In Basilicata tutti con la sindrome di NIMBY ?
Con l’acronimo NIMBY (inglese per Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile sul retro”) si indica la protesta da parte di membri di una comunità locale contro la realizzazione di opere pubbliche con impatto rilevante
TANTO RUMORE PER NULLA!
Con l’acronimo NIMBY (inglese per Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile sul retro“) si indica la protesta da parte di membri di una comunità locale contro la realizzazione di opere pubbliche con impatto rilevante (ad esempio grandi vie di comunicazione, cave, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili) in un territorio che viene da loro avvertito come strettamente personale (come il cortile interno di casa, quello posto sul retro o all’interno dell’edificio, che rispetto al giardino davanti alla facciata garantisce più privacy e spesso è totalmente inaccessibile agli estranei), ma che non si opporrebbero alla realizzazione di tali opere se in un altro luogo per loro meno importante.
L’opposizione può essere motivata dal timore di effetti negativi per l’ambiente, di rischi per la salute o sicurezza degli abitanti o di una sua riduzione di status del territorio.
Cos’è la sindrome NIMBY? Un capitolo inedito del conflitto ambientale
La sindrome NIMBY (acronimo di “not in my back yard”, “non nel mio cortile”) è sicuramente uno dei nodi principali del conflitto politico-sociale in relazione alle problematiche ecologiche. Si tratta di semplice reazione conservativa al progresso, oppure di salvaguardia di un modello di sviluppo più sostenibile? Inesorabilmente, la risposta sarà più articolata della domanda.
Sindrome NIMBY: una definizione, più o meno, neutrale
Coniata negli anni ’80 dall’American Nuclear Society, probabilmente con accezione spregiativa e derisoria, la sindrome NIMBY identifical’opposizione dei membri di una data comunità locale, manifestata attraverso movimenti politici o di protesta, ad ospitare opere di interesse generale, di rilevanza pubblica o di profitto economico sul proprio territorio, per il timore, fondato o meno, di effetti negativi sulla propria residenza.
Inutile sottolinearlo, si tratta di una materia estremamente divisiva: se i teorici dello sviluppo progressivo e della cosiddetta shock economysottolineano quanto la pervicacia della cultura NIMBY causino un’allocazione delle risorse fondata sull’emotività piuttosto che sulla razionalità, paralizzando la crescita economica e frenando gli investimenti, l’assunto di base di chi si protesta è invece che le grandi opere conducono alla devastazione ambientale, alla perdita di identità culturale, alla corruzione ed allo sperpero di risorse pubbliche. Motivazioni che spesso inaspriscono, legittimamente, il conflitto tra sviluppismo affarista ed irrazionale e comunità locali, depositarie solitamente di modelli socio-economici maggiormente ispirati alla sostenibilità.
In entrambi i casi, si tratta di rappresentazioni semplicistiche che non raccontano appieno la realtà: innanzitutto, quando si parla di sindrome di NIMBY è necessario considerare anche la propensione all’egoismo sociale di talune comunità, secondo il quale ci si oppone alla realizzazione di un’opera pubblica sul proprio territorio ma non all’opera in sé, da un punto di vista ideale e sistemico, la quale deve essere semplicemente realizzata altrove: un pericolosa tendenza anti-politica, che finisce per intrecciarsi con la disgregazione del concetto di bene comune ampiamente inteso e con la reazione a qualsiasi forma di progresso.
D’altra parte, indubbiamente numerosi sono stati i disastri socio-ecologici connessi a grandi opere o progetti energetici, ed al cosiddetto PIMPY(“please in my back yard”, una sorta di contrappasso inverso): l’esempio più immediato, tra i tanti, è quello del fenomeno del fracking negli Stati Uniti.
Tutto ciò ha altrettanto dimostrato quanto spesso le popolazioni residenti, organizzate nei cosiddetti grass-roots movements, si sono rivelate le più attente alla tutela ambientale e paesaggistica, nonché più efficienti dal punto di vista della protezione sociale, rispetto alle autorità o alle imprese. Invece, soprattutto nel caso delle strutture olimpiche, anche i sospirati vantaggi occupazionali e le ricadute economiche sono state clamorosamente disattese.
Solitamente il conflitto tra NIMBY e Stato-capitale investitore si innesca a prescindere dalla destinazione dell’opera in questione, che spazia dall’installazione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti o di produzione di energia rinnovabile e dall’edilizia sociale (appartamenti, scuole, ospedali), alle strutture sportive, fino ai centri commerciali, alle facility industriali inquinanti, ai centri di stoccaggio delle scorie nucleari, ai gasdotti, alle grandi infrastrutture dei trasporti. In parole povere, queste tipologie di conflitto di rado tengono conto dei fatti, e ancora meno spesso si fonda su un dialogo costruttivo.
Il NIMBY in Italia, tra grandi opere facili e riconversione ecologica impossibile
Il “cortile” d’Italia è contemporaneamente molto affollato e molto litigioso, ed è per questo motivo che può presentarsi come caso di scuola per una riflessione più specifica sull’ideologismo in questione.
Da una parte, il bel paese pullula di movimenti contrari alle grandi opere: si possono citare i celeberrimi “No TAV”, ma anche i comitati No TAP, No Expo, No Triv, No MUOS, tutti annoverati precipitosamente tra i NIMBY. D’altra parte, la percentuale delle grandi opere incompiute o arenate nelle secche della lievitazione dei costi o del malaffare, o dagli esiti nefasti per ambiente e contribuenti è molto lunga: il Mose di Venezia, l’autostrada Bre.Be.Mi., ed anche, appunto, i controversi tunnel per la Torino-Lione e le infrastrutture per il gasdotto Trans Adriatic Pipeline.
Le conseguenze, nemmeno a dirlo, ricadono con una certa evidenza sulla qualità della prassi politica. C’è il “forse”, ovverosia la propensione tipicamente cerchiobottista a procrastinare le scelte in materia per equilibrio del consenso, descritta efficacemente da un altro acronimo: NIMTO, “not in my terms of office” ovvero “non durante il mio mandato” (dopodiché fate quello che vi pare).
Ma soprattutto il “Si” ad ogni costo di un partito trasversale, legato alle lobby del cemento e alle logiche di un capitalismo all’italiana in crisi, tra sussidi pubblici e corporativismo.
Dall’altra un partito dei “No” a prescindere, che non ha rappresentanza politica, se non quella ondivaga del MoVimento 5 Stelle, ma una certa pervicacia sociale.
No, non si intende puntare il dito contro i movimenti sopracitati, che hanno tutte le ragioni per essere, anche pregiudizialmente, critici e sospettosi verso i grandi investimenti, costringendo battaglie sacrosante contro trivelle e trafori nel calderone della sindrome NIMBY.
Quanto piuttosto alle difficoltà incontrate dalla diffusione di uno sviluppo dell’economia circolare ed ecologicamente sostenibile.
Si tratta di un vero e proprio “NIMBY istituzionale ad hoc”, opportunistico o burocratico, che si concretizza nelle strumentalizzazioni (assai popolari) contro gli impianti di riciclaggio o di smaltimento dei rifiuti o contro gli impianti del fotovoltaico o dell’eolico, ma anche nei ritardi della legislazione nel favorire la riconversione energetica e ambientali (dai sussidi green alle semplificazioni burocratiche), mai una priorità, nemmeno del governo “giallo-rosso”.
Il motto potrebbe essere “che si costruisca senza limiti, o che non si costruisca affatto”: ci sarà una ragione se, contemporaneamente, il consumo di suolo del nostro paese è il più alto in Europa, e la rete dei trasporti pubblici è una delle più inefficienti.
Il conflitto ambientale non si riassume in un “no” o in un “si”
La sindrome NIMBY, con la sua carica anti-politica e anti-progressista, non è una condanna o una malattia incurabile. La soluzione, fuori dalla logica dei “si” e dei “no”, è la trattativa bilaterale, il consenso informato e il coinvolgimento delle comunità interessate dall’opera nel processo decisionale, per valutarne conseguenze, vantaggi e finalità.
Tuttavia, il NIMBY non può diventare stigma: il conflitto ambientale non può essere detronizzato, criminalizzato o ridicolizzatoattraverso sue rappresentazioni farsesche o mediante contrapposizioni manichee, che non rendono giustizia alla complessità di una delle battaglie politiche fondamentali dei prossimi decenni.
I movimenti e l’attivismo politico locale contro le grandi opere anti-ecologiche possono contribuire in modo inestimabile alla riconversione ambientale e al superamento del capitalismo predatorio, smascherando il greenwashing e combattendo il negazionismo climatico.
Il futuro dell’umanità non passa attraverso i gasdotti o i tunnel, malintesa scorciatoia verso il progresso, ma sicuramente attraverso la presenza nel cortile di chiunque di pannelli fotovoltaici e veicoli elettrici, assicurazione verso il futuro.
Luigi Iannone
Classe ’93, salernitano, cittadino del mondo. Laureato in “Scienze Politiche e Relazioni Internazionali” e “Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica”. Ateo, idealista e comunista convinto, da quando riesca a ricordare. Appassionato di politica e attualità, culture straniere, gastronomia, cinema, videogames, serie TV e musica. Curioso fino al midollo e quindi, naturalmente, tuttologo prestato alla scrittura.
LE RIFLESSIONI A CALDO
Ing. Angelo Ricciuti: Sindrome di Nimby
È l’impressione che si potrebbe avere a girare sui social. No al deposito nazionale di rifiuti nucleare in Basilicata
Tutti i partiti contro.
I politici fanno a gara per essere i primi a dire che non ci stanno.
Nessuno sapeva niente.
Addirittura si parla di mappe rese note nella notte.
Come se facesse differenza saperlo di notte o di giorno.
I giornali locali che postano sui social, in attesa di vendere più copie cartacee domani.
L’insurrezione dei sindaci a postare in difesa dei loro comuni. Ci mancherebbe altro che qualcuno di loro fosse d’accordo ad ospitare il deposito nel suo comune!
I richiami alle giornate di Scanzano.
Gara a far partire le petizioni sui social network.
Il festival del populismo.
Nessuno che abbia portato dei dati a supporto della contrarietà alla costruzione del deposito nazionale di rifiuti nucleari in Basilicata.
Eppure il NO in Basilicata è facilmente giustificabile.
C’è una pubblicazione ISPRA che riporta l’inventario nazionale dei rifiuti radioattivi al 31 dicembre 2016, pubblicata ad aprile 2018.
Ci aiuta a supportare il nostro NO.
Ecco il link:
https://www.isprambiente.gov.it/files2018/isin/InventariorifiutiISPRAaldicembre2016.pdf
È evidente che abbiamo già dato.
Già, perché si protesta ma si dimentica che vicino alle spiagge, al mare della costa ionica dove in tanti andiamo a fare il bagno durante l’estate, da oltre 40 anni c’è già un deposito “temporaneo” di rifiuti radioattivi in quel di Rotondella.
E non sono pochi! La nostra piccola regione “ospitava” già 3.096 metri cubi di rifiuti radioattivi al 31 dicembre 2016.
A fine 2018 sono diventati addirittura 3.214 metri cubi.
Abbiamo già dato, se è vero che, come si legge nella tabella 8.6, da quasi 50 anni “ospitiamo” oltre il 10% del totale dei rifiuti nucleari italiani.
Soprattutto se poi, leggendo la tabella 8.7, si nota come oggi i rifiuti radioattivi sono prodotti lontano dalla Basilicata, maggiormente in Lombardia e Veneto.
Cornuti e mazziati?
Grazie, anche NO!
Per chi ama informarsi. Deposito dei rifiuti radioattivi. Verità, speculazioni e bugie
Erano ben 6 anni, con 4 governi che si sono succeduti, che dovevano pubblicare la CNAPI, la carta dei siti “potenzialmente” idonei a localizzare il deposito dei rifiuti radioattivi italiani.
La Sogin, infatti, ha presentato questa carta nel 2014.
Da allora, tutti i governi l’hanno tenuta nel cassetto. Finalmente un governo che ha trovato il coraggio di pubblicare la carta.
Finora aveva prevalso la codardia e ,soprattutto, la sottovalutazione degli italiani.
I politici temono il libero confronto sul deposito, hanno paura che gli italiani non siano in grado di giudicare, di capire di cosa si parla e di scegliere.
Nella disinformazione, come sempre, si è distinto Salvini. Particolarmente sgradevole trattandosi di un ex vice-Premier. Salvini accusa il governo di aver pubblicato la mappa ” senza consultare Regioni e Comuni”.
Bugia farlocca.
La carta (che non individua siti specifici ma si limita a indicare aree e vasti territori -circa 67- che non presentano controindicazioni ad una eventuale localizzazione) serve, appunto, ad aprire la consultazione e il dibattito pubblico. Solo dopo un lunghissimo ( per me troppo lungo) iter di consultazione verrà scelto un luogo specifico.
La legge istitutiva del deposito auspica una competizione aperta tra territori: i vantaggi e gli incentivi ad avere il Deposito sono molti e consistenti. In Europa, e dappertutto nel mondo, la scelta del Deposito è frutto di una vera gara tra territori per accaparrarselo.
I governi italiani, per 6 anni, hanno dunque evitato di aprire questa competizione.
Una vergogna.
Di che cosa parliamo?
– il Deposito è una grande opera e infrastruttura. Già finanziata. La paghiamo con una quota degli oneri speciali sulle nostre bollette elettriche.
Con i fondi del Rf possiamo alleggerire tale onere.
– Genererà un’occupazione di circa 20000 persone ( 5000 all’anno per 4 anni nella fase costruttiva) e di 700 a regime per la gestione. Inoltre, nell’area del deposito, sarà localizzato un parco tecnologico.
Con ricadute economiche e di lavoro aggiuntive
– è un’opera obbligata. Siamo già in procedura di infrazione comunitaria per un ritardo ormai clamoroso dell’Italia: ogni paese europeo, per Direttiva della UE, deve essere dotato di un deposito dei rifiuti nucleari.
Ve ne sono 30 in Europa.
Nessun incidente, criticità o problema si è mai registrato in essi. Noi siamo gli unici a non avere un deposito nazionale.
L’Europa non lo tollera più.
– è un’infrastruttura urgente e indispensabile. Per la sicurezza, innanzitutto. Attualmente i rifiuti radioattivi italiani ( decine di migliaia di metri cubi) sono dispersi in oltre 100 siti in Italia, stipati in modo precario, poco controllato e insicuro. La discarica è quella che abbiamo oggi: con i rifiuti radioattivi buttati dappertutto.
Col deposito avremmo un luogo di stoccaggio sicuro e controllato.
– il deposito consentirà la sistemazione di circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 17 mila metri cubi di rifiuti a media e alta attività. Dove dovremmo, secondo Salvini, mettere questi rifiuti?
– Tutti gli ambientalisti seri sostengono la necessità del Deposito nucleare. Dei circa 95 mila metri cubi di rifiuti radioattivi italiani che saranno conferiti al Deposito, solo il 60% deriverà dallo smantellamento degli impianti nucleari, mentre il restante 40% verrà dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Non è vero, dunque, che il Deposito serve solo per i rifiuti prodotti dalle ex centrali nucleari. Quasi il 50% dei rifiuti radioattivi è prodotto, normalmente, da altre attività. In primis ospedali e attività sanitarie, di diagnostica e cura.
– nel deposito, finalmente, il rifiuto radioattivo ( dopo essere stato caratterizzato, isolato e trattato) verrà immobilizzato e stoccato: quelli a basa attività, dentro ben 5 barriere di difesa impermeabili per almeno 300 anni; quelli ad alta attività ( una quantità assai minore) saranno stoccati in sicurezza e verranno, alla fine, localizzati in profondità geologiche impermeabili. Si lavora ad un accordo europeo sul deposito finale di profondità.
Ecco le verità sul deposito dei rifiuti radioattivi.
Un paese serio, affamato di opere e di lavoro, si darebbe da fare per dotarsi di una infrastruttura essenziale, civile e utile.
Un paese poco serio, invece, si abbandona ai deliri demagogici dell’on. Salvini e dei soliti antinucleari del tempo perso disinformati.
Umberto Minopoli