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GLI INFERMIERI SONO PROFESSIONISTI, NON ANGELI

Lettere lucane

Mi è capitato più volte in paese di sentir dire male degli infermieri da persone che raccontavano un’esperienza ospedaliera. Nei primi mesi di pandemia la società italiana si era raccolta con grande calore intorno agli infermieri, finanche con una certa stucchevole retorica; poi, durante la seconda ondata, gli infermieri sono diventati di colpo pedine del sistema del terrore, esageratori di professione. L’Italia è così: avendo un grande problema con l’immaturità e con il principio di realtà, passa con estrema disinvoltura dall’euforia al disinteresse, un po’ come i bambini di fronte a nuovi giocattoli. Gli infermieri non sono “angeli caduti dal cielo”, ma professionisti pagati dal Sistema sanitario nazionale per assistere nel miglior modo possibile chi si ammala – negli ospedali, nelle Rsa, a domicilio, ecc. Capisco bene che quando ci si ammala si ha bisogno di calore, di attenzioni, di risposte certe – e non nego che in parte queste risposte debbano e possano essere date dai medici e dagli infermieri –, ma sinceramente non capisco come si possa chiedere agli infermieri un coinvolgimento emotivo diretto visto che il lavoro che fanno li espone fin troppo – ai limiti dell’insostenibilità – alla presenza della malattia, del dolore, della morte. La malattia è una terra incognita che ci rende smarriti; ma noi, se avremo la fortuna di guarire, dall’ospedale usciremo: gli infermieri invece no, resteranno lì ad ascoltare lamenti, rantoli, minacce, invocazioni, a vedere figli in lacrime, mogli disperate, mariti afflitti, e nessuno “straordinario” potrà mai risarcirli dal danno psicologico a cui vanno incontro vivendo a così stretto contatto con quello che Susan Sontag definiva “il lato notturno della vita”. Rispettarli significa trattarli da professionisti, non da angeli o da parenti – e, soprattutto, accettare che la nostra malattia non può essere la loro.


diconsoli@lecronache.info

 

 

 

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