LA VERGOGNA DI ESSERE FIGLI DI PASTORI
lettere lucane
Ho un modo assai disordinato di leggere e guardare i film. Solitamente mi metto a leggere i titoli dei libri della libreria o della piccola videoteca che ho e, a caso, in base a un istinto sensitivo, decido cosa leggere o cosa vedere. Ieri ho visto “L’ultimo pastore” di Marco Bonfanti, un documentario del 2012 che racconta meravigliosamente la storia di Renato Zucchelli, un pastore milanese che nel 2011 riuscì a portare in piazza del Duomo ben 700 pecore. Molte cose mi hanno convinto di questo bel documentario; ma ce n’è una che mi ha colpito più delle altre: la presenza, a un certo punto del film, del figlio adolescente di Zucchelli, un bel ragazzo timido e taciturno che si ritrova – lui comunque cittadino – ad accompagnare il padre alla conquista del centro di Milano con il suo branco di pecore. Nel volto di questo ragazzo – combattuto tra la prospettiva montanara del padre e la vita di città – ho intravisto la vergogna; la stessa vergogna che provai io una volta – facevo la prima o la seconda media – quella volta che mio padre mi portò a tagliare la legna sul ciglio della strada comunale, e alcuni compagni del paese, figli di impiegati, mi videro per puro caso lavorare con l’accetta. Oggi mi vergogno di quella mia ridicola vergogna; ma all’epoca mi sentii umiliato, perché gli adolescenti sono conformisti, e tendono a mitizzare chi sta economicamente e socialmente meglio di loro. So bene che allevare pecore e capre non è più conveniente come una volta, e che fare il pastore è una vita di sacrifici e di solitudine; ma se oggi sempre meno persone fanno questo lavoro è anche perché con il tempo è prevalso quest’umanissimo sentimento di vergogna. Purtroppo ci vuole una grande esperienza di vita e una profonda sapienza spirituale per riuscire a sentire l’intensità poetica e morale di quest’antico mestiere fatto di silenzi e di estrema vicinanza alle stelle e agli dei.