PETROLGATE, AL PROFESSOR CIMADOMO L’ATTACCO FINALE AL TEOREMA ACCUSATORIO
Dall’imputazione in bianco, al «fantasma processuale» del presidente di Tecnoparco: l’infuocata arringa in punta di diritto
Eni, presunto traffico illecito di rifiuti: il processo Petrolgate è ormai sostanzialmente concluso. Con l’ultima udienza svoltasi al Tribunale di Potenza riunito in collegio presieduto da Baglioni, è terminato il lungo ciclo delle discussioni delle difese. L’arringa finale che ha rappresentato un culminante assalto all’impianto accusatorio, è toccata al professor Donatello Cimadomo che ha inteso affondare le proprie lance sulle contestazioni formulate dai due Pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, volutamente con un’intrecciata di diritto più che di argomentazioni scientifiche su Mdea e simili.
L’arringa del professor Cimadomo ha riguardato le posizioni di 3 imputati: Nicola Savino in qualità di presidente del Consiglio di amministrazione di Tecnoparco Valbasento SpA, Domenico Scarcelli, in qualità di direttore tecnico-responsabile di laboratorio della Tecnoparco, e Domenico Antonio Santoro, quale dirigente dell’Unità di Direzione ambiente e territoriosettore ambiente della Provincia di Potenza. L’accusa principale relativa al traffico illecito di rifiuti prodotti dall’Eni in concomitanza con le attività estrattive petrolifere al Cova di Viggiano, è stata da Cimadomo come equiparata a una imputazione in bianco. Semplice nella sua struttura sintattica, ma fortemente insidiosa poichè formalmente aperta. Così come ellittica, è stato sostenuto in aula, la contestazione al dirigente regionale Santoro.
Per la sua posizione, Cimadomo ha riproposto, quasi parafrasando, l’equazione logica, ma non giuridica già emersa nell’ambito del processo sull’inceneritore di Melfi, ex Fenice, conclusosi con assoluzione per Santoro. Il qui pro quo che è stato evidenziato, consiste nella considerata errata valutazione che la Provincia di Potenza, nello specifico Santoro, avesse competenze sia di controllo che sanzionatorie relativamente al Centro oli Cova. Come per l’inceneritore di Melfi, anche in Petrolgate a Santoro contestata l’inerzia nell’adottare determinati provvedimenti che avrebbero potuto portare anche alla sospensione dell’attività. Nel caso di Eni, il riferimento è al pozzo di reiniezione Costa Molina 2.
Come riportato nei documenti esibiti da Cimadomo, così però non è, in quanto i poteri citati erano in capo ad Arpab e Regione. Con la lettura di una tabella grafica che riassume il tipo di comunicazioni e gli Enti destinatari, il “capitolo” Santoro è stato così chiuso con la richiesta di assoluzione. Anche sul fronte Tecnoparco, uguale la conclusione, differente il percorso. Savino è stato definito un «fantasma processuale» evocato, ha rimarcato Cimadomo, nella memoria conclusiva sulla scorta della regola del non poteva non sapere. Un «Moloch», tirato in causa per per ragioni di posizione. Contestato, quindi, il fatto che il non poteva non sapere invece che essere la chiosa conclusiva di un ragionamento procedente per elementi probatori, sia stato, al contrario, l’incipit.
Come se, ha aggiunto Cimadomo, la regola dell’articolo 110 e quindi del concorso di persone fosse «affidata alla cabala». In estrema sintesi, se c’è stato realmente un accordo tra gli imputati per smaltire rifiuti con codici non idonei, così da ricavarne un ingiusto profitto, lo stesso, come spiegato nell’aringa difensiva, va collocato al 2011 e quindi alla stipula dei contratti tra Eni e i gestori degli impianti dove poi confluivano i rifiuti.
Di questo accordo, però, come sostenuto in aula, non ci sono le prove. Petrolgate tornerà in aula il prossimo 3 febbraio: previste le eventuali repliche del Pm, come già annunciate, e delle parti civili. Se l’accusa le farà, allora verrà stilato un calendario per consentire anche alle difesi di controbattere. Soltanto dopo verrà fissata la data della sentenza. Lo scorso luglio, al termine della propria requisitoria, il Pm ha chiesto oltre 114 anni di reclusione divisi tra 35 dei 37 imputati, nonchè sanzioni per quasi 2milioni e mezzo di euro a 10 società, e la confisca di una cifra da stabilire, tra i 50 e i 150 milioni di euro