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CONTRO IL MITO CONSERVATORE DEL “POSTO FISSO” PUBBLICO

Lettere lucane

Quando, negli anni ’90, entrai nel mercato del lavoro, immediatamente capii che il settore pubblico era quello più deprimente, perché mi apparve subito per quello che era: un rifugio per chi aveva paura di mettersi in gioco. Osservavo molti miei coetanei, e mi deprimevo a vederli soggiogati dal “posto fisso”. Li osservavo e mi chiedevo perché non sentissero la necessità di esprimere un talento, un’inquietudine professionale, il bisogno di fare più esperienze, magari per stare nella punta più avanzata della società. Invece l’idea di avere una scrivania a vita e uno stipendio sicuro il 27 del mese era il loro unico orizzonte professionale. Confesso senza furbizia di non aver mai ammirato questa mentalità conservatrice, quest’indole difensiva. Credo che l’Italia sia spiritualmente smorta anche per quest’orizzonte ristretto della vitalità, per questo bisogno di chiudersi nella rassicurante triade posto fisso-casa di proprietà-famiglia. Ovviamente so bene che chi si sente al sicuro guarda con indifferenza chi rischia, chi è soggetto alla fortuna e alla sfortuna, chi investe e rilancia continuamente a livello economico e conoscitivo, ma se questo Paese si è potuto sinora permettere un welfare così generoso lo si deve anzitutto a tutti quelli che, senza rete, si sono messi in gioco nel libero mercato. Il problema è che chi sta nel libero mercato viene spremuto in maniera abnorme dallo Stato proprio per garantire un welfare elefantiaco, al punto che chi fattura 200.000 euro all’anno ne restituisce ben 120.000 – una violenza, francamente. Ma non s’illuda chi pensa di poter creare un’economia statalista, perché lo Stato Imprenditore Unico è sempre fallito, poiché costretto a un indebitamento fallimentare. Nonostante questa crisi, quindi, continuo a credere nel libero mercato e nella vitalità che smentisce un orizzonte esistenziale senza rischio e senza sangue.

diconsoli@lecronache.info

 

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