che il motivo della mia scelta abbia a che fare con un sentimento di diffidenza verso la parte “alta” di Napoli, che continuo a interpretare con la psicologia di un figlio di contadini della provincia del Regno. Infatti i contadini lucani, durante il Regno delle due Sicilie, erano sfruttati dalle famiglie nobili, che vivevano parassitariamente a Napoli, e a volte nemmeno conoscevano l’estensione delle loro terre e le umiliazioni di chi le lavorava. A Napoli i conti e i baroni lucani frequentavano la dolce vita napoletana, e sperperavano le ricchezze prodotte dai contadini, che non potevano permettersi niente se non sottomissione, indigenza e ignoranza. Ovviamente a Napoli andarono anche riformatori illuminati, ma furono una minoranza, e non riuscirono a modificare gli assetti del Regno, come testimonia la rivoluzione fallita del 1799. All’indomani dell’Unità d’Italia la nobiltà napoletana – anche di origini lucane – non seppe comprendere i bisogni sociali e culturali della Nuova Italia, e si mimetizzò nei nuovi poteri economici e burocratici, come se il Regno e le caste nobiliari fossero ancora in vita. Ecco perché Napoli non è mai riuscita a diventare punto di riferimento dell’intellighenzia meridionale: perché la borghesia napoletana ha continuato a preferire una mentalità “nobiliare” fondata sulla rendita e il blasone anziché una mentalità dinamica e imprenditoriale fondata sul rischio e sulla generosità civile e culturale.
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