DONNE, LAVORO E PANDEMIA: OCCASIONE PER RIFLETTERE
L’intervento di Liliana Guarino, Consigliera di Parità della Provincia di Potenza
La crisi pandemica non è legata solamente al Covid 19 ma sua conseguenza è anche una grande crisi economica e lavorativa. Tuttavia, se pur fazioso possa apparire, occorre sottolineare quanto questa crisi abbia colpito soprattutto le donne. L’Istat ci racconta che nei primi nove mesi del 2020 sono stati persi ben 470.000 posti di lavoro e nel solo mese di dicembre ben 101.000, ma l’aspetto davvero preoccupante è che di questi 101.000 ben 99.000 sono donne, molte delle quali hanno poi scelto di varcare la soglia dell’ inattività, meglio identificato come spazio in cui si rinuncia definitivamente alla ricerca di un posto di lavoro.
Non risulta complicato entrare nel merito; questa crisi ha investito alcuni settori: il turismo, l’alberghiero, la ristorazione, la cura alla persona qui le attività della donne erano prevalenti, sebbene precarie e a tempo determinato. Tra l’altro, proprio a causa della precarietà del lavoro femminile, alcuni sostegni ivi compresa la disoccupazione e la cassa integrazione non sono intervenuti a limitare i danni conseguiti dalla perdita di lavoro.
Attualmente il PIL è a -7,8% e se si dovesse tornare ad una condizione rapida di normalità il contributo del lavoro femminile all’economia territoriale risulterebbe pari al 7%. Ragionando in questa ottica e in attesa che questo accada, come auspichiamo, non è peregrina una riflessione che deve necessariamente trovare accoglimento nel panorama più ampio di un programma di rilancio da cui ripartire e nel quale le politiche femminili debbono rientrare con diritto di cittadinanza assoluta.
Negli ultimi anni ben 10 milioni di donne hanno dato le dimissioni dal lavoro in occasione della maternità rinunciando ad esso per farsi carico degli impegni familiari. L’occasione della riflessione nel mese di marzo dedicato alle donne, in questi giorni difficili, in cui i dati ci segnalano una crescita del contagio, ci consente qualche ragionamento che – anche per dovere istituzionale – occorre fare. Il nostro ottimismo è legato anche alla capacità di resilienza delle donne che sanno re-inserirsi e riconvertirsi rapidamente. A tal proposito basti pensare che nel 1977 solo 1/3 delle donne risultava occupato sino a recuperare gradualmente 16 punti in percentuale, dimezzando quel divario di genere che dal 41% del 1977 è passato al 18,1% nel 2018.
Le donne in particolare in questo periodo si sono trasformate in infermieri, insegnanti, per seguire da casa le lezioni scolastiche supportando le attività dei propri figli e occupandosi in primis dell’assistenza alle persone anziane, dedicandosi altresì allo smart working o forse sarebbe meglio dire all’home working. Veri e propri esercizi di equilibrio in spazi talvolta angusti, condivisi con coniuge e figli e la gestione di moltissime difficoltà. Situazioni assai delicate che hanno fatto registrare l’aumento delle violenze tra le mura domestiche, fenomeno che allarma molto e che richiede rapidi interventi e una convergenza di tutti gli attori preposti alle politiche occupazionali e di benessere sociale.
L’emergenza sanitaria ha generato così tanti cambiamenti a tutti i livelli che sarà necessario ridefinire un nuovo modello di sviluppo, il rischio è che il nuovo che avanza, se non abilmente governato, possa generare altre nuove forme di precarietà. 500 mila i lavoratori impegnati da remoto prima del Covid sono diventati oggi 8 milioni e di questi il 65% è donna, ma solo in pochi hanno potuto lavorare serenamente in una stanza propria. Una esperienza importante se si pensa a quanto è stato duro fare accettare nel passato ai datori di lavoro questa nuova modalità che rendeva più flessibile e conciliante il lavoro delle donne e come strumento di conciliazione era speso nella contrattazione sindacale.
Oggi lo smart working è visto con favore dalle aziende, che si sono accorte improvvisamente dei gran risparmi sulle spese di gestione, dai governi, che notano le benefiche ricadute sul benessere ambientale. Tali risparmi vengano quindi trasferiti ai lavoratori. Lo smart working non deve essere reso stereotipante, perché non è utile solo alle donne, deve garantire possibilità di carriera e crescita professionale, altrimenti può diventare strumento di segregazione o di riequilibrio di genere.
Occorre che una nuova contrattazione entri nel merito di questa modalità organizzativa per favorire il cambiamento, anche normativo, occorre passare da una mentalità basata sulla presenza e sul controllo del lavoratore onnipresente, occorre lavorare sul concetto di produttività diffusa scongiurando quella convinzione per la quale abbiamo sempre inteso che più tempo lavorato, più produzione e più salario siano concetti conseguenti e strettamente correlati. Questo strumento è vecchio perché abbiamo strumenti nuovi che ci permettono di essere altrettanto produttivi e nel rilancio del Paese è essenziale la voce delle donne.
Proprio a tal proposito è con favore che si accolgono alcuni segnali di cambiamento nel Paese, penso al “Piano C”: il lavoro incontra le donne, che è stato proposto da una associazione non profit con l’obiettivo di partecipare alla creazione di una nuova organizzazione del lavoro, più a misura di vita per favorire l’occupazione delle donne ed in particolare delle mamme che spesso sono costrette a rinunciare al lavoro. È un progetto che coinvolge la Regione Lombardia le Amministrazioni Pubbliche, le Imprese, il Terzo Settore e le donne escluse dal mercato del lavoro, ma portatrici di un capitale umano che rischia di disperdersi; un progetto che potrebbe essere rilanciato anche al Sud per la realizzazione di microimprese nell’ambito di servizi di conciliazione dei quali si è avvertita l’assoluta assenza in questo momento. Troppo è stato chiesto alle donne, troppo è stato dato dalle stesse.
*Consigliera di Parità della Provincia di Potenza