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STEFANO BINDA ASSOLTO ANCHE IN CASSAZIONE: LE PAROLE DELLA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO

Riguardo alla lettera poesia “IN MORTE DI UN’AMICA”, l’autore anonimo non solo non ha fornito informazioni che non fossero note a tutti, ma ha mostrato di non conoscere né la dinamica omicidiaria né il movente. Chi scrisse la lettera infatti, relativamente al movente, riportò l’ipotesi della prima ora diffusa dai familiari di Lidia e dai giornali, un’ipotesi errata. L’omicidio di Lidia non è stato un omicidio sessuale

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE 

STEFANO BINDA ASSOLTO ANCHE IN CASSAZIONE: LE PAROLE DELLA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO

Criminologa URSULA FRANCO
I familiari di Lidia Macchi: “Comprendiamo, nei processi non sono emerse prove sufficienti. Il dispiacere per i reperti fondamentali andati irrimediabilmente distrutti”
VARESE PROCESSO A STEFANO BINDA ACCUSATO DELL’OMICIDIO DI LIDIA MACCHI PRESSO TRIBUNALE DI VARESE NELLA FOTO AVVOCATO PIZZI CON MAMMA LIDIA MACCHI

Ieri, confermando l’assoluzione di Stefano Binda, la Suprema Corte ha messo la parola fine ad una vicenda giudiziaria che ha dell’incredibile, che soddisfazione si prova?

La soddisfazione che si prova quando accade una cosa “giusta”, una soddisfazione che non è quantitativamente equiparabile allo sconforto che assale quando viene condannato un innocente.
Stefano Binda abbraccia la mamma, dopo l’assoluzione definitiva

Nel dicembre 2019, Stefano Binda, in un’intervista a Paolo Grosso della testata “La Prealpina” ha detto: «Io sono stato condannato all’ergastolo da giudici e non è che sia stato liberato da un commando di alieni. Questo vuol dire che il sistema funziona? In primo grado c’è stato un “incidente” oppure in secondo grado ho avuto una “botta di fortuna”? Non è vero che tutto è bene quel che finisce bene. Qualcosa non ha funzionato, ma non credo che per correggere questa situazione siano necessarie altre regole, altre garanzie scritte. Servono moralità e onestà intellettuale in tutti quelli che fanno parte del sistema della giustizia».

È vero nel suo caso, purtroppo a volte l’errore di una procura viene consacrato dai giudici di tutti e tre i gradi di giudizio e per un innocente non c’è scampo. È successo a Michele Buoninconti. Elena Ceste non è stata uccisa eppure suo marito sta scontando una condanna a 30 anni. Voglio aggiungere che, in Appello, non solo Binda ha potuto contare su giudici competenti e onesti intellettualmente ma anche sul dettagliato atto d’Appello redatto dai suoi avvocati, Patrizia Esposito e Sergio Martelli.
È vitale che gli avvocati di un innocente credano nella sua innocenza.
È infatti difficile che un avvocato convinca un giudice dell’innocenza del suo assistito se non è lui il primo ad esserne convinto.
STEFANO BINDA

– Dottoressa Franco, lei ha sempre sostenuto come la teste dell’accusa Patrizia Bianchi, spacciata da tutti come “superteste”, non abbia apportato alcun contributo alle indagini e di come la stessa, durante le sue deposizioni, avesse invece dissimulato, si fosse auto censurata ed avesse fatto ricorso ad escamotage linguistici per apparire convincente.

Il problema non sono i testimoni che falsificano o dissimulano perché intimamente convinti di essere paladini di una nobile causa, il problema sono coloro che gli danno corda. Nel caso Macchi esiste un Faldone nel quale sono raccolte le testimonianze di diversi soggetti che si erano convinti di poter essere d’aiuto alla soluzione del caso, è in quel Faldone che andavano archiviate le “informazioni” fornite dalla signora Patrizia Bianchi alla vice ispettrice Nanni.

– Dottoressa Franco, che ruolo hanno avuto i Media in questo caso?

Quasi tutti i Media, invece di dar voce ad accusa e difesa, hanno spesso ridicolizzato le ragioni della difesa e sostenuto la procura.

– Dottoressa Franco, si arriverà mai alla soluzione del caso?

Non credo. In questo caso le mancanze investigative non lasciano scampo.

– Che errori hanno commesso gli inquirenti nel caso dell’omicidio di Lidia Macchi?

Una volta riaperto il caso Macchi, l’errore più grossolano fatto dagli inquirenti è stato quello di aver preso per buona la ricostruzione della dinamica omicidiaria elaborata da chi per primo si occupò del delitto. L’errata ricostruzione dei fatti ha viziato il caso perché ha condotto gli inquirenti ad attribuire all’assassino la lettera-poesia “IN MORTE DI UN’AMICA” recapitata ai familiari di Lidia il giorno del suo funerale e perché ha lasciato spazio all’ipotesi che l’aggressore si trovasse alla guida dell’auto di Lidia e che, quindi, fosse un suo conoscente. Riguardo alla lettera poesia “IN MORTE DI UN’AMICA”, l’autore anonimo non solo non ha fornito informazioni che non fossero note a tutti, ma ha mostrato di non conoscere né la dinamica omicidiaria né il movente. Chi scrisse la lettera infatti, relativamente al movente, riportò l’ipotesi della prima ora diffusa dai familiari di Lidia e dai giornali, un’ipotesi errata. L’omicidio di Lidia non è stato un omicidio sessuale.

– Dottoressa, cosa è successo quel 5 gennaio 1987 nel bosco di Sass Pinin?

L’ipotesi più plausibile, che non solo si confà a tutte le risultanze investigative ma che ricalca anche la casistica in tema di omicidi di questo tipo, è che Lidia e il suo assassino non si conoscessero e che fossero rimasti insieme pochissimi minuti, il tempo impiegato per raggiungere il bosco di Sass Pinin e quello della commissione del delitto.
Chi uccise Lidia Macchi non si intrattenne con lei né per consumare un rapporto sessuale consenziente né per violentarla sotto minaccia né post mortem.
Lidia incontrò il suo assassino per caso e nulla lascia pensare che lo conoscesse, lo raccolse in un posto particolare, un ospedale; questo soggetto può essersi spacciato per un medico, per un infermiere, per un parente addolorato, per disabile ed aver convinto la povera Lidia ad accompagnarlo da qualche parte, forse alla stazione di Cittiglio, che si trova poco distante dal bosco di Sass Pinin, luogo del ritrovamento del cadavere.
Chi uccise Lidia si era organizzato per uccidere, aveva condotto il coltello con sé lasciando al caso la scelta della vittima e, con tutta probabilità, raggiunse l’Ospedale di Cittiglio in treno o a piedi.
È alquanto improbabile, infatti, che l’assassino di Lidia, che era deciso ad uccidere qualcuno, avesse lasciato nel parcheggio dell’Ospedale la propria auto e, dopo aver commesso l’omicidio, fosse tornato a riprenderla, questo perché, poiché conosceva bene i luoghi, sapeva che, data la poca affluenza nel parcheggio dopo le 20.30, avrebbe rischiato di essere notato.
Lidia fu uccisa intorno alle 20.15 del 5 gennaio 1987 e fu ritrovata da tre amici intorno alle 9.00 del 7 gennaio, dopo circa 36 ore; al momento del ritrovamento il cadavere era coperto da un cartone, cartoni simili vennero individuati dagli inquirenti in una discarica a poca distanza dall’auto, il lungo tempo intercorso tra l’omicidio e il ritrovamento del cadavere ed il tipo di omicidio, un omicidio premeditato e a sangue freddo, dove non c’è spazio per il rimorso, ci permettono di inferire che, con tutta probabilità, a coprire il corpo esanime di Lidia fu un soggetto estraneo all’omicidio che, forse perché pregiudicato, non si rivolse alle forze dell’ordine, posto che la zona era frequentata da coppiette, prostitute, transessuali, tossicodipendenti e spacciatori.

– Sappiamo che gli abiti che Lidia indossava quel giorno sono stati distrutti, che cosa si sarebbe potuto trovare su quei vestiti?

Il sangue del suo assassino e quindi il suo DNA. Un omicida che colpisce la vittima con numerose coltellate, come in questo caso, di frequente, si ferisce, in quanto dopo i primi colpi il coltello si sporca di sangue e gli scivola dalle mani, in specie quando lo stesso, dopo aver colpito il tessuto osseo, si arresta. Voglio sottolineare come in casi di omicidi vecchi di decenni, come questo, solo una eventuale prova scientifica capace di collocare senza ombra di dubbio un indagato sulla scena del crimine permette di attribuirgli la responsabilità del reato.
È però necessario che, a monte, si possa contare su una ricostruzione dell’omicidio impeccabile, è da lì che bisogna partire.

– E invece, dello sperma raccolto durante le prime indagini e poi scomparso, che può dirci?

Ho già risposto, si può ragionevolmente escludere che Lidia abbia avuto un rapporto sessuale con l’omicida. Quello sperma non avrebbe permesso di identificare l’assassino.

– Riguardo ad un eventuale coinvolgimento di Giuseppe Piccolomo, che ha commesso due omicidi in tempi diversi e che ha confessato alle figlie l’omicidio di Lidia Macchi, cosa può dirci?

Poiché non è mai stato isolato il DNA dell’assassino di Lidia, non sarà mai possibile escludere un suo eventuale coinvolgimento.

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