GEOLOGIA DELL’AMBIENTE : in ricordo di Gioacchino Lena
Il 12 dicembre 2020, inaspettatamente, è venuto a mancare Gioacchino Lena, già vicepresidente SIGEA e coordinatore dell’Area Tematica di Geoarcheologia, componente del Consiglio Scientifico e membro del comitato di redazione della rivista “Geologia dell’Ambiente”
ANTONELLO FIORE :
Il numero 1/2021 della rivista Geologia dell’Ambiente è un numero speciale dedicato a un amico leale e sincero, che non ci potrà più offrire il suo sorriso genuino.
Questo numero della rivista trimestrale della Sigea è disponibile in versione integrale:
https://www.sigeaweb.it/documenti/gda/gda-1-2021.pdf
Nino Osso Davide Mastroianni Francesco De Pascale Carmine Nigro Fabio Demasi Luigi De Luca SIGEA Calabria Gioacchino Lena Paolo Graceffa
Geologia dell’Ambiente
1/2021
Periodico trimestrale della SIGEA ISSN 1591-5352 Società Italiana di Geologia Ambientale
Poste Italiane S.p.a. – Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 – DCB Roma
Un ricordo di Gioacchino Lena
Il 12 dicembre 2020, inaspettatamente, è venuto a mancare Gioacchino Lena, già vicepresidente SIGEA e coordinatore dell’Area Tematica di Geoarcheologia, componente del Consiglio Scientifico e membro del comitato di redazione della rivista “Geologia dell’Ambiente”.
Era socio dal 1993 e proprio per il grande impegno verso questa Associazione e le sue tematiche, a fine agosto 2020, aveva ricevuto il premio SIGEA per la “Salvaguardia della qualità dell’ambiente naturale e antropizzato e la gestione responsabile del territorio e delle sue risorse”.
Docente, ricercatore, geologo e geoarcheologo, per più di quarant’anni ha svolto attività di ricerca e divulgazione culturale e scientifica catturando l’attenzione e la stima di tutte le generazioni che ha incontrato.
Siciliano di nascita ma calabrese di adozione, ha lavorato in Calabria, Sicilia, Lazio, Toscana, Veneto ma anche in Francia, Marocco, Tunisia.
Autore di numerosi studi e ricerche di geologia, geomorfologia, cartografia, storia e geoarcheologia, a cui ha fornito notevoli contributi alla divulgazione, pubblicati su importanti riviste italiane e internazionali, in convegni ed eventi tra i più disparati.
Iscritto all’Ordine dei Geologi della Calabria fin dal 1976 col n. 49, dove era componente di diverse commissioni, è stato condirettore della rivista “Stratigrafie del Paesaggio”, presidente dell’Istituto per gli Studi Storici di Cosenza, presidente regionale dell’AIIG (Associazione Italiana Insegnanti di Geografia).
Da poco era stata pubblicata la sua ultima opera, Viaggio geoarcheologico attraverso la Calabria, l’ultimo saluto e dono, da studioso poliedrico, alla sua Calabria e ai suoi amici. Ha curato, insieme ad altri soci, tutti gli eventi sulla geoarcheologia organizzati da SIGEA, compreso l’ultimo, “Le vie di comunicazione nell’antichità”.
Anche questo, di prossima pubblicazione, non potrà vederlo.
Chi era Gioacchino?
Semplicemente “un uomo che legge, un uomo che sa”
Per chi, come me, lo conosceva bene, è questa la definizione più appropriata.
Ma un uomo che legge non è solo un uomo che sa. È un uomo che pensa, che ha progetti.
E Gioacchino, sotto questo aspetto, non si è mai fermato, anzi. Uno spirito giovane, una mente in continua attività, coinvol- gente, eclettico, dinamico: una piccola trottola. Mille idee, mille progetti, mille lavori da portare avanti contemporaneamente, con passione e senza limiti.
Ma anche un uomo che sorrideva, disponibile all’ascolto, attento a chiunque chiedeva un approfondimento, capace di rac- contare gli argomenti con un entusiasmo che coinvolgeva e accattivava tutti.
La ricerca scientifica è stato l’incedere della sua vita, ciò che avrebbe sempre voluto fare e che ha sempre fatto.
Attaccato alla famiglia e alle amicizie sincere, ha sempre gioito del conforto di persone che hanno avuto stima e affetto per lui e che Egli ha ricambiato pienamente.
Poche volte abbiamo affrontato l’aldilà. Forse, per chi ha fatto della verità scientifica un modo di vivere, è strano affrontare i dogmi della fede e l’imponderabile. Ma sono sicuro che da lassù ci guiderai ancora con il tuo bel sorriso e il desiderio di continuare nella divulgazione della conoscenza.
Gaetano Osso
Presidente SIGEA Calabria
Società Italiana di Geologia Ambientale
Associazione di protezione ambientale a carattere nazionale riconosciuta dal Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare con D.M. 24/5/2007 e con successivo D.M. 11/10/2017
PRESIDENTE
Antonello Fiore
CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE Lorenzo Cadrobbi, Franco D’Anastasio (Segretario), Daria Duranti (Tesoriere), Ilaria Falconi, Antonello Fiore (Presidente), Sara Frumento, Fabio Garbin, Enrico Gennari, Giuseppe Gisotti (Presidente onorario), Gioacchino Lena (✝), Luciano Masciocco, Michele Orifici (Vicepresidente), Vincent Ottaviani (Vicepresidente),
Paola Pino d’Astore, Livia Soliani
Geologia dell’Ambiente
Periodico trimestrale della SIGEA
N. 1/2021
Anno XXIX • gennaio-marzo 2021
Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 06352 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 229 del 31 maggio 1994
DIRETTORE RESPONSABILE
Giuseppe Gisotti
VICE DIRETTORE RESPONSABILE
Eugenio Di Loreto
COMITATO SCIENTIFICO
Mario Bentivenga, Aldino Bondesan, Giovanni Bruno, Francesco Cancellieri, Maria Di Nezza, Massimiliano Fazzini, Giuseppe Gisotti, Giancarlo Guado, Gioacchino Lena (✝), Endro Martini, Luciano Masciocco, Davide Mastroianni, Mario Parise, Giacomo Prosser, Giuseppe Spilotro, Vito Uricchio, Luca Valensise
COMITATO DI REDAZIONE
Fatima Alagna, Giorgio Boccalaro, Giorgio Cardinali, Valeria De Gennaro, Eugenio Di Loreto,
Sara Frumento, Fabio Garbin, Michele Orifici, Vincent Ottaviani, Laura Pala, Maurizio Scardella
REDAZIONE
Sigea c/o Fidaf – Via Livenza, 6 00198 Roma tel. 06 5943344 info@sigeaweb.it
PROCEDURA PER L’ACCETTAZIONE DEGLI ARTICOLI
I lavori sottomessi alla rivista dell’Associazione, dopo che sia stata verificata la loro pertinenza con i temi di interesse della Rivista, saranno sottoposti ad un giudizio di uno o più referees
UFFICIO GRAFICO Pino Zarbo (Fralerighe Book Farm) www.fralerighe.it
PUBBLICITÀ Sigea
STAMPA
Industria grafica Sagraf Srl, Capurso (BA)
La quota di iscrizione alla SIGEA per il 2021 è di € 30 e da diritto a ricevere la rivista “Geologia dell’Ambiente”.
Per ulteriori informazioni consulta il sito web all’indirizzo www.sigeaweb.it
Sommario
Editoriale
Antonello Fiore 2
Geositi e geomorfositi. E i geoarcheositi?
Gioacchino Lena (✝), Davide Mastroianni 3
Vecchie cave di argilla e loro fornaci di mattoni
presso Fornaci di Barga (LU)
Mara Dell’Aringa, Massinissa Ramacciotti 16
Rissëu, i tipici mosaici in ciottoli della Liguria Orientale: significato storico, sociale e geologico
Marco Del Soldato 20
I paesaggi “invisibili” dipinti. Beni geo-artistici da valorizzare
ai fini geoturistici all’interno del geoparco delle Madonie
(Sicilia, Italy)
Roberto Franco 24
Il geosito “Travertino della Cava Cappuccini” Alcamo (TP) Girolamo Culmone, Manuela Cottone 31
ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE
ANALISI E ATTIVITÀ DI MITIGAZIONE
DEI PROCESSI
Geologia dell’Ambiente
GEO-IDROLOGICI
IN ITALIA
Supplemento al n. 1/2021
ISSN 1591-5352
A CURA DI
Periodico trimestrale della SIGEA Società Italiana di Geologia Ambientale
ROMMAA 249-2N5OMVAGEGMIOB2R0E192019
ATTI DEL CONVEGNO
LE VIE DI COMUNICAZIONE
NELL’ANTICHITÀ
GIOACCHINO LENA, EUGENIO DI LORETO, GIUSEPPE GISOTTI E CARLO ROSA
A questo numero è allegato il supplemento digitale degli atti del convegno
Le vie di comunicazione nell’antichità
a cura di Gioacchino Lena, Eugenio Di Loreto, Giuseppe Gisotti e Carlo Rosa. Roma, 24 e 25 maggio 2019, Sala conferenze Parco Regionale dell’Appia Antica. Scaricabile all’indirizzo web www.sigeaweb.it/supplementi.html
In copertina: Il torrente Mallero trae le sue origini dai ghiacciai del Monte Disgrazia e dal Passo del Muretto a quota 2.600 m s.l.m.. Località Chiareggio, in Valmalenco, in provincia di Sondrio. La Valmalenco è caratterizzata da un’abbondanza di materiali litoidi che vengono esportati in tutto il mondo (talco, serpentine, pietra ollare). Sono inoltre presenti fenomeni geologici legati ad un’intensa attività franosa, alluvioni e va- langhe che sono favorite dall’instabilità dei versanti. (Ph. Eugenio Di Loreto)
Poste Italiane S.p.a. – Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 – DCB Roma
Editoriale
L’anno appena trascorso anche per il nostro sodalizio è stato un anno particolare; un anno diverso che ci ha stravolto i programmi, spinti verso una ristrutturazione nella gestione delle no- stre attività e nell’organizzazione degli eventi, costretti a modificare i rapporti di collaborazione e a contenere i rap-
porti umani diretti.
Il 2020 è iniziato con una grande
emozione e orgoglio per la nostra asso- ciazione: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha insignito il nostro Presidente Onorario, Giuseppe Gisot- ti, dell’onorificenza di “Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”.Questo riconoscimento perso- nale nei confronti di Giuseppe Gisotti, fondatore e animatore d’eccellenza della nostra associazione, deve essere per noi tutti uno stimolo nel continuare a svol- gere il ruolo di promotori della diffusio- ne della cultura geologica nell’interesse del Paese.
Siamo riusciti a organizzare in pre- senza la terza e la quarta giornata del ciclo di eventi dedicati alla “Geologia e Storia” per poi concludere il ciclo con la quinta e la sesta in remoto. Queste giornate, i cui atti sono online, sono sta- te organizzate in collaborazione con il Dipartimento per il Servizio Geologico d’Italia – ISPRA e la Società Geografica Italiana.
Considerato il grande successo rice- vuto dal ciclo d’incontri abbiamo deciso di partecipare all’organizzazione della seconda edizione di queste giornate, che prenderà il via presumibilmente dalla primavera. In questa edizione saranno trattati i temi delle variazioni climatiche in ere geologiche e in periodi storici; le ghost city: le città fantasma tra storia e geologia; la geomitologia: leggende, tra- dizioni popolari e miti; le grandi aree urbane: note di archeologia, storia e geologia; i grandi fenomeni naturali che hanno cambiato la storia; i mari, le coste e le infrastrutture marittime: evoluzione geologica e tradizioni storiche.
Siamo riusciti a organizzare l’ultimo evento in presenza a Napoli dedicato alla bonifica dei siti inquinati, durante il quale è stato ricordato il compianto Franco Ortolani. Questi temi sono stati ripresi con eventi online, organizzati in collaborazione con RemTech e l’Ordi- ne dei Geologi della Sicilia e dedicati a Siti d’interesse nazionale della Sicilia: Gela, Priolo e Biancavilla. Nel corso del 2021 stiamo organizzando sullo stesso argomento eventi in altre regioni e ab- biamo avviato i contatti per una nuova edizione di un numero speciale della nostra rivista dedicato alla bonifica dei siti contaminati.
Abbiamo tenuto alta l’attenzione sul tema della prevenzione sismica organiz- zando un evento dedicato ai 100 anni del terremoto della Garfagnana e un evento dedicato ai 40 anni del tragico e devastante terremoto dell’Irpinia.
Nel mese di ottobre siamo riusciti a presentare in Roma con Roberto Morassut, Sottosegretario di Stato con delega politiche in materia di dissesto idrogeologico e consumo del suolo che ne ha curato la prefazione, il volume dedicato al dissesto geo-idrologico; in quella circostanza ci siamo ripromes- si di organizzare, appena la situazione sanitaria lo permetterà, eventi itineranti nelle diverse regioni italiane.
In definitiva abbiamo cercato di por- tare comunque avanti, con l’impegno di tutti, i temi che caratterizzano il nostro sodalizio senza sottrarci a condividere nuovi temi come la crisi climatica e lo sviluppo sostenibile ai quali abbiamo dedicato nuove aree tematiche.
L’anno si è concluso con una triste notizia che ha ferito il nostro sentimento di comunità, la scomparsa del nostro amico e socio Gioacchino Lena a cui abbiamo deciso di dedicare questo numero.
Troverete in questo numero un ricordo, un suo articolo, il suo libro appena
Antonello Fiore
Presidente Sigea
E-mail: presidente@sigeaweb.it
uscito e il supplemento digitale agli atti dell’ultimo convegno che ha contribuito a organizzare: “Le vie di comunicazione nell’antichità”.
Quest’anno ricorrono i 700 anni della morte di Dante Alighieri e abbiamo pensato di celebrarli a modo nostro, associando a temi di grande interesse culturale quelli di promozione delle scienze della Terra della tutela dell’ambiente. In questo ci è venuto incontro il lavoro dell’amico e socio Roberto Franco che nel 2017 ha pubblico il libro La geologia nella Divina Commedia.
Come per Leonardo da Vinci nel 2019, anche per Dante Alighieri dedicheremo eventi in modo da confrontarci con esperti e cultori del settore e portare loro a riflettere con noi sui grandi temi della geodiversità e dei pericoli geologici.
Nella convinzione che presto tutto tornerà a una “diversa normalità” e dopo un anno trascorso nell’incertezza sani- taria, economica e sociale, come Sigea abbiamo il desiderio di riprogrammare le nostre attività cercando di valorizzare al massimo i soci che compongono i gruppi e le sezioni regionali. Crediamo molto nelle azioni organizzate dai gruppi regionali e nella possibilità di creare sempre più azioni condivise e partecipa- te fondamentali, con le azioni di sensibilizzazione dei media locali e nazionali, alla promozione della cultura geologica.
Da poco si sono costituite quattro nuove sezioni regionali: Abruzzo, Calabria, Marche e Liguria e altri gruppi regionali si stanno organizzando per diventare Sezioni; a loro l’augurio di un buon lavoro e una buona comunicazione da parte del Consiglio direttivo nazionale.
Geositi e geomorfositi.
E i geoarcheositi?
Geosites” or geomorphosites. And the georchaeosites?
Parole chiave: geosito, geomorfosito, geoarcheosito Keywords: geosite geomorfosite, geoarchaeosite
Gioacchino Lena (✝)
Sigea, Coordinatore Nazionale Geoarcheologia
Davide Mastroianni
PhD in Topografia Antica, Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Sigea Calabria E-mail: davidemastroianni@yahoo.it
ha: ovvero, se esso rivesta un interesse internazionale, nazionale, regionale o locale. Prendiamo, ad esempio, il ca- so della Calabria. È un geosito, avente carattere internazionale, la Colina di Vrica, alla periferia meridionale di Cro- tone (Fig. 1). Esso è, nella letteratura
Figura 1. La collina di Vrica, alla periferia meridionale di Crotone, è un geosito di importanza internazionale
geologica internazionale, lo stratotipo del Calabriano, periodo con cui inizia l’ultima era geologica, il Quaternario (o Antropozoico). Un geosito a carattere nazionale è certamente la frana di Ma- ierato, in provincia di Vibo Valentia, che ha avuto una risonanza enorme a causa di un filmato trasmesso la sera stessa da varie televisioni in cui veniva mostrato un crollo, improvviso e veloce, di un enorme corpo di frana lungo circa 2,5 km. Questo evento si è verificato il 15 febbraio 2010, alle ore 14,30 circa, ed è localizzato ad ovest del centro abitato di Maierato, lungo il versante compreso tra le località Mosto, Giardino e Dra- ga. 5 giorni dopo si è avuto un ulteriore arretramento di circa 80 metri con la formazione di una nicchia di distacco più arretrata lunga circa 200 m. I fil- mati disponibili evidenziano che il col- lasso è avvenuto in circa 10 minuti con arretramenti successivi della scarpata (Fig. 2). Gli stessi filmati evidenziano come l’ammasso roccioso abbia avuto un movimento assimilabile a quello di un fluido viscoso con completa disarti- colazione dei blocchi di roccia. Il corpo di frana è costituito essenzialmente da frammenti di calcare evaporitico di pic- cole dimensioni con inclusioni di livelli sabbioso ed argillosi (Figg. 3 e 4).
Il termine geosito, introdotto nel 1990 da William Wimbledon, definisce “una qualsiasi località o territorio in cui è possibile definire un interesse geologico-geomorfologico per la conservazione”. Inizialmente il termine usato è stato quello di “geotopo”, successivamente abbandonato, ma con- servato tutt’ora nei paesi di lingua ger- manica e affini (Germania e Nord Eu- ropa). Con questo termine si intende indicare “una unità spaziale minima, geograficamente omogenea (paesaggio o parti da paesaggio con caratteri rela- tivamente uniformi)”. Essendo spazial- mente limitati, ben distinguibili e con caratteri e processi geologici e morfo- logici definiti, hanno la stessa connota- zione del termine biotopo in biologia. William Wimbledon afferma che lo scopo della definizione di un geosito non è solo quello di conservare le “me- raviglie della natura”, ma “riconoscere e proteggere in sistema di testimonianze organiche e organizzate della Storia del- la Terra e della vita su di essa, così come si è esplicata in varie regioni del globo a caratterizzazione delle sue origini e della sua evoluzione”. Un sito diventa geosito quando rappresenta la “memoria geologica” di una regione. Esso quindi è testimonianza diretta del passato di un territorio ed è un bene non rinnovabi- le in quanto, una volta distrutto, non è più riproducibile; nei suoi confronti va attuata una concreta politica di tutela, gestione e valorizzazione (Zarlenga, 1996; Massoli Novelli, 1998; Brancucci, Burlando, 2001). Successivamente alla definizione del concetto di geosito si è sovrapposto ad esso quello di geomor- fosito, definito nelle sue caratteristiche essenziali da Mario Panizza (Panizza, 2001) e, successivamente, quello di ge- oarcheosito (Lena, 2009). Nel dibatti- to si sono inseriti vari studiosi italiani (oltre agli stranieri) ritenendo che tutti i geositi, da quelli rarissimi e di valore internazionale a quelli comuni, ma im- portanti localmente, sono da considera- re veri e propri beni culturali. Un bene geologico qualsiasi diventa patrimonio comune dell’umanità e, quindi, bene culturale solo nel momento in cui la sua conoscenza viene condivisa e l’oggetto può essere fruito, altrimenti rimane so- lo un reperto, insignificante parte di un catalogo (Piacente, 2003).
SIGEA, fin dalla sua costituzione, ha contribuito molto alla diffusione del concetto di geosito e alla individuazione di molti di essi.
Lo ha fatto organizzando nel 1995 il primo convegno insieme al Servizio Geologico Italiano (gli Atti sono stati pubblicati sulle Memorie) e successivamente i due convegni nazionali di Sasso di Castalda (PZ) del 2011 e del 2018, nonché il convegno nazionale sui geoarcheositi di Aidone (EN) nel 2014 e quello di Portopalo (SR) nel 2016. In SIGEA è stata varata anche l’area Tematica “Patrimonio geologico” alla quale aderiscono numerosi studiosi italiani.
Affinché un luogo possa essere qualificato come “geosito” è necessario tuttavia che esso rispetti una serie di cri- teri risultanti dalla mediazione tra quelli adottati in sede europea da ProGEO e quelli adottati nelle più recenti iniziati- ve regionali italiane di catalogazione. I criteri sono i seguenti:
a) rappresentatività;
b) interesse scientifico;
c) rarità;
d) importanza paesaggistica;
e) valore educativo;
f) accessibilità;
g) stato di conservazione;
h) vulnerabilità.
In base a ciò è stato predisposto un censimento dei geositi italiani che pre- vede:
1. la ricognizione dei dati sul campo
tramite la scheda di censimento;
2. la verifica delle informazioni contenute nella scheda di rilevamento;
3. l’implementazione,la gestione e l’aggiornamento dell’archivio geositi;
4. la valutazione-validazione dei geositi segnalati.
Nell’utilizzazione della scheda di rilevamento dei geositi, un elemento fondamentale è rappresentato dalla definizione del tipo di interesse che esso
Geologia dell’Ambiente • n. 1/2021
Figura 2. La frana di Maierato
Figura 3. La composizione litologica dei materiali franati è data da calcareniti in frammenti minuti, sabbie e argille
Figura 4. Particolare dei materiali franati
Geologia dell’Ambiente • n. 1/2021
“La Calabria è priva di laghi naturali” asserivano i geografi del passato. Eppu- re una serie di laghetti si trovano sulle montagne sopra Fagnano Castello (CS); il più grande, il Lago dei Due Uomini, sfiora i 2 ha. Sono laghi di esigua esten- sione di forma rotondeggiante (il Lago dei Due Uomini è perfettamente circo- lare) e, a volte, durante la stagione estiva, del tutto privi di acqua. La loro formazio- ne non può essere attribuita a carsismo (il substrato è interamente composto da rocce metamorfiche) né ad azione gla- ciale (la quota in cui si trovano è troppo bassa), nonostante il fatto che, sulle sue rive, sia stato scoperto qualche decennio fa un importante anfibio, il tritone al- pino (Triturus alpestris inexpectatus), re- siduo climatico dell’ultima glaciazione. Diverse sono le ipotesi scientificamente plausibili: una formulata da Alessandro Guerricchio (Guerrichio, 1985), secon- do cui questi laghetti riempiono le pie- ghe di un enorme scivolamento gravita- tivo, mentre la forma circolare è dovuta al movimento vorticoso dell’acqua; la seconda è quella formulata da Antonio Pipino (Pipino, 1983) secondo il quale si tratta di conche di erosione fluviale o fluvio-periglaciale attivate su un gradino di faglia formato da terreni metamorfici di origine sedimentaria; la terza presup- pone di assimilarli a dei sinkhole, ipotesi tuttavia da verificare. Questo geosito riveste, per la sua rarità nell’intera Ca- labria, il carattere un geosito di interesse regionale (Fig. 5).
Fra i tanti geositi di interesse pro- vinciale e locale si può citare la vallecola riempita dal corallo Cladocora coespitosa sotto la cosiddetta “Galleria del Ginna- sio” a Praia a Mare (CS). La valle ha una perfetta forma a “V”e sembra indicare la presenza di un reticolo idrografico diret- to a SO contrariamente a quello odierno avente direzione EO. La sua formazione è di età non precisata, ma precedente ad una delle pulsazioni calde del Tirrenia- no. Successivamente, nel corso della fase climatica temperato-calda, la valle è sta- ta sommersa dal mare in avanzamento che ha lasciato una ricca fauna a coralli (Cladocora coespitosa), gasteropodi vari e i litodomi i cui fori si rinvengono sia nei massi del riempimento dell’incisione valliva sia sulle sue pareti esterne (negli ultimi 100.000 anni, si sono succedute più fasi climatiche calde intervallate da altrettanto fasi climatiche fredde. Quella attuale, ad esempio, appartiene ad una fase complessivamente calda). Tutto il complesso è ricoperto da brecce di pendio appartenenti verosimilmente all’ultimo stadio freddo del Wurm.Questo geo-
Figura 5. Il lago dei Due uomini
Wimbledon (Wimbledon, 2010), nel corso del Convegno Internazionale sul Patrimonio Geologico organizzato da Sigea a Bari, ha elaborato una guida per la selezione dei geositi secondo la quale:
1. tutti i siti candidati devono essere
conservabili;
2. siti simili devono essere ridotti al
minimo;
3. sviluppare ed applicare i criteri di se-
lezione in modo che siano seleziona-
ti solo i “migliori” siti;
4. avviare la produzione e la pubblica-
zione dei risultati ottenuti attraverso il rilevamento, la bibliografia, ecc., diffondendoli il più ampiamente pos- sibile per facilitare la conservazione.
GEOMORFOSITI
Il termine “geomorfositi” è stato in- trodotto da Panizza nel 2001 (Panizza, 2001; Brancucci, 2004) e codificato a livello internazionale dal convegno di Parigi del 2009 intitolato appunto “geo- morphosites”. Con tale termine, si inten- de un’area i cui caratteri geomorfologici hanno acquisito un valore scientifico, culturale/storico, estetico o sociale/eco- nomico. Sono geomorfositi le forme ed elementi singoli, come ad esempio una dolina carsica, oppure aree più ampie comprendenti una varietà di aspetti ge- omorfologici. Vanno considerati, i ge- omorfositi, quali elementi importanti nella pianificazione territoriale e nella protezione dell’ambiente di una determi- nata zona, e sono costitutivi del cosiddet- to patrimonio geologico di un territorio. In Italia se ne trovano moltissimi e non è possibile, dati i limiti di spazio, fare una disamina per ognuno di essi per i quali si rimanda alle pubblicazioni specializzate.
Uno degli esempi più significati- vi si trova in Abruzzo, nel comune di Atri (TE). L’area dei Calanchi di Atri è situata tra il settore nord-orientale dell’Appennino abruzzese e l’area co- stiera compresa fra i comuni di Pineto (TE) e Città S. Angelo (PE). I fenome- ni geomorfologici sono pertinenti a fat- tori quali la litologia, le caratteristiche strutturali delle formazioni calanchive, i fenomeni antropici e i mutamenti cli- matici. L’area dei calanchi si è struttu- rata nel Pliocene inferiore attraverso la sovrapposizione stratigrafica, per mezzo di scorrimenti, di tre unità che, a loro volta, si sono scomposte, per effetto di altri scorrimenti, in unità stratigrafico- strutturali minori. L’unità maggiore è costituita dall’area più interna della Laga, quella intermedia nel comune di Cellino Attanasio e quella più esterna,
Figura 6. Cespi del corallo Cladocora coespitosa sui detriti che riempiono la valletta
sito, importante per altri motivi, che qui non è il caso di discutere, può rivestire un carattere essenzialmente locale (Fig. 6).
In definitiva i problemi sollevati dai geositi si riducono a:
a) definizione del termine che deve es-
sere chiara, univoca, uguale in tutte le
regioni del globo e in tutte le lingue;
b) geodiversità;
c) loro censimento ed attribuzione ad
un interesse locale, provinciale, re- gionale, nazionale, internazionale riconoscibile chiaramente e ricono- sciuto da tutto e non una attribuzio- ne personale del rilevatore perciò, a sua volta, del tutto soggettiva;
d) protezione del geosito individuato e sua conservazione attraverso stru- menti legislativi possibilmente na- zionali, cioè “geoconservazione”;
e) interiorizzazione del termine geo- sito presso le popolazioni locali che devono conoscerne l’importanza e
la necessità di conservazione, amar- lo (anche in virtù del riscontro eco- nomico che un turismo colto e non becero può portare) e proteggere da tutti gli assalti possibili non esclusi i danni da turismo;
f ) una seria considerazione degli aspet- ti gestionali, essendo la conservazio- ne dei siti geologici essenziale per le generazioni future;
g) tutti i siti candidati devono essere conservabili;
h) siti simili devono essere ridotti al minimo;
i) sviluppare ed applicare i criteri di se- lezione in modo che siano seleziona- ti solo i “migliori” siti;
j) avviare la produzione e la pubblica- zione dei risultati ottenuti attraverso il rilevamento, la bibliografia, ecc., diffondendoli il più ampiamente possibile per facilitare la conserva- zione.
Geologia dell’Ambiente • n. 1/202
Figura 7. I calanchi di Atri (TE)
verso la costa, nel comune di Mutigna- no (Fig. 7). La struttura dei calanchi è l’effetto di una serie di eventi deforma- tivi che, dopo un sollevamento e una rototraslazione in direzione est, hanno condizionato la formazione di un edi- ficio a thrust (Calamita, Deiana, 1986). La superficie ha un andamento mono- clinalico, con stratificazione a reggipog- gio verso nord e franapoggio verso sud. Andando per ordine, lo sviluppo di una tettonica compressiva nel pliocene in- feriore e, in seguito, distensiva nel plio- cene medio-superiore hanno causato la scomposizione e il sollevamento della struttura formata in precedenza (Cala- mita et alii, 1990). Le numerose faglie trasversali e oblique, che caratterizzano l’area dei Calanchi di Atri, hanno dif- ferenziato il sistema in blocchi a sub- sidenza differenziata con movimento prevalentemente verticale. Questo ha determinato l’evoluzione geologica e geomorfologica nel Pliocene superiore- Pleistocene (Dramis, 1992). L’attività tettonica attuale sembrerebbe caratte- rizzata da movimenti attivi di carattere compressivo di origine profonda (Cala- mita, Irvenizzi 1991). Le diverse faglie trasversali e obblique hanno suddiviso il bacino periadriatico in numerosi settori a subsidenza differenziata, portando la porzione centrale dell’area calanchiva, ovvero il settore di Atri, in una posizio- ne più elevata.
La formazione della Laga: è costituita da torbiditi silicoclastiche che si sono formate durante il Messiniano, in un bacino di avanfossa; all’interno della formazione sono stati individuati tre membri distinti: preevaporitico, eva- poritico e postevaporitico. I sedimenti
Geologia dell’Ambiente • n. 1/2021
arenacei massivi sono presenti nel mem- bro inferiore, i depositi arenacei in quel- lo intermedio e quelli pelitico-arenacei in quello superiore (Centamore et alii 1990; 1992; 1993).
La formazione di Cellino: è costituita, quasi interamente, da torbiditi silicocla- stiche depositatesi, durante il Pliocene inferiore, in una avanfossa più esterna. all’interno della formazione sono stati individuati tre membri distinti: il primo basale, arenaceo, il secondo intermedio composto da depositi arenaceo-pelitici e il terzo, quello superiore, formato da depositi arenacei. I calanchi dell’area di Cellino si estendono oltre l’attuale linea di costa e le dorsali più importanti sono quelle di Bellante-Cellino Attanasio e Campomare-Montesilvano (Centamo- re et alii 1990; 1993).
La formazione di Mutignano: è carat- terizzata da diversi orizzonti stratigra- fici: depositi sabbioso-conglomeratici di ambiente neritico alla base, peliti di piattaforma nella zona intermedia e sabbie e conglomerati di ambiente ma- rino di transizione continentale, debol- mente pendenti verso est-nord-est nella zona superiore.
Dal punto di vista geolomorfologi- co, la fascia pedemontana è caratteriz- zata, scendendo in direzione della costa adriatica, da una costante e graduale ri- duzione dell’energia di rilievo. La fascia interna, invece, presenta notevoli inci- sioni vallive con forti declivi. I fianchi interni delle valli sono molto acclivi. La fascia esterna è distinta da una dorsale che separa il Fosso Del Gallo, e l’omo- nimo torrente, dal torrente Piomba e da
estesi tabulati subpianeggianti, sui quali si collocano diversi abitati moderni. Si possono distinguere due grandi aree per quanto concerne i fenomeni geomorfo- logici che caratterizzano l’area: il settore alto collinare e quello collinare. Il primo coincide con le formazioni della Laga e di Cellino, mentre il secondo corrispon- de alla formazione di Mutignano.
I GEOARCHEOSITI
Da alcuni anni i ricercatori delle di- scipline scientifiche hanno rivolto l’at- tenzione ed i loro interessi anche verso settori legati a problematiche di ambito storico, artistico e sociale. L’adeguamen- to ad una nuova filosofia culturale di integrazione fra discipline scientifiche e discipline umanistiche rappresenta un importante ambito preferenziale e sti- molante che possiamo individuare nei rapporti fra patrimonio culturale di ti- po archeologico, storico-architettonico, il contesto paesaggistico in cui è inserito, e, in particolare, fra esso e le Scienze del- la Terra. I geoarcheositi possono essere definiti come “siti di alto interesse am- bientale, antropico, storico archeologi- co e paesaggistico in cui la componente geologica e quella antropica ne siano le componenti fondamentali e abbiano la stessa importanza” (Lena, 2009). L’e- sempio più importante è costituito dal Serapeo di Pozzuoli, in realtà il macellum della città romana di Puteoli. Nel libro base della geologia moderna Principles of Geology di Sir Charles Lyell (il primo volume fu pubblicato nel 1830) una im- magine delle colonne costituisce il fron- tespizio del volume (Fig. 8). Le colonne
Figura 8. Frontespizio del libro Principles of Geology di Sir Charles Lyell (1830)
che ne definiscono il perimetro esterno mostrano di aver subito fenomeni di al- luvionamento e di sommersione marina. Quest’ultima è testimoniata da una fa- scia, ampia 2,70 m, perforata da fori di litodomi a partire da 3,60 m dalla base. Dalla colonna stratigrafica dei depositi di colmamento, si ricava che nel corso degli ultimi 2000 anni si sono succeduti episodi di deposito marino e deposito
attività sembra si sia esplicata fra XI e XII sec. Un periodo di continentalità si ricava anche dai cd granai, dal Serapeo e dal Tempio di Mercurio. Gli “strati di crollo” (ad esempio le colonne del Sera- peo) testimoniano una intensa sismicità che sempre si accompagna all’inversio- ne dello sprofondamento. L’ultima e più intensa sommersione si ebbe fra l’inizio del XIV sec. e la fine del XV; forse pro-
vo che risale al 1538. Solo agli inizi del XIX secolo, si hanno evidenze di una fase discendente del moto bradisismico. Nel 1820, il 2° pavimento del Serapeo era al livello mare, nel 1890 era a + 2,05 e nel 1948 a + 2,28 m. Questa situazione è perdurata fino al 1968-69, ma nel 1970 il suolo mostrava chiari segni di solleva- mento notevole tanto che nel 1982-84 si era raggiunta la quota di 3,82 m. Una lieve fase discendente viene nuovamen- te registrata agli inizi del 1985 e perdura ancora oggi. Il pavimento del Serapeo è attualmente a poche decine di cm sopra il livello del mare (Russo, 2003).
Un altro geoarcheosito di grande importanza è costituito dalla piccola isola di Basiluzzo, nell’arcipelago del- le Eolie, dirimpettaia della più nota e abitata Panarea (Fig.10). Disabitata da qualche secolo, è stata nel passato inten- samente coltivata da popolazioni delle isole vicine, ormai emigrati altrove. Il Cavaliere Deodato de Dolomieu (a cui si deve il nome dolomite) che la visitò nel 1781, scrisse che “è coltivata sul pen- dio esterno, ma non è abitata”. Negli an- ni Sessanta del secolo scorso è stata set di numerosi film; il più famoso dei quali è “l’Avventura” di Michelangelo Anto- nioni. Insieme alle isole vicine (Spi- nazzola, Dattilo, Lisca Bianca, Bottaro, Lisca Nera). Panarea costituisce la parte emersa di corpi vulcanici morfologica- mente separati fra di loro ma poggianti tutti su un basamento pianeggiante, che oggi si trova alla quota media di 130 m sotto il livello marino. La costituzione geologica rivela come l’isola rappresenti in emersione un ampio duomo endo- geno riolitico effuso durante lo stadio
Figura 9. Le colonne del Serapeo. A una certa altezza è visibile la striscia più scura lasciata dai fori dei litodomi
continentale: (Fig. 9). Tutta l’area set- tentrionale del Golfo di Napoli mostra analoghe situazioni di sprofondamen- to e di emersione: dal centro storico di Pozzuoli (i granai) a Capo Miseno (Tempio di Ercole), a Baia, a Napoli stessa nella villa di età imperiale, nota come “la casa degli spiriti”che ha tutto il primo piano sommerso dal mare. Tutte queste strutture archeologiche interes- sate dalla sommersione hanno una età compresa tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. Il momento in cui si dovette veri- ficare la prima sommersione della costa (V secolo d.C.) coincide con il periodo di massima decadenza del mondo ro- mano. A questa fase seguì, fra la fine del V e il VII sec., una fase di emersione testimoniata da uno strato di occupa- zione antropica a Capo Miseno. Solo con la fine del VII secolo d.C. il suolo puteolano sprofondò del tutto. La città bassa di Pozzuoli e l’intera Baia furono completamente sommerse e tale som- mersione deve essere durata per tutto i secoli VIII e IX. Seguì un lungo periodo di continentalità; alle Terme Miseno, le sabbie marine sono seguite da detriti continentali e da un paleosuolo con i resti di una fornace medioevale, la cui
prio tra il 1302, data dell’eruzione del Monte Epomeo ad Ischia ed il 1488,data del disastroso terremoto con epicentro a Pozzuoli. Nel XVI secolo, il Serapeo era sicuramente emerso dato che le colonne con fori di litodomi sono ricoperte dai prodotti dell’eruzione del Monte Nuo-
Figura10.Panarea,Basiluzzoegliscogli.Particolaredellaparteemersadicorpipoggiantisulbasamentovulcanico comune
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evolutivo post-tirreniano (sesta epoca eruttiva di Panarea di circa 55.000 an- ni fa). Lungo i versanti, settentrionale e meridionale, sono evidenti le modalità di accrescimento del domo attraverso strutture di foliazione da flusso vertica- le (dinner dome) e di tipo rampart. Cosa che ne fa un geosito importante di inte- resse internazionale (Fig. 11).
pica durante il periodo romano e, suc- cessivamente, dall’azione dei contadini che vi hanno operato dissodamenti e terrazzamenti vari. Le ricognizioni re- centi (Medaglia, 2008) hanno messo in evidenza schegge e nuclei di ossidiana presenti in tutta l’isola, nello specifico nella porzione bassa dell’isola, lungo i margini del terrazzo che contorna la ca-
regime di collettivismo. Tutta l’isola è caratterizzata dalle rovine di una grande villa distribuita su vari livelli che degra- dano dalla cima dell’isola in direzione E, con una distribuzione degli elementi posizionati in punti panoramici di note- vole impatto paesistico. Si può ritenere che la villa marittima di Basiluzzo non sia stata concepita secondo una strut- turazione architettonica “a blocco”, cioè articolata intorno al peristilio, ma or- ganizzata in nuclei o padiglioni sparsi (Medaglia, 2008). Tale scelta fu eviden- temente imposta dall’irregolarità del terreno e dalla conseguente mancanza di una piattaforma edificabile sufficien- temente estesa, ma anche dal desiderio di fornire al proprietario una visione spettacolare dell’ambiente circostante. L’accesso principale alla villa, probabil- mente monumentalizzato, è da porsi sul lato orientale a ridosso della caletta della Grotta del Carbone (Scariu Nuovu) do- ve insistono una serie di ambienti a pic- co sul mare che assecondano il naturale andamento della costiera. Un ulteriore accesso, attualmente utilizzato come ac- cesso principale, si sviluppava con una rampa lungo il fianco occidentale della saletta. Esso è forse da identificarsi con lo Scariu di Camardei citato dall’ufficiale di marina T. Flint che lo descrisse nella prima metà del XIX secolo; dell’ingres- so alla villa restano tracce di alcuni gra- dini in cocciopesto. Non è conservato il nome del proprietario, probabilmente un personaggio della famiglia imperiale (viste le risorse economiche impiega- te), né l’età di costruzione e di uso della villa ma, pur ritenendo plausibile una fase tardo repubblicana testimoniata
Figura 13. Basiluzzo. Muro per regolarizzare la super- ficie originariamente inclinata
Figura 11. Modalità di accrescimento del domo vulcanico
Il profilo dell’isola simula l’esisten- za di almeno 3 superfici terrazzate alle quote di 120 m s.l.m., 100 m s.l.m., 50 m s.l.m. Mancano tuttavia le morfologie, i depositi detritici tipici e quelli fossili- feri che possano ricondurle alle tracce di antichi stazionamenti del mare, come avviene a quote diverse nella dirimpet- taia Panarea (Fig. 12); qui esse hanno età documentabili superiori alla formazione di Basiluzzo avvenuta 55.000 anni fa. La formazione di tali ripiani è da attribuire, quindi, alla diversa consistenza e resi- stenza all’erosione delle rocce affioranti e all’azione antropica che, nel corso della sua storia, vi è stata esercitata (Fig. 13). Particolare è stata l’utilizzazione antro-
letta di sudest (Scariu di Camardei) e te- stimonianti genericamente la frequen- tazione durante i vari stadi del Neolitico. La presenza di ceramica di impasto, attribuibile ad una generica Età del Bronzo, diviene comunque indicativa di una effettiva intensa frequentazione (senza potere affermare l’esistenza di un insediamento). L’assenza di significative testimonianze d’età greca va letta alla lu- ce di quanto riportato da alcune fonti a proposito dell’agricoltura itinerante che praticavano i Liparoti nelle isole mino- ri. Tucidite e Pausania, ma anche con maggiore precisione Diodoro Siculo, riferiscono che solo Lipari era abitata, mentre le altre isole erano coltivate in
Figura 12. Le strutture ancora visibili della villa da cui si arguisce la disposizione degli elementi strutturata in base alla morfologia dei luoghi
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Figura 14. Resti dell’edificio di località “Filu e frasca”
dall’opus quasi reticulatum, l’impiego del reticolato suggerisce una attribuzio- ne delle strutture all’età giulio-claudia (Fig. 14). D’altra parte la guerra con- tro Sesto Pompeo e i pirati condotta da Augusto e poi da Agrippa rende difficile pensare che possa essere stata costruita una struttura simile in una piccola isola come Basiluzzo e in periodo di guerra. La ceramica presenta lascia intendere che la vita della villa fu breve almeno quale luogo di villeggiatura: considera- zioni di ordine storico fanno propendere per la fine del periodo tiberiano. Ricer- catezza ed eleganza contraddistinguo- no i ruderi di località Filu e frasca. Rag- giungibile solo attraverso rampe, doveva costituire il luogo più suggestivo della villa con stanze di rappresentanza e al- meno una terrazza belvedere. A questo lussuoso padiglione è da attribuirsi una campionatura molto ricca di intonaci di vari colori, probabili affreschi, lastre di marmo bianco, pietre colorate per mo- saici pavimentali, elementi fittili di co- lonne in muratura, una notevole quan- tità di ornamentazioni in stucco relativi a cassettoni delle volte. Presso la falesia della Punta di Levante e ad una profon- dità compresa fra i -3,20 e i – 5,50 m, ci sono i resti di una peschiera, in opera cementizia e sicuramente funzionale al- la villa (Fig. 15). La peschiera è del tipo a cielo aperto e fu costruita a ridosso di uno scoglio isolato che disponeva di una incavatura naturale protetta su tre lati. Il bacino ittico ha una forma vagamente trapezoidale e sui lati E e SE è chiuso da un muro a forma di L in opera ce- mentizia privo di paramento in quanto ottenuto mediante una gettata in una o più casseforme lignee, probabilmente inondate, di cui restano le impronte di catenae nel settore SE.
I PAESAGGI GEOARCHEOLOGICI
Appartiene ai geoarcheositi un intero centro urbano testimoniante importanti variazioni di paesaggio: Civita Bagnore- gio (Viterbo). Il borgo è affetto da crolli continui che ne mettono in pericolo la stabilità. Si tratta di un centro medieva- le sorto su un precedente insediamento etrusco poggiante su tufi teneri emessi dal complesso vulcanico vulsino nel cor- so del Quaternario (Fig. 16). Essi pog- giano, a loro volta, su una formazione di argille marnose, anch’esse quaternarie. Le infiltrazioni di acque meteoriche all’interno di questi complessi litologici provocano un ammollimento delle ar- gille e quindi continui crolli della parte esterna dell’abitato il cui perimetro si riduce sempre più.
La città è raggiungibile solo me- dianteunastrettapasserellaincemento
armato, costruita di recente (Focardi P., Margottini C. Ogliotti C., Sciotti M., Serafini S., 1993). Gli ultimi interventi di salvaguardia rischiano di essere va- nificati dall’eccessivo afflusso di turisti, oggi regolamentato mediante il paga- mento di un ticket di ingresso. Attual- mente si accede alla città medievale per- correndo questo stretto ponte (vietato a qualunque mezzo a motore). Fino agli anni Sessanta del secolo scorso vi era una passerella in legno. La via medieva- le partiva dalla strutta più verde che si intravedeinaltoasinistra,pocoamonte della porta di ingresso alla città.
LE CAVE
Trascurate dalla ricerca geologica ed archeologica del passato sono tornate al- la ribalta sia mediante studi puntuali dei primi sia mediante studi archeologici in variepartidelmondo,comeadesempio
Figura 15. La peschiera di Punta di Levante
Figura 16. Civita di Bagnoreggio (VT) e la strada di ingresso in cemento armato
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Figura 17. La cava di Chemtou, l ’antica Simitto in Tunisia. Da essa, con un rigido sistema schiavistico, si estraeva una breccia di colore giallo (Giallo Antico di Numidia), stilizzatissimo a Roma e in tutto il mondo romano. Sono in “giallo antico” le colonne interne e una parte del pavimento del Pantheon a Roma.
manufatti litici e resti di fauna tra resti di bue, elefante, ippopotamo, rinoceronte, cavallo e cervo (Blanc, 1938-1939; Fabri et ali, 2014; Manzi et ali, 2001; Bruner, Manzi, 2006, 2008; Sergi, 1948).
Impossibile non menzionare le “la- tomie”di Siracusa (Fig.21).Con la colo- nizzazione greca del 734 a.C., Siracusa, in un primo momento collocata nell’iso- la di Ortigia, si espande sulla terraferma e la sua particolare conformazione geo- morfologica, caratterizza da un blocco calcareo di origine sedimentaria rialzato da una serie di faglie che lo isolano dal resto del territorio circostante, ha per- messo di sfruttare il sottosuolo per la realizzazione delle cosiddette “latomie”, cavità ipogee per l’estrazione lapidea, ol- tre che pozzi, cisterne per la raccolta e captazione dell’acqua. Le Latomie di Si- racusa sono celebrate nei resoconti scrit- ti e illustrati dei grandi viaggiatori dei secoli XVIII e XIX (Patrick Brydone, Jean Houel, Johann Wolfgang Goethe) e, attualmente, si configurano in parte come cave a cielo aperto e in parte come cave in sotterraneo. L’originario asset- to geologico è stato in parte cancellato dall’attuale sistemazione urbana della città ed a seguito delle variazioni del livello del mare negli ultimi 2.500 an- ni (Mirisola, Polacco 1996) che hanno modificato fino ad occultare importanti evidenze geologiche o paleogeografi che come antiche sorgenti, linee d’impluvio delle acque superficiali o aree paludose; tuttavia parte del sottosuolo urbano si è salvato e le latomie, le catacombe, gli acquedotti, le cripte, i cunicoli, le gal- lerie, le cisterne, le cantine e le opere ipogeiche in genere ci permettono di conoscere il sottosuolo al di sotto del- la superficie topografi a della città. La roccia che affiora nelle latomie è ascri- vibile al Membro dei Calcari di Siracusa (Miocene inferiore-medio) che, assieme al membro di Melilli appartiene alla Formazione dei Monti Climiti. Nella sequenza stratigrafica i calcari di Siracu- sa giacciono su un livello di vulcanocla- stiti pre-mioceniche e sono sormontati da depositi di mare basso e continentali
a Chemtou (Fig. 17), l’antica Simittu da dove provengono i marmi gialli del Pantheon a Roma. Un museo molto ben organizzato e dedicato a tutto il ciclo di estrazione, lavorazione, trasporto terre- stre e marittimo dalla Tunisia si trova ad Ostia.Inparticolare,traigeositiinItalia, spicca quello delle antiche cave di Ghia- ia di Saccopastore, ubicato in un’area di
Figura 18. Cava di Saccopastore con indicazione della posizione dei due crani (Fabri et ali, 2014, p, 73)
golena dell’Aniene e oggi di difficile riconoscimento a causa della continua urbanizzazione dell’area. La cava, negli anni Venti, era ancora attiva e al suo in- terno furono rinvenuti due crani fossi- li neanderthaliani (Fig. 18). Il geosito di Saccopastore si trova all’interno di un’area di terrazzo alluvionale del fiume Aniene, ascrivibile al Pleistocene medio e superiore, che, nei primi decenni del Novecento, era caratterizzata da attività di cava. Nel 1929 e nel 1935, nel corso di scavi per l’estrazione della ghiaia, furono rinvenuti due crani di Homo Neander- thalensis denominati Saccopastore 1, ap- partenente ad un individuo femminile di età matura, e Saccopastore 2 perti- nente ad un individuo maschile di 30- 35 anni, inquadrabili nel Riss-Wurm o “stadio isotopico 5” a circa 120.000 anni fa (Figg. 19 e 20). L’area della cava, dove furono rinvenuti i due crani, si trovava in un’ansa di sinistra dell’Aniene che oggi si potrebbe collocare fra le attuali via Val Trompia, via Valvassina, via Val d’Ossola e Via Nomentana. Nel 1936, uno scavo condotto dall’Istituto Italiano di Pale- ontologia Umana portò alla luce alcuni
Figura 19. Il Cranio di Saccopastore 1
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Figura 20. Il Cranio di Saccopastore 2
Figura 21. Latomia del Paradiso
Figura 22. Latomia del Paradiso. L’orecchio di Dioniso
di età Plio-pleistocenica; questi ultimi sono disposti in sei ordini di elementi paleomorfologici generati dalle muta- zioni della linea di costa e consistono in spianate di abrasione, scarpate morfolo- giche e depositi terrazzati (Di Grande, Raimondo 1982).
Lo sfruttamento delle latomie è ascrivibile alla metà del VII secolo a.C. e si concentravano su una vasta aerea già nel V secolo a.C. sviluppandosi in ambienti sotterranei. Tra le latomie più importanti si segnalano la Latomia del Paradiso e ad est le vicine Santa Venera
e Intagliatella. A nord di queste le Lato- mie del Carratore e del Teracati. Ad est di quest’ultime, ma in zona più centra- le, le Latomie di Broggi e del Casale. A est di Siracusa e adiacente alla costa le Latomie dei Cappuccini e della “Rutta e Ciauli” (Cavallari, Holm 1883).
La Latomia del Paradiso si esten- de per circa tre ettari, sviluppata quasi interamente all’aperto e circondata da pareti di roccia verticali o strapiomban- ti alte da 10 a 40 m. L’unico ambiente ipogeo visitabile è l’orecchio di Dioniso (Fig. 22); presenta una pianta a forma di S stretta (da 5 a 11 m) in rapporto alla sua estensione longitudinale ed alla sua altezza.
Le pareti che hanno una sagoma curvilinea e strapiombante convergono in forma di V rovesciata alla sommità. La Latomia di Santa Venera (Fig. 23) e quella dell’Intagliatella (Fig. 24) si tro- vano nell’area della tomba di Archimede edell’areadellanecropoli“deiGrotticel- li”. Sulle pareti sono presenti numero- sissime nicchie quadrangolari di piccole dimensioni che testimoniano il culto dei defunti eroicizzati, molto diffuso in età
Figura 23. Latomia di Santa Venera
Figura 24. Latomia dell’Intagliatella
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Figura 25. Latomia del Carratore
ellenistica. Le Latomie del Carrato- re (Fig. 25) e del Teracati (Fig. 26) si trovano in un’area compresa tra la Via Necropoli Grotticelle, Viale dei Teraca- ti, Villa Barresi e Villa Reimann e parte di esse risultano inglobate all’interno di queste. Le Latomie del Broggi e del Ca- sale, molto probabilmente, erano con- nesse all’attività estrattiva di materiale per la costruzione della Neapolis e, ad oggi, risultano chiuse all’interno di pro- prietà private.
Da menzionare sono le Grotte dei Cordari e del Salnitro. Queste presen- tano una pianta irregolare con pareti piane, strapiombanti o “a tenda”. Il loro nome si deve al tipo di lavoro svolto da- gli artigiani che le occupavano fino agli anni sessanta del XX secolo. I fabbrica- tori di corde di canapa utilizzavano le polle d’acqua accumulata sul fondo per la follazione delle fibre, mentre nella Grotta del Salnitro venivano asportate dalle pareti le concrezioni di Sali solu- bili per la loro commercializzazione. Nei pressi della costa si trovano le Latomie dei Cappuccini (Fig. 27) e di “Rutta ’e Ciauli” (Fig. 28).
La Latomia dei Cappuccini è la più antica; da documenti di archivio risulta che era chiamata del “Palombino”. Delle latomie siracusane, quella dei Cappuc- cini è la più antica; dai documenti d’ar- chivio risulta che era chiamata prima del “Palombino” e poi “Silva dei Cappucci- ni”. Nel 1582, l’Università di Siracusa la donò ai Frati minori di S. Francesco per- ché vi costruissero, nell’area soprastante, il loro convento fortificato, a difesa della costa, continuamente attaccata dai pi- rati. I frati trasformarono la Latomia in giardino e orto, con lo scavo di pozzi, cisterne, lavatori e sistemi di irrigazione. La “Rutta ’e Ciauli” è una cavità artificia- le ben nota ai Siracusani strutturalmente costituita da una rete labirintica molto estesa di gallerie, nelle quali sono ben evidenti le tracce di estrazione dei bloc- chetti. La Rutta ’e Ciauli si trova lungo la costa orientale della città, nei pressi del convento dei Cappuccini e poco di- stante dal monumento al Lavoratore in Africa. Presenta quattro ingressi comu- nicanti tra di loro ad una quota di 5,50 m s.l.m. alla base di una falesia verticale di circa 20 m s.l.m. Una spianata, posta di fronte la zona degli ingressi e anti- camente molto più ampia, raggiunge la base della falesia. Lungo la costa, sono visibili tracce di estrazioni di blocchetti risalenti all’età greca mentre altre tracce sono riferibili ad attività moderne (Bon- giovanni, Giunta, 2005; Felici, Lanteri 2012; Marziano, Arena 2016).
Figura 26. Latomia dei Teracati
Figura 27. Latomia dei Cappuccini
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Figura 28. Latomia di “Rutta ’e Ciauli”
LE MINIERE
Tracce di miniere e di attività estrat- tiva sono state scoperte in vari posti del mondo e nella stessa Italia. Sono neoli- tiche le miniere di Spiennes in Belgio, ritenute le più antiche e le più estese miniere di selce che si trovino in Euro- pa. Con una densità di 20.000 pozzi per l’intero sito, esse hanno conosciuto fin dal Neolitico e fino all’’Età del Bronzo qualcosa come 150 generazioni di mi- natori. Le tecniche estrattive utilizzate, piuttosto sofisticate e complesse, rispec- chiano un completo adattamento delle tecnologie ai vari tipi di terreni, apparte- nenti alle formazioni calcaree note come craie, e delle formazioni selcifere presen- ti sul posto. Le miniere di Spiennes so- no state dichiarate dal 2000 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Altro pa- trimonio dell’Umanità è certamente la miniera di Halstatt in Austria, distretto minerario di notevole importanza per l’estrazione di salgemma. Esse furono in funzione almeno da 7.000 anni fa aven- do un grande sviluppo qualche millennio dopo. La civiltà di Halstatt, alla quale la regione mineraria diede origine, fu in- terrotta bruscamente da una frana nel IV secolo a.C. Una miniera molto antica, probabilmente utilizzata nel Paleolitico superiore, è stata recentemente rinve- nuta e studiata in Calabria, alla Grotta della Monaca nel territorio comuna- le di Sant’Agata d’Esaro (Cosenza), dall’equipe guidata dal Felice Larocca. La grotta, antro di grandi dimensioni che appare da lontano come una gran- de bocca, si trova a metà dell’altezza di una falesia impostata su un piano di fa- glia. È con certezza la testimonianza di una fase umida terziaria e quaternaria all’interno della formazione calcareo- dolomitica dell’Unità di San Donato,
a poca distanza dal Passo dello Scalone e dell’alto corso del torrente Sangineto, dove le unità calcareo- dolomitiche delle Unità di Verbicaro e di San Donato si immergono per poi sparire completa- mente poco più a sud al di sotto delle unità metamorfiche. Nelle rocce calca- ree si trovano mineralizzazioni ferrose di goethite soprattutto e cuprifere fra cui malachite e azzurrite. La grotta (Fig. 29)
Figura 29. Topograf ia della Grotta della Monaca (La- rocca, 2011)
è composta da diversi antri, denominati da chi l’ha scoperta: “Pregrotta”, “Sala dei pipistrelli”, con cunicoli di grande importanza denominate la “Buca delle impronte” e “Ramo delle vaschette”. La prime mineralizzazioni che hanno avuto utilizzazioni minerarie sono quelle della Pregrotta, dove è stata rinvenuta la go- ethite, minerale ferroso affiorante in fi- loni lungo le fratture della roccia. Tracce di estrazione sono confermate dal rin- venimento di strumenti in selce e osso (Fig. 30). Il contesto è datato da un’ulna umana posta intenzionalmente sotto un
Figura 30. Strumento di scavo in osso per l’estrazione di goethite
macigno calcareo il che consente di da- tare la frequentazione della grotta a circa 20.000 anni fa in piena pulsazione gla- ciale (Larocca, 2011). Le tracce ulteriori di utilizzazioni minerarie per l’estrazione dei minerali ferrosi scompaiono perché obliterate dall’utilizzazione per l’estra- zione dello stesso minerale nel periodo immediatamente successiva alla fine del Medioevo. Proseguendo verso l’interno si giunge nella grande sala detta “Sala dei pipistrelli”, dove si hanno tracce di altre estrazioni conservate in quantità maggiori nella cd “Buca delle impronte” il cui nome è stato assegnato in quanto la pavimentazione è costituita da filoni di goethite molto morbidi che hanno con- servato centinaia di impronte di piedi e di tracce di scavo. Qui sono stati ricono- sciuti strumenti di varia tipologia realiz- zati in palco di cervide, piccole zappe in osso di cervo e persino palette ricavate da scapole di grossi mammiferi. La zona era ovviamente al buio. Non si è trova- ta traccia di lucerne, bensì l’uso di torce realizzate con legno resinoso soprattut- to Pinus sylvestris. Interessante anche la stabilizzazione delle zone in cui vi era pericolo di crollo. Non veniva asportata tutta la goethite, ma erano stati lasciati piccoli pilastri per il sostegno delle volte. Inoltre i materiali di risulta dello scavo erano stati sistemati ordinatamente in modo da formare dei veri e propri mu- retti a secco. Con il Neolitico fu utilizza- to per l’estrazione del rame la malachite e in misura inferiore l’azzurrite (Fig. 31). L’età ricavata da datazioni radiocarboni- che fornisce un periodo compreso fra la
Figura 31. Mineralizzazioni all’interno della grotta
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Figura 32. Strumenti di vario genere utilizzati per l’estrazione di malachite
Fig. 33. Fonte Tullianum. Sorgente che oggi zampilla nella cripta inferiore del carcere tulliano
SPENDIAMO QUALCHE PAROLA SULLA “GEODIVERSITÀ”
Il termine “geodiversità” fu usato per la prima volta da Sharples, nel 1993, per descrivere “la diversità degli elementi e dei sistemi della terra”. Seguirono varie definizioni, più o meno complete di altri studiosi. Fra questi Wilson che sinte- tizzò il concetto in 2 distinte categorie: 1. le risorse geologiche culturali, asso-
ciate ai valori del patrimonio cul- turale della società la quale hanno lo scopo di preservare le bellezze fisiche dell’ambiente ed allo stesso tempo di farne oggetto di ricerca;
2. le risorse di tipo economico o estrat- tivo/industriali, associate ai valori economici della società i quali si esplicano nello sfruttamento delle risorse fisiche del pianeta.
CONCLUSIONI
Le strategie di integrazione e valo- rizzazione, connesse con attività di stu- dio e di gestione di questi “Monumenti geologici-geomorfologici-geoarcheolo- gici”, possono essere molteplici:
a) attività didattica: predisposizione di progetti didattici in cui i curricula svolti diventano l’occasione per avvi- cinare la geologia pratica e non solo teorica, agli studenti di ogni ordine e grado, durante il loro normale pe- riodo di formazione scolastica;
fine del V millennio e l’inizio del IV. Fra gli strumenti utilizzati vi è una maggiore specializzazione: utensili di scavo in pie- tra levigata come asce-martello, picconi e mazzuoli. È conservata solo la parte litica in grande quantità,sia integra sia in frammenti, perché lo strumento, una volta divenuto inservibile, veniva abban- donato sul posto. Sono state riconosciu- te due differenti tecniche estrattive. La prima consisteva nella scalfittura delle mineralizzazioni di rame con punteruoli (Fig. 32), metodo che fu presto abbando- nato perché molto dispersivo, sostituito dallo sbancamento delle frane e dei de- positi accumulati al suolo, al cui interno erano inglobate numerose piccole pietre con spalmature di malachite e azzurrite. In questo modo, i minerali di rame veni- vano acquisiti e trasportati in superficie, probabilmente, entro contenitori di na- tura organica (Larocca, 2012).
SORGENTI
Tra i paesaggi geoarcheologici, anno- veriamo anche quelli in cui sono presenti sorgenti. Come non menzionare l’area romana; la conformazione idrogeologi- ca di Roma e la massiccia presenza di acque sia superficiali sia sotterranee han-
no permesso alla città di svilupparsi fin dall’antichità. La costruzione di acque- dotti ha consentito alla città di disporre di un quantitativo più che sufficiente per l’approvvigionamento, tanto che le sor- genti sotterranee divennero secondarie. Dopo le invasioni barbariche e il cosid- detto “taglio degli acquedotti”le sorgenti ritornarono ad essere di fondamentale importanza fino a tutto il Medioevo. I “sette colli” di Roma erano separati da profonde incisioni, nelle quali scorreva- no le acque sorgive. Queste alimentava- no gli antichi torrenti, di cui si notizia dalle fonti storiche: l’Amnis Petronia, tra Pincio e Quirinale, e lo Spinon, tra Campidoglio e Oppio. Alcune di queste sorgenti sono oggi riconoscibili poiché furono dedicate dai Romani al culto del- le divinità legate alle acque e alla fertilità della terra. Alcune sono state riscoperte nel corso dell’800 e del ‘900 per volere dei Papi. Sono state riconosciute una ventina di sorgenti storiche su tutto il territorio, mentre per altre, oggi scom- parse, restano fontane o lapidi legate alla loro presenza che ne testimoniano l’esi- stenza e la loro valenza storica e monu- mentale (Fig. 33) (Corazza, Lombardi, 1995; Fabbri et ali, 2014).
Fig. 34. Tempesta di sabbia nel Sahara
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Fig. 35. Tempesta sull ’Oceano Atlantico
b) attività culturali: evidenziare e valu- tare i valori culturali del paesaggio fisico e umanizzato;
c) promozione di una nuova sensibilità geologica a sostegno del turismo di- dattico e scientifico;
d) realizzazione di percorsi a carattere tematico in cui il geosito si trasfor- ma da “oggetto geologico” in “bene culturale” fruibile e godibile da tutti;
e) attività di pianificazione a sostegno della conservazione e della divulga- zione scientifica. Qualunque pro- getto di sviluppo messo in cantiere dovrà tenere conto dell’esistenza del geosito e della necessità di conserva- zione dello stesso;
f) aumento del consenso della popola- zione, molto importante, ai fini della protezione dei geositi, in particolare quelli fossiliferi, e degli archeositi notoriamente tra i più a rischio;
g) attività di studio e di ricerca scienti- fica: collaborazione con le Università ed Enti nazionali ed internazionali e conseguente incremento della ricer- ca, della scoperta e della valorizza- zione di nuovi geositi;
h) attività di conservazione della natura e del paesaggio;
i) creazione di nuove opportunità pro- fessionali (laboratori di analisi,servi- zio di ricerca geotecnica, allestimen- to museologico).
LA DICHIARAZIONE INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DELLA MEMORIA DELLA TERRA
Così come la vita umana è consi- derata unica, è giunto il momento di riconoscere l’unicità della Terra. La nostra storia e quella della Terra sono inseparabili; le sue origini e la sua sto- ria sono le nostre, il suo futuro sarà il nostro futuro. Come un vecchio albero conserva la registrazione della sua vita, la terra mantiene le “memorie” del pas- sato scritte nelle sue profondità e nella sua superficie, nelle rocce e nel paesag- gio. Questa sorta di registrazione può anche essere tradotta. L’uomo e la terra formano un patrimonio comune. Noi … siamo soltanto custodi di questa eredità.
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Vecchie cave di argilla
e loro fornaci di mattoni
presso Fornaci di Barga
(LU)
Old clay pits and their brick kilns at Fornaci di Barga (LU)
Parole chiave: Fornaci di Barga, Barga, Media Valle del Fiume Serchio, Serchio, Ania, Loppora, fornace di mattoni, fornace Verzani, fornace Arrighi, cave di argilla
Key works: Fornaci di Barga, Barga, Media Valle del Fiume Serchio, Serchio, Ania, Loppora, brick kiln, brick kiln Verzani, brick kiln Arrighi, clay pits
Mara Dell’Aringa
Geologo
E-mail: mara.dellaringa@perlambiente.org
Massinissa Ramacciotti
Archeologo
E-mail: massinissa.r@alice.it
La frazione di Fornaci di Bar- ga, situata nella Media Valle del Fiume Serchio (LU), in passato aveva un’economia locale molto diversa dall’attuale, basata sull’agricoltura, l’allevamento e la pro- duzione di laterizi. Già attive in tempi antichi le numerose fornaci di Forna- ci di Barga rifornivano il territorio di numerosi mattoni e tegole entrambi in differenti tipologie. La posizione delle fornaci presso l’area era dettata dalla ricchezza in zona di argille plioceni- che affioranti, e quindi facili da essere coltivate con mezzi anche rudimentali. Benché queste fornaci abbiano contri- buito in modo sostanziale allo sviluppo socio-economico dell’area, oggi di loro restano solo pochi frammenti di tessuto urbano spesso abbandonato.
Figura 1. Carta geologica schematica (D’Amato Avanzi G. et Al. ,2004)
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INQUADRAMENTO GEOLOGICO
Durante il Ruscianiano-Villafran- chiano, tra la Lunigiana e la Garfagna- na, si sono formate varie depressioni tet- toniche delimitate da faglie dirette con direzione appenninica. Nel Pliocene in- feriore si è aperta quella della Lunigiana, colmata dalla successione del Bacino di Aulla-Olivola, iniziata nel Pliocene in- feriore, e da quella del bacino di Pontre- moli più a Nord iniziata nel Villafran- chiano superiore. Invece, nel Pliocene medio-superiore, si è formata quella della Garfagnana, colmata presso Bar- ga e Castelnuovo dagli omonimi bacini. La frazione di Fornaci di Barga si trova all’interno della depressione tettonica della Garfagnana in prossimità dell’a- rea barghigiana colmata da depositi di
Figura 2. Ciottoli di marmo di provenienza apuana, con- tenuti nei depositi di conoide (Barsanti M. et al., 2009)
Figura 3. Ciottoli di Arenaria Macigno di provenienza appenninica, contenuti nei depositi di conoide (Comune di Barga, 2009)
vari cicli fluvio-lacustri dell’omonimo lago tra il Pliocene inferiore e il Plei- stocene superiore con il contemporaneo contributo delle conoidi di provenienza apuana.
Dal Pleistocene medio al superiore, nel bacino iniziano a prevalere conoidi di origine appenninica poi incise ed ero- se in fondovalle dal reticolo del Fiume Serchio. Secondo Antiga R. et al. (1985) i depositi villafranchiani del Bacino di Barga danno luogo a una successione di circa 300 m di spessore riassumibili in:
Primo intervallo lacustre e fluvio-lacustre
Argille e argille sabbiose lignitificate, sabbie e conglomerati; max spessore 150 m;affiora presso vari torrenti tra cui T.Loppora.
Primo intervallo fluviale
Conglomerati; max spessore 40 m; af- fiora in particolare lungo il T.Loppora.
Secondo intervallo lacustre e fluvio-lacustre
Argille e argille sabbiose lignitificate, sabbie e conglomerati; max spessore 30-40 m.
Secondo intervallo fluviale
Conglomerati; max spessore 3-4 m; af- fiora in particolare tra Barga e Fornaci di Barga.
Sistemi di conoidi alluvionali lungo i mar- gini del bacino
Il bacino di Castelnuovo presenta una sequenza analoga ma con scarsi affiora- menti, e spessori minori.
Dal punto di vista chimico-minera- logico Dondi M. et al. (1998) hanno in- dicato le argille di Fornaci di Barga (del Pliocene medio-superiore) idonee alla produzione di laterizi ma miscelando l’impasto con argille più plastiche, men- tre inutilizzabili per piastrelle. Infatti
Figura 4. Esempi di materiali dei cicli fluvio-lacustri, da sinistra verso destra: argille con fossili di una foglia (Pieve Fosciana), e un gasteropodo (T.Corsonna); lignite (Fosso Dezza, Castelnuovo di Garfagnana). Immagini di campioni del Gruppo Mineralogico Paleontologico di Fornaci di Barga, fotografati da Barsanti M., et Al., 2009.
di avanzamento. La gran parte invece delle fornaci si collocava in prossimità delle foci dei due Torrenti e nell’area pedemontana tra queste.
STORIA DELLE FORNACI DI BARGA
La storia del centro abitato di Forna- ci di Barga inizia intorno al 1000, quan- do era un piccolo villaggio con il nome di Catarozzo (oggi località ‘Caterozzo’). Il toponimo richiama le caratteristiche del territorio circostante, che all’epoca, era rappresentato da un luogo paludoso talvolta inondato dalle piene del Fiume Serchio (‘Catarozzo’ deriva da ‘Cala’, ac- qua, e ‘Tur’ passaggio, a indicare assieme un guado). Le prime fornaci sorsero tra i torrenti Loppora e il Ania, ma erano po- che. Dal 1230, con la guerra tra lucchesi e Papa Gregorio IX, la popolazione di Catarozzo si spostò in quota sui rilievi barghigiani. Così progressivamente ini- ziò a cessare l’attività delle fornaci fino al completo abbandono intorno al 1328. In tale anno morì Castruccio Castraca- ni signore di Lucca, e Barga si dichiarò indipendente dal dominio Lucchese. Passò invece volontariamente a quello fiorentino fino all’Unità d’Italia. Tra tanti assedi della città di Barga, ci fu quello tra il 1436 e il 1437 da parte dal condottiero Niccolò Piccinino (arruo- lato dai Visconti di Milano). Barga fu difesa dalle truppe fiorentine di Fran- cesco Sforza. Durante l’assedio, Picci- nino utilizzò, per la prima volta in zona, bombarde nel tentativo di abbattere le mura. Si trattava di un primitivo canno- ne a tiro parabolico. Le mura della città furono danneggiate, ma le truppe fio- rentine vinsero comunque l’8.02.1437. Nel 1440 per ricostruire le mura di Barga, fu scelto di riattivare le fornaci di Catarozzo. Grazie anche a una situa- zione politica più stabile, le popolazioni in gran parte tornarono sulla posizione del vecchio insediamento. Tra il ‘400 e il ‘500, essendo pochi i fornaciai locali, furono richiamati da aree limitrofe o più lontane come dal Castello di Verzano (Lunigiana) rinomato per la produzio- ne di calce e laterizi. La maggior parte dei fornaciai prese dimora nell’attuale Fornaci Vecchia. Nel ‘400 fu allargata e lastricata una mulattiera preesistente, che collegava Barga a Catarozzo, per il trasporto di mattoni e materiali edilizi fino al castello di Barga. La strada pre- se il nome di ‘strada della Giuvicchia’ al termine della quale, in prossimità di Barga, fu costruito nel tempo il Con- vento di S.Francesco. Dal ‘500 fino all’ ’800 i materiali da edilizia furono ven-
in particolare dalle analisi chimiche di suddetti autori, è risultato che tali argille hanno un contenuto di: SiO2 62-69%, Al2O3 12-16%, Fe2O3 5-6%, MgO 2-3%,e CaO e Na2O intorno ciascuno all’1%. Tale chimismo è ottenuto dallo smantellamento di formazioni in posto ofiolitiche, i cui depositi di disfacimento sono stati presi in carico dai paleotor- renti contribuendo al colmo del bacino pliocenico.
LE CAVE DI ARGILLA
In passato con la coltivazione manua- le attraverso picconi, le aree più semplici da escavare si trovavano lungo i Torrenti Loppora e Ania, affluenti di sinistra del Fiume Serchio, con un alveo totalmente o parzialmente incassato. Questi, inci- dendo i depositi fluvio-lacustri, hanno portato in affioramento le argille lungo il loro alveo. L’esposizione degli strati a giorno, è stata favorita anche da nume- rose faglie che attraversano i bacini dei due torrenti. Dal punto di vista strut- turale infatti l’area è profondamente tettonizzata, e mantiene una sismicità in classe 2 (DPGRT 421/2014) per fa- glie attive e capaci presenti sul territorio barghigiano, e per il suo collegamento tettonico con l’ “asse sismico Garfagna- na-Lunigiana”. Tra queste si ha la faglia attiva di Loppia, facente parte di un ric- co sistema di faglie orientate NW-SE. Questa intercetta perpendicolarmente l’alveo del Torrente Loppora invece con andamento NE-SW. Lungo gli assi torrentizi si collocano poi diverse frane, che alterando lo stato dei luoghi, hanno contribuito all’esposizione delle argille. Tali elementi predisponenti hanno re- so il corso della Loppora e Ania ido- nei all’escavazione manuale, cosicché in passato le loro sponde sono state sfrutta- te molto e annoverate anche da Repetti E.(1833): ‘fra Barga (errata: e il Torrente Tiglio) e il Castello del Tiglio sotto un grès secondario si nascondono straterelli di li- gnite impregnati di solfo e di bitume, in uno strato incompleto di carbonizzazione. Essi conservano tutte le tracce fibrose, e la struttura delle piante alpine cui apparten-
nero’. Si trattava quindi di cave che se- guivano gli affioramenti lungo le sponde incise dei torrenti, che come tali avevano in sé delle pericolosità lavorative. Soli- tamente le coltivazioni avvenivano tra i periodi primaverili e quelli tardo estivi, in concomitanza della stagione di magra o secca.Trattandosi però di aste fluviali a regime torrentizio erano soggette a pie- ne improvvise, talvolta violente, durante intensi temporali come quelli estivi. In questo caso poteva verificarsi la perdita dell’impianto cantiere e, nei casi peggio- ri, quella delle vite umane. Si coltivava infatti senza particolari misure di sicu- rezza, e una volta in alveo si era soggetti sia ai pericoli idraulici che geomorfo- logici per innesco di frane o cedimenti di varia natura. Oltre che per cause na- turali, le frane potevano innescarsi per azioni antropiche. In questo secondo caso erano dovute al fatto che i cavatori escavavano al piede delle stesse favoren- done quindi il movimento. La scarsità di attenzione verso le misure di sicurezza era dovuta sia alla poca conoscenza delle problematiche, sia allo scarso interesse per le stesse. Infatti i cavatori nelle cave del barghigiano erano principalmen- te detenuti del carcere di Barga, che è stato attivo dal XIII sec. agli anni ’30 del Novecento. Si trattava dunque di persone costrette ai lavori forzati, per le quali interessava poco l’eventuale sorte avversa. Con la chiusura delle carceri, non sono più stati impiegati detenuti, e le cave sono rimaste attive fino a metà Novecento. Si avevano poi altre tipolo- gie di cave nel tratto pedemontano in si- nistra idrografica del Fiume Serchio tra le foci dei Torrenti Loppora e Ania. Si trattava di cave a mezza costa, anch’esse coltivate manualmente con picconi a co- da di rondine. La coltivazione non è di- venuta meccanizzata neanche nel corso del Novecento. Varie cave a mezza costa in zona sono poi state abbandonate nel tempo a causa del loro eccessivo arretra- mento verso monte. Su tali rilievi infatti, benché, non siano presenti frane naturali particolarmente rilevanti, si trovano vari edifici in quota poco distanti dal fronte
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Figura 5. Cartolina d’epoca della fornace Verzani
quadro statistico delle fornaci del 1862, ne erano censite n.16 di cui: tre di late- rizi (mattoni, tegole, ecc…); cinque di laterizi e calce; otto di sola calce. Infine dalla fine dell’‘800, iniziarono a chiudere progressivamente le cave di argilla, e di conseguenza anche le fornaci.
CAVA E FORNACE VERZANI
La cava Verzani si trovava sul ver- sante in sponda sinistra del F.Serchio tra la foce del T.Loppora e quella del T.Ania, in località ‘La Quercia’, e in adiacenza dell’omonima fornace la cui struttura oggi è abbandonata. Si trat- tava di una cava a mezza costa, sul cui piazzale oggi ha sede un vivaio. La cava era collegata alla fornace da una breve strada ferrata su cui erano spinti a mano vagoncini carichi di argilla. Nel 1956 la cava e la fornace furono chiuse per ec- cessivo arretramento del fronte di colti- vazione verso delle abitazioni a monte. La fornace Verzani, è tra le più antiche dell’area e produceva laterizi almeno dall’Ottocento. Nel 1902 fu fornita di macchinari elettrici quali impastatrici e mattoniere, che permisero l’aumento della produzione. Le argille delle cave di Fornaci di Barga non essendo idonee ad essere utilizzate da sole per la realizza- zione dei mattoni, erano miscelate con la triturazione dei ciottoli di Arenaria Macigno (presi dal ‘cappellaccio di ca- va’). Con tale strategia si ovviava a varie problematiche tra cui le fratture da raf- freddamento. Presso questa cava, come in altre, si trovavano quindi tramogge per la frantumazione dei ciottoli e altri macchinari per la miscelazione.
CAVA E FORNACE ARRIGHI
La cava Arrighi si trovava sul versante in sponda sinistra del T. Loppora, quasi in prossimità della sua foce in Serchio, in adiacenza dell’omonima fornace (aperta indicativamente dopo il 1862) nella cui struttura ha sede oggi il ‘Brico Io’ (aperto nel 1992). All’interno di questo è ancora conservato il camino della vecchia for- nace, che purtroppo è tornato a fumare nel 2013 durante un incendio. Sono sta- te poi mantenute delle strutture ad arco originarie sulla facciata del negozio.
La cava fu chiusa, per ragioni di sicu- rezza, intorno al 1955 quando l’eccessivo arretramento raggiunse i pressi di abi- tazioni. La fornace modificò proprieta- rio varie volte, ma si mantenne la più grande di Fornace di Barga, tant’è che in alcuni momenti è riuscita a dare lavoro fino a cento operai stagionali. Produce- va: mattoni pieni; mattoni forati a tre; a
Figura 6. Fronte di cava negli anni 1989-1990. Foto per gentile concessione del Sig.Angelo Pellegrini
Figura 7. Fronte di cava oggi
duti anche in aree lontane da Catarozzo, grazie al commercio fluviale e su carri. Intorno al ’700, con l’ampliamento del paese, questo prese il nome di ‘Fornaci di Catarozzo’, poi nel secolo successivo ‘Fornaci di Barga’. Secondo l’estimo dei
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beni della Comunità di Barga del 1477, all’epoca sul territorio barghigiano c’era- no quattro fornaci, di cui una destinata alla produzione di mattoni e intestata al Sig.Antonio Nutini (probabilmente tra Catarozzo e Ponte all’ Ania). Invece nel
sei; ‘foratoni’; tegole marsigliesi; tegole toscane e coppi (per coperture a tego- le maritate). I laterizi, destinati a gran parte della valle, erano posti a seccare sul suo attuale parcheggio. La fornace è stata tra le fornaci più produttive dell’a- rea. In particolare i mattoni della forna- ce furono utilizzati per la realizzazione (1915-16) della fabbrica SMI, Società Metallurgica Italiana (oggi KME), e la sua ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale.
LAVORAZIONE DELL’ARGILLA PRESSO FORNACI DI BARGA
La produzione di mattoni ed al- tri manufatti in terracotta realizzata a Fornaci di Barga, seguiva varie fasi. La prima fase consisteva nella raccolta dell’argilla dalle cave, assieme a ciottoli di Arenaria Macigno dai ‘cappellacci’ dei fronti di coltivazione utilizzati poi come degrassanti. Nella seconda fa- se, i vari materiali venivano macinati e amalgamati per essere poi utilizzati nella fabbricazione di mattoni e coppi. La terza fase vedeva la trasformazione del prodotto ancora crudo ed informe in varie tipologie di manufatti. I mattoni pieni erano prodotti con stampi, mentre i forati, le tegole e i coppi con ‘mattonie- ra estrusore’. In tale fase, per i mattoni forati, era prevista anche la stagionatu- ra, che consisteva nel lasciare il prodot- to lavorato all’aperto. Tale operazione di essiccazione facilitava la successiva cot- tura. Invece per i mattoni pieni non era necessaria la stagionatura. La successiva ed ultima quarta fase vedeva il prodotto nella fornace per la cottura.
Le operazioni di lavorazione avveni- vano secondo un preciso ciclo stagiona- le. Infatti la raccolta di argilla avveniva effettuata nei mesi estivi, in modo da po- ter seccare con facilità i mattoni all’aper- to. Pertanto la fase della stagionatura si conclude con la fine della bella stagione mentre l’attività finale di cottura termi- nava intorno a ottobre-novembre.
Alcune fornaci, come le Arrighi e Verzani, avevano fornaci particolari dette a ‘fuoco continuo con Metodo Hoffmann’ che permettevano una produzione più ef- ficace a rispondente alle richieste di mer- cato. La Fornace Hoffmann, era formata da un canale circolare continuo: nella parete esterna si aprivano le porte l’in- troduzione e l’estrazione dei materiali. In corrispondenzadiciascunaporta,ilcana- le di cottura poteva essere costruito con diagrammi di ferro, che si manovravano dalla parte superiore della fornace alzan- doli o abbassandoli come delle paratie.
Figura 8. Schema di una fornace Hoffman (da www. iliarubini.it/metodo_Hoffmann.htm)
Il tratto di canale compreso tra i due successivi diaframmi prendeva il nome di cella o camera di cottura. Ogni ca- mera presentava, nella parete interna, un passaggio aperto su un canale in posi- zione concentrica al canale di cottura, avente funzione di collettore del fumo. Questi passaggi erano chiusi mediante valvole manovrabili dall’alto per mezzo di aste che passavano entro fori prati- cati nella volta del collettore. Il camino, al centro della costruzione, comunicava con il canale del fumo tramite quattro aperture. La volta del canale di cottura aveva numerosi fori e bocchette per l’in- troduzione del combustibile. Tali boc- chette venivano chiuse da coperchi cavi in ghisa che ne assicuravano la tenuta ermetica. Si caricava il materiale crudo in una bocca e in quella subito a destra si scaricava il materiale cotto. Altre camere contenevano i prodotti che avevano già cotti e che si stavano raffreddando. Con questo metodo si procedeva all’infini- to, avanzando in media di una camera ogni quattro ore. Il principio basilare di queste fornaci consisteva nel riscaldare l’aria di alimentazione a spese del calore ceduto dai prodotti cotti che si raffred- davano e di utilizzare il calore possedu- to dai prodotti della combustione per il riscaldamento dei materiali da cuocere.
Le cave di argilla al momento so- no tutte abbandonate ma alcune ancora riconoscibili. Le fornaci invece in gran parte sono andate perdute o riadattate ad altri usi. Nonostante ciò, camminan- do per Fornaci di Barga sono ancora vi- sibili, in gran parte del tessuto urbano, i mattoni in terra cotta prodotti in epoche passate dai maestri artigiani, che con fa- tica e impegno, sfornavano pezzetti di storia per molte persone.
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RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano per la disponibilità il geom. Pierantoni Dario (ex dipendete del Comune di Barga), il sig. Emilio Lammari e il sig. Angelo Pellegrini.
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Rissëu, i tipici mosaici
in ciottoli della Liguria Orientale: significato storico, sociale e geologico
Rissëu, the typical pebble mosaics of Eastern Liguria: historical, social and geological relevance
Parole chiave: rissëu, Liguria Orientale, geoarcheologia, geoarcheologia del costruito Key words: rissëu, Eastern Liguria, geoarchaeology, building geoarchaeology
Marco Del Soldato
Geologo – ISCuM Istituto di Storia
della Cultura Materiale, Genova
E-mail: marco.delsoldato891@gmail.com
1. INTRODUZIONE
L’analisi geoarcheologia applicata al- le strutture in elevato dell’edilizia spon- tanea nonché agli infiniti terrazzamenti agricoli-storici (soprattutto in Liguria), fornisce numerose ed importanti infor- mazioniadarchitetti,storiciedarcheologi. Basta uno sguardo in campagna per ren- dersi conto del significato di questa frase.
La materia prima per realizzare le centinaia di chilometri di muretti a secco delle Cinque Terre, ma non solo, è sem- pre stata strettamente locale. La pietra proveniva dagli affioramenti più pros- simi al luogo di costruzione, ma anche da eventuali coni di deiezione e frane di crollo, o dalle discariche di piccole cave. In ogni caso, sempre, il più vicino possi- bile ai luoghi di posa in opera. Di conse- guenza queste strutture sono indicative di parte, almeno, della geologia locale. Ma non solo. In molti casi anche gli alvei ed i litorali, hanno assunto ruolo di cava (https://www.archeominosa- piens.it/peso-luni/; https://www.ar- cheominosapiens.it/luni-marmi/). Da questi ambienti provenivano i grossi ciottoli per gli edifici più poveri o di servizio posti in pianura, ma anche e soprattutto i piccoli ciottoli impiega- ti per la realizzazione dei ligurissimi e tipicissimi rissëu. Sono i caratteristici pavimenti a mosaico dei sagrati e dei giardini di ville e case padronali Liguri. In genovese, rissëu significa proprio ciottolo, come riportano i vocabolari Genovese-Italiano del Casaccia (1851), il coevo dell’Olivieri e quello del Paga- nini (1857).Quest’ultimo ricorda altresì l’àstrego de rissëu (acciottolato, selciato di ciottoli) e l’azione di astregà de rissëu (acciottolare e selciare con ciottoli). I rissëu sono piccole/grandi opere d’arte spontanea realizzate, in principio, ne- gli angusti accessi e piazzali antistanti le chiese di paese per valorizzarne la poca disponibilità di respiro. Ma che
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sono divenuti in breve tempo un ele- mento decorativo-artistico tradizio- nale che ha caratterizzato i sagrati ed arricchito palazzi e ville signorili, fino a rappresentare una sorta di status symbol. I rissëu sono una delle peculiarità più intriganti e meno note del paesaggio architettonico-storico della Liguria.
Il più occidentale è quello del sagrato della Basilica di San Michele Arcangelo di Mentone. Ma è soprattutto lungo la costa fra Genova e La Spezia, di cui il Golfo del Tigullio costituisce il baricen- tro, che sono massimamente rappresen- tati e significativi. Si incontrano in quasi tutti i borghi liguri dove sono testimo- nianza artistica e di profonda devozione.
Tuttavia, il loro significato va oltre. È ulteriore prova della precisa cognizione e conoscenza di un territorio morfologi- camente aspro e difficile, ma soprattutto delle sue risorse geologiche.
Pensiamo alle estrazioni di radiolariti e selci a radiolari dalla cava di Lagora- ra (Maissana, La Spezia) per produrre cuspidi di freccia (3500-2000 B.C.). Pensiamo alle coltivazioni di solfuri misti nelle miniere di Monte Loreto e Libiola (Età del Bronzo) per estrarre il rame. E pensiamo, infine, all’estrazione dell’ardesia per infiniti usi edilizi (primi fra tutti i tipici tetti) documentata dal Medioevo, ma con riscontri d’impie- go anche nella necropoli preromana di Chiavari (https://www.archeominosa- piens.it/ardesia-tigullio/; https://www. archeominosapiens.it/loro-nero-della- liguria-i-vari-usi-dellardesia/; (Del Sol- dato, 2020).
Ed è significativo che all’esecuzione dei rissëu, dalla raccolta dei ciottoli alla loro posa in opera, partecipasse tutta la comunità parrocchiale che vi si dedicava nei giorni di festa. Solo in seguito questa attività è divenuta patrimonio di arti- giani, decoratori ed artisti rimasti quasi totalmente anonimi.
La ricerca e la scoperta dei rissëu costituisce un viaggio attraverso la Li- guria, soprattutto di Levante, all’in- terno di piccoli borghi, sagrati, palazzi signorili e piazze, seguendo il filo con- duttore rappresentato da questi manu- fatti ornamentali che riflettono più di ogni altro, con i colori e le litologie dei ciottoli impiegati, le variazioni geologi- che dell’ambiente in cui si calano: sarà quindi una sorta di viaggio geologico- artistico.
2 UN VIAGGIO NELLA GEOLOGIA ATTRAVERSO I RISSËU
I ciottoli impiegati nei rissëu prove- nivano essenzialmente da raccolte ese- guite lungo i litorali. Molto occasionale era, al contrario, il prelievo negli alvei.
I litorali assumevano una valenza fondamentale. In questi ambienti la va- rietà litologica dei ciottoli è la più am- pia. Qui l’azione del mare trasporta e deposita elementi litologici provenienti da lontano e non necessariamente pre- senti nei bacini incipienti. Un esempio: la spiaggia di Zoagli è sottesa all’ampio affioramento di calcari grigi del Monte Antola. È del tutto plausibile che sul suo lido si trovi una grande quantità di ciot- toli di tale litologia. Ma guardando bene è facile individuare, in mezzo a quelli, ciottoli di ofioliti, di arenaria, di diaspro, di calcari bianchi, etc. (Fig. 1).
Le litologie ed i colori dei russëu non rispecchiano, quindi, solo le rocce presenti nei bacini idrologici sottesi. Sarà così possibile una coesistenza di rissëu differenti. Nelle aree e sui lidi a maggiore diffusione di ciottoli calcarei, come ad esempio a Camogli, saranno più diffusi rissëu bicromatici (Santa Maria Assunta, Fig. 2). Ma come a Zo- agli vi potranno coesistere rissëu anche con inserti di ciottoli di diaspro (Fig. 3), calcare bianco ed ofioliti seppure tali
Figura 1. La spiaggia ciottolosa di Zoagli (Genova) con presenza massiccia di ciottoli calcarei provenienti dalla Formazione dei Calcari Marnosi di Monte Antola, ma anche con presenze di altre litologie (nel riquadro)
Figura 2. Il rissëu bicromo del sagrato della chiesa di Santa Maria Assunta di Camogli
Figura 3. Particolare del rissëu del sagrato della chiesa di San Martino prevalentemente bianco e nero, ma con modesti inserti rossi vinato in ciottoli di diaspro (nel riquadro)
litologie siano esterne al loro dominio geologico. E senza che tali litologie, al- meno originariamente, siano state im- portate.
Soffermiamoci, ora, sui principali li- totipi che ritroviamo più diffusamente impiegati nei rissëu del Tigullio:
• i diaspri, per i rossi. I diaspri costi-
tuiscono vasti affioramenti nella Val Graveglia e nello spezzino. Come detto hanno cominciato ad essere utilizzati per scheggiare strumenti ed utensili di uso comune (punte di freccia, raschiatoi, etc.) e, dall’Otto- cento, sono stati studiati per sfruttare i giacimenti di manganese che ospi- tano. Nell’impiego per i rissëu è stato fondamentale il loro tipico colore;
• i calcari a Calpionelle, per i bianchi. Questi calcari si trovano limitata- mente all’Alta Val Graveglia ed altri sparuti piccoli affioramenti. Ma sui litorali sono reperibili in notevole quantità vicariati da ciottoli di altri calcari (anche metamorfosati) prove- nienti dallo spezzino o da ciottoli di marmo apuano, di analoga tonalità;
• i calcari marnosi di Monte Antola, per vari toni di grigio. Questi cal- cari grigi sono diffusi da Chiavari a Genova con un vasto affioramento lungo la costa. È evidente quale sia stata la diffusione dei ciottoli grigi, nonché della loro raccolta ed impie- go. Tuttavia potevano essere anche surrogati con gli strati grigio-chiari delle Argille a Palombini della Val Graveglia o del Bracco e da altri cal- cari spezzini;
• le ofioliti, ed in modo particolare le lherzoliti, per i verdi scuri-nerastri e, più occasionalmente, per i verdi chiari. Queste litologie sono molto diffuse nell’entroterra del Tigullio e dal Bracco allo Spezzino. Pertanto, i loro ciottoli divengono via via più rari procedendo da Rapallo verso Genova;
• i gabbri o ancora i diaspri, per i verdi chiaro. Per i diaspri verdi gli affioramenti sono molto limita- ti (ed i ciottoli quindi occasionali). Più facilmente si possono reperire ciottoli di gabbro provenienti dagli affioramenti della Val Graveglia e del Bracco. Ma il loro impiego nei russëu è stato molto occasionale.
3 LA REALIZZAZIONE DEI RISSËU
La realizzazione dei rissëu avviene ancora oggi seguendo le stesse meto- diche storiche. Unica differenza è la raccolta dei ciottoli che, sul demanio, è vietata per legge.
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Figura 4. Particolare del cinquecentesco rissëu del sagra- to della chiesa di Santa Maria degli Incrociati (borgo di San Vincenzo di Genova), oggi conservato nell’ all’Ar- cheoMetro della stazione Metropolitana di Genova Brignole
Sia la realizzazione dei nuovi rissëu che il restauro di quelli storici è opera di pochissimi abili artigiani.
La creazione del nuovo tappeto di ciottoli è sempre iniziata con la defi- nizione del disegno che rappresenterà il motivo ornamentale dominante. Si tratta di motivi geometrici, della classi- ca rosa dei venti, di ancore e bastimen- ti, di trigrammi ed immagini sacre, di animali, di intrecci di fiori e racemi, di arabeschi, etc., spesso associati fra di lo- ro in composizioni complesse.
Il passo successivo era la ricerca e la raccolta della materia prima: i ciottoli. Da questo momento era coinvolta tutta la comunità che avrebbe poi usufruito del sagrato o dello spazio comune decorato.
Nella cultura materiale sono ricor- dati diversi esempi di raccolte collettive. Ad esempio, furono le contadine che scendevano dalle alture di Genova per recarsi ai mercati delle località costiere a raccogliere i ciottoli per il rissëu del Santuario di Apparizione (alle spalle di Genova Quarto). Oppure il sagrato della chiesa di Sant’Anna di Piazza (La Spezia) è stato realizzato nel 1869 con i ciottoli raccolti sulla spiaggia di Deiva Marina dai residenti nella frazione che lavoravano come operai alla costruzio- ne della prima linea ferroviaria ligure
(Genova-La Spezia).
Le fasi di posa dei rissëu prevedevano
(e prevedono ancora oggi) diverse fasi operative:
a. la predisposizione di un sottofondo in
malta di calce e sabbia (secondo alcuni
artigiani anche polvere di porcellana);
b. l’inserimento dei ciottoli che costi- tuivano i perimetri delle varie figure
del tappeto;
c. l’eventuale debole rettifica del lato
dei ciottoli che andava interrato;
d. l’inserimento degli elementi interni alle figure. Questo avveniva appres- sando i ciottoli uno all’altro in ma-
niera molto serrata.
La posa di ogni ciottolo rivestiva un’importanza fondamentale. Ciascuno era battuto con mazzette di legno al fine di assicurare reciproci e precisi rapporti di coerenza a garanzia della stabilità glo- bale del disegno. La coerenza dei singoli elementi era poi incrementata saturan- do gli interstizi con sabbia fine. Veniva così assicurata anche, e soprattutto, la capacità drenante della superficie rico- perta dal mosaico in ciottoli.
La posa in opera di singoli ciottoli, in relazione ed in rapporto agli altri, era il momento più delicato di tutto il proces- so. Da essa dipendeva la durata, la con- servazione e la funzionalità del rissêu.
Dalla sequenza delle fasi di posa emergono chiaramente un paio di ca- ratteristiche fondamentali dei rissëu: la capacità drenante del tappeto, ma anche una sua certa, contestuale, blanda, fun- zione consolidante.
Un riscontro storico della seconda metà dell’Ottocento richiama proprio queste caratteristiche all’origine dello stanziamento economico per la rea- lizzazione di uno dei più bei rissëu del levante ligure: quello della chiesa di Santa Maria Assunta di Missano, pic- cola frazione del comune di Castiglione Chiavarese (Genova).
La Fabbriceria di Castiglione Chia- varese motivava così la proposta di rea- lizzazione del rissëu: …fatta la proposta che la chiesa non può mantenersi in stato decente, se non si procede alla formazione di un lastricato di ciottoli in tutto il piaz- zale, tanto più che nella stagione invernale il detto piazzale è tutto ingombro di fango e in estate ripieno di polvere che s’intro-
duce in chiesa … viene approvata a pieni voti… (da una delibera della Fabbriceria del 1868).
4.I RISSËU STORICI
L’uso dei mosaici di ciottoli si sarebbe diffuso in Liguria dal XVI-XVII secolo. Uno dei più antichi rissêu, cinquecente- sco, è emerso da recenti scavi eseguiti al- le spalle della stazione ferroviaria di Ge- nova Porta Brignole, in corrispondenza della Chiesa degli Incrociati. L’edificio si poneva su una importante via di pe- netrazione proveniente da levante, che ricalcava un tracciato di epoca romana ripreso dalla viabilità medievale (Melli e Strano, 2010-2011).
Gli Incrociati erano …un antico istituto di spedalieri, così detto dalla croce che i frati portavano sulla veste. Stavano in Genova vicino al ponte di S. Agata nel borgo … di S. Vincenzo… (Casalis, 1840).
Le …operazioni di scavo condotte in Piazza Verdi hanno portato all ’individua- zione di un complesso di vani connessi ad una rampa e ad un piazzale pavimentato con ciottoli a mosaico bianchi e neri (con teorie di pesci), riferibili all ’impianto cin- quecentesco del sagrato della chiesa di San- ta Maria degli Incrociati (datazioni delle malte e dei mattoni 1580/1630 d.C.). Tale chiesa faceva parte del complesso monasti- co dei Canonici Regolari di Santa Croce o Crociferi, sorto nel 1191 nei pressi del Pon- te di Sant’Agata e destinato all’assistenza agli infermi ed ai poveri. Il complesso si è sviluppato tra alterne vicende e cambi di proprietà tra il 1191 ed il 1750, anno della più imponente ricostruzione proprio ad opera dell’ordine dei Crociferi, anche se
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Figura 5. Particolare del famoso rissëu del giardino di Palazzo reale di Genova
è del 1776 la notizia della sua vendita e della trasformazione della chiesa in par- rocchia. Modificato più volte in funzione delle necessità della ferrovia, il complesso è stato demolito definitivamente nel 1939… (Sanna, 2016).
…La pavimentazione a mosaico (rissëu) in ciottoli fluviali o marini bianchi e neri messa in luce nello scavo presenta un motivo a settori con pesci disposti a spirale nella parte centrale e nelle parti laterali un motivo a lisca di pesce, esclusivamente in ciottoli verso monte e in ciottoli e mattoni centrali nella parte più a valle. Le analisi mensiocronologiche dei mattoni impiegati in quest’ultima decorazione indicano due date differenti: la prima, tra il 1580 e il 1630, pare attribuibile alla posa del mosai- co, mentre la seconda (fine del XVIII secolo) può riferirsi ad un intervento di restauro.
Un inquadramento cronologico nella metà del Cinquecento, compatibile con le notizie storiche dei restauri della chiesa, è confortato dal confronto con altri lacer- ti di mosaici in ciottoli, realizzati con la stessa tecnica, documentati in occasione di indagini archeologiche nel Palazzo Fieschi a Carignano, nel Palazzo del Principe Doria e nel Chiostro del monastero di San Silvestro …, primi esempi di una moda che ebbe grande diffusione nei secoli successi- vi… (Melli e Strano, 2010-2011).
Il rissëu è stato asportato dalla sede originale, nella sua porzione meglio con- servata, per essere ricollocato nell’area destinata all’ArcheoMetro della stazio- ne Metropolitana di Brignole (Fig. 4).
Uno dei rissëu più belli, famosi e vi- sitati è sicuramente quello del distrutto monastero delle Monache Turchine di Genova, ricostruito da Amedeo Porta nel Giardino Pensile di Palazzo Reale di Genova (Fig. 5) una sessantina di anni fa e recentemente restaurato.
È forse il tappeto di ciottoli che pre- senta il disegno più vario e complesso, costituito da una serie di rappresenta- zioni di animali, paesaggi, scene quo- tidiane, mestieri nonché scene e figure mitologiche. Quello che colpisce, oltre alla sua complessità, è la bitonalità ge- nerale del disegno, solo occasionalmen- te interrotta da piccoli intarsi di colore diverso.
Fra le originalità storiche che ri- guardano i rissëu è anche una scena del film Il ribelle d’Irlanda, interpretato da Rock Hudson nel 1955. Il film, tratto dal romanzo Captain Lightfoot di W.R. Burnet, è un’avventura a sfondo roman- tico che si svolge nell’Irlanda del 1815. Ebbene, in una scena del film, girato proprio in Irlanda, compare un tipico rissëu ligure, alle spalle del protagonista.
Bisogna ricordare che alcune scene del film sono state girate nel Power- scourt Estate a Enniskerry, palazzo co- struito nel 1740 per volere del visconte di Powerscourt, Richard Wingfield, discendente di Sir Richard Wingfield, e membro dell’Ascendente protestante dell’epoca.
La dimora è famosa soprattutto per i magnifici giardini, tra i più grandi d’Eu- ropa (20 ettari dei 400 ettari di bosco che la circondano). Qui sequoie giganti e castagni nani convivono con cespugli di azalee, magnolie e rododendri.
L’edificio fu progettato dall’archi- tetto tedesco Richard Cassels, ma Lord Powerscourt volle rappresentarvi le bellezze e le originalità che lo avevano colpito nelle sue frequenti visite alle più importanti dimore signorili europee. Così dai ricordi riportati in patria trasse ispirazione per abbellire i giardini della tenuta con riproduzioni artistiche pro- venienti da tutta Europa.
La fontana al centro dello scenico Lago di Tritone, ad esempio, fu ispirata alla fontana di Piazza Barberini a Roma, lo stile della grande terrazza in pietra davanti a Powerscourt House richiama- va chiaramente Villa Butera in Sicilia e le ripide scalinate si rifacevano alle crëuse di Genova e di altri tipici borghi italiani.
Ma furono i pavimenti a rissëu disposti sugli ampi ballatoi e sulle ampie scalinate a caratterizzare e cristallizzare definiti- vamente i ricordi di Richard Wingfield come dimostra la scena del film.
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I paesaggi “invisibili” dipinti. Beni geo-artistici
da valorizzare ai fini geoturistici all’interno
del geoparco delle Madonie (Sicilia, Italy)
The “invisible” painted landscapes. Geo-artistic goods to be enhanced for geoturistic purposes inside
the geopark of Madonie (Sicily, Italy)
Parole chiave: Geoparco delle Madonie, cacciatore di paesaggi, dipinto di paesaggio, geoturismo
Key words: Geopark of Madonie, landscapes busting, landscapes painting, geotourism
Roberto Franco
Geologo, scrittore e divulgatore scientifico, Gangi (PA)
E-mail: robertofranco3@virgilio.it
1. INTRODUZIONE
Nella ideazione e nella costituzione dei parchi naturali in Italia si è spesso se- gnato un limite, cioè quello di intendere la tutela dell’ambiente e della natura co- me obiettivo ultimo di un progetto, tra- scurando gli uomini che vivono in quelle realtà e che attraverso la loro assunzione di responsabilità (sia pure senza render- sene conto) le hanno salvaguardate per secoli.
Gli aspetti umani, culturali e sociali, sono stati presi in carico molto raramen- te e solo se rinviano al folklore, utilizza- bili per la bellezza delle immagini o per la ricchezza dei colori. Non v’è chi non veda quali distorsioni conoscitive e ope- rative abbia generato spesso un simile modo di procedere. Per questo motivo si vuole invertire l’orientamento prevalen- te, cominciando perciò col focalizzare l’attenzione proprio su quegli uomini (in questo caso pittori) e sulle loro opere (d’arte) che ci hanno lasciato nei secoli e che hanno saputo comunicare e valo- rizzare la dimensione-paesaggio in tutta la sua complessa ricchezza, trasmetten- do all’osservatore, magari parzialmente, l’emozione di quel paesaggio, che sarà stato con molta probabilità quello “ap- partenuto” all’artista stesso.
Qualunque cosa il concetto di pa- esaggio sia divenuto, è difficile negare che esso abbia preso forma proprio co- me concetto estetico e la storia stessa della parola sta a dimostrarlo. In parti- colare, nelle lingue neolatine, i termini che significano “paesaggio” sono tutti neologismi che appaiono tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cin- quecento, per indicare non il paesaggio
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reale, ma la sua rappresentazione, il co- siddetto “dipinto di paesaggio”.
Il termine paesaggio, in riferimento a ciò che veniva raffigurato nelle opere d’arte, compare per la prima volta intor- no al 1530, ne La Tempesta di Giorgione, descritta come un “paesetto” su tela.
Conditio sine qua non per poter par- lare di “pittura di paesaggio”è considera- re quest’ultima come “tema autonomo”, in grado, cioè, di suscitare un’emozione estetica senza dover necessariamente fungere da sfondo ad un’azione dell’uo- mo. Quest’ultimo si propone il compito di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, regni, montagne, baie, navi, isole, pesci, abitazioni, strumenti, astri, cavalli e persone. Poco prima di mori- re, scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine di un volto (Borges, 1982).
È molto interessante indagare il “dipinto di paesaggio”, riconoscere ad esempio gli elementi geologici, idro- logici e botanici; essi possono infatti contenere informazioni incredibilmen- te precise di carattere geomorfologico e paleo-ambientale utili a ricostruire il paesaggio com’era all’epoca, possibil- mente differente dal nostro, e a capire come si sia modificato nel tempo; altre volte gli elementi naturali sono ricono- scibili come creazioni della fantasia.
Grazie a questo tipo di lettura, i pae- saggi di artisti celebri come il Perugino, Piero della Francesca, Giotto, Leonardo, Raffaello e tant’altri non sono semplici “riempitivi”, tantomeno paesaggi in cui la fantasia si è scatenata tentando la via di possibili interpretazioni simbolico-
allegoriche, ma vere e proprie “fotogra- fie” del reale, ovvero ciò che gli occhi del pittore videro nel corso della propria esi- stenza (Vai, 2009). D’altra parte perché dover inventare un paesaggio, quando era disponibile sotto gli occhi di tutti e perlopiù anche stupefacente nella sua estrema varietà e bellezza?
Sulla scia di tale considerazione, si è affermata, da qualche tempo, una nuova scienza: il landscape busting che rappre- senta l’avanguardia in fatto di cultura, diventando anello di congiunzione tra varie discipline scientifiche e umanisti- co-artistiche.
A tale disciplina si sono approcciati gli studiosi di paesaggi che hanno avuto il merito di rintracciare scientificamente i “paesaggi invisibili”di Piero della Fran- cesca nel territorio di Montefeltro, fra le Marche e la Romagna (Borchia & Nesci, 2008), i luoghi dietro la celebre Gioconda di Leonardo da Vinci, sempre nell’alta Valmarecchia (Borchia & Nesci, 2012), i paesaggi che fanno da sfondo e incorni- ciano quindici opere immortali di Raf- faello Sanzio (Borchia & Nesci, 2020), il paesaggio della celebre Crocifissione di Antonello da Messina, custodita ad An- versa, sfondo riconosciuto nello stretto di Messina visto dalle colline dell’anti- co casale di Camaro (Villari & Villari, 2011). Da parte di chi scrive sono stati indagati i paesaggi raffigurati nei dipinti di pittori che si sono ispirati ai panorami madoniti (Franco, 2016; 2018).
La scoperta rappresenta una rivolu- zione senza precedenti nella modalità di approccio al paesaggio: non solo un pia- cere per gli occhi, ma un approccio “alto” per lo studio delle opere d’arte.
Nell’ambito di questo approccio cul- turale-scientifico, innovativo e trasver- sale, nella lettura del paesaggio naturale che vuole collocarsi il presente contribu- to il quale, peraltro, non è altro che una sintesi di un più vasto e approfondito lavoro scientifico a cui lo scrivente sta lavorando da tempo. In esso emerge, in tutta la sua singolare poliedricità, il confronto tra le discipline scientifiche, strettamente riservate agli addetti ai lavori, e le discipline umanistiche, ca- ratterizzate da una procedura analitica aperta all’integrazione con altri aspetti culturali apparentemente distanti. Si è fermamente convinti che la sinergia tra geologia, geomorfologia e arte, sia forie- ra di sorprendenti risultati nella ricerca, nella comunicazione scientifica e nella fruizione delle opere d’arte.
Il luogo delle nostre osservazioni è il territorio montuoso delle Madonie il quale rappresenta anche una delle prin- cipali emergenze naturali della Sicilia e per la sua tutela e valorizzazione la Re- gione Siciliana, nel 1989, ha istituito il Parco delle Madonie. Se certamente le Madonie rappresentano un’area di ecce- zionale interesse botanico e zoologico, esse costituiscono una zona di enorme importanza anche dal punto di vista geo- logico, tanto che, nel 2001, è entrato a far parte dell’European Geoparks Network (EGN), nonché nella Rete Globale dei Geoparchi dell’United Nations Educa- tional, Scientific and Cultural Organi- zation (UNESCO), nel 2004. Esso si estende su una delle zone della Sicilia dove maggiore si avverte l’esigenza di tu- telare i segni e le testimonianze, disporli in vista di una fruizione consapevole, che non sia quella del veloce turista “mordi e fuggi”, ma del visitatore attento, paziente e soprattutto sensibile alla “cultura della montagna”. Infatti si è convinti che la sinergia tra geologia, geomorfologia, arte e turismo, può essere foriera di sorpren- denti risultati nella ricerca, nella comu- nicazione scientifica e nella fruizione en plein air delle opere d’arte.
Inoltre tale particolare lettura del- le opere d’arte di questi (ma anche di tant’altri) pittori è molto stimolante sotto il profilo scientifico e consente di fare interessanti osservazioni sull’evo- luzione dei processi e delle forme, re- alizzatesi nel periodo storico intercorso tra quello contemporaneo agli artisti e quello attuale.
Con questo presupposto si inserisce, quindi, nell’ambito delle Scienze della Terra (un piccolo tassello di uno ben più ampio contenuto nella Geologia Cul- turale, per usare il nome coniugato da
Panizza & Piacente, 2014) l’interpre- tazione interdisciplinare nella fruizione delle opere d’arte (Gregori et alii, 2004) e degli elementi utilizzati dagli artisti per caratterizzarne gli ambienti natu- rali, con un approccio culturalmente trasversale.
2. INQUADRAMENTO GEOLOGICO GENERALE
Il massiccio delle Madonie costitu- isce il secondo gruppo montuoso del- la Sicilia, dopo il complesso vulcanico dell’Etna, per altitudine ed estensione territoriale. Per questo, ma anche per il suo fascino e la ricchezza culturale, le Madonie sono state battezzate le “Do- lomiti di Sicilia”. Si può affermare che nell’area del Parco e nelle sue immediate vicinanze sono presenti tutti gli aspetti della geologia della Sicilia, eccezion fatta per il vulcanesimo attivo. Un’area, quindi, estremamente significativa per lo studio della geologia siciliana che ha rappre- sentato, e continua a rappresentare, una “palestra” didattica per generazioni di geologi, studiosi e studenti universitari di scienze geologiche e naturali di tutto il mondo. Gli aspetti geologici del territo- rio attraggono e stimolano anche la cu- riosità e la fantasia di visitatori non par- ticolarmente esperti nelle Scienze della Terra, che tuttavia rimangono estasiati dinnanzi alla bellezza dei paesaggi che si susseguono dalle pendici dei monti fino alle aree sommitali, sempre differenti e affascinanti, alle strane forme dei fos- sili contenuti nelle rocce madonite, che evocano mondi sconosciuti e scomparsi, alla dolce frescura che emanano le acque sgorganti dalle numerose sorgenti dis- seminate nel massiccio, al mistero delle tante grotte che sono porte di accesso ai mondi sotterranei ignoti.
La storia geologica delle Madonie è molto articolata e si inquadra nelle an- cora più complesse vicende geologiche della Sicilia. L’area compresa in questo territorio rappresenta un segmento dell’e- dificio strutturale che fa parte della por- zionesicilianadellaCatenaAppenninica, la quale si estesa per tutta la lunghezza dellapenisolaitaliana,attraversailsettore settentrionale della Sicilia sino ad arriva- re sulla costa nordafricana (le cosiddet- te Maghrebidi tunisine) (Malinverno & Ryan, 1986; Rehault et alii, 1987). Il segmento della catena settentrionale sici- liana è formato da numerosi corpi geolo- gici caratterizzati da elementi geometrici estesi ma poco spessi, disposti a formare un complesso di unità embriciate costi- tuite da rocce mesozoiche, carbonatiche e silicee (Abate & Ferruzza, 2004).
L’evoluzione paleogeografica della Sicilia occidentale inizia con lo stadio di spaccatura continentale (rifting) che a partire dal Trias medio determina la formazione di un bacino (quello di Ler- cara) in cui si sviluppa una sedimenta- zione terrigena e clastico-carbonatica. Il Bacino di Lercara era un bacino a ca- rattere euxinico circondato più o meno totalmente da formazioni di scogliera (Piattaforma Carbonatica Panormide e Piattaforma Carbonatica Saccense). Successivamente esso evolse e si di- vise in un Bacino Imerese a nord e in un Bacino Sicano a sud separati da un promontorio (Piattaforma Carbonatica Trapanese). Sia il Bacino Imerese che il Bacino Sicano sono caratterizzati da una sedimentazione prevalentemente pelagica (Catalano & D’Argenio, 1978, 1982; Catalano et alii, 1996; Nigro & Renda, 1999).
Questi domini sono rappresentati da piattaforme carbonatiche e da baci- ni pelagici che per tutto il Mesozoico hanno caratterizzato il margine conti- nentale africano in relazione allo svi- luppo della Tetide. Alla fase di rifting seguì una fase di chiusura oceanica che ebbe come conseguenza la perdita della individualità delle unità paleogeografi- che prima descritte e che culminò con la fase di collisione continentale. I grandi processi di deformazione che condusse- ro alla collisione continentale risultano evidenti nella Sicilia occidentale solo a partire dal Miocene inferiore (Catalano & D’Argenio, 1978, 1982).
Nei domini Saccense, Sicano e Trapanese si trovano depositi da cal- carenitici a marnosi, invece nei domini Imeresi e in quelli Panormidi sono pre- dominanti depositi terrigeni, noti col nome di Flysch Numidico. All’inizio del Miocene si svilupparono i primi ac- cavallamenti con la deformazione della Piattaforma Carbonatica Panormide, e poi del Bacino Imerese, in diverse unità stratigrafico-strutturali (U.S.S.), che si sovrapposero ai domini Trapanesi. Nel Tortonianoilprocessodideformazionee corrugamento raggiunse anche i domini Trapanesichesiaccavallaronosuquelli Sicani, mentre ad est, furono i domini Imeresi ad accavallarsi direttamente su quelli Sicani (Catalano & D’Argenio, 1978, 1982; Nigro & Renda, 1999).
Da questo momento si ebbero chiare evidenze di sollevamenti con la forma- zione di grandi accumuli di sedimenti clastici anche grossolani (formazione Terravecchia) che si depositarono sul fronte di sistemi fluvio-deltizi (Schmidt di Friedberg, 1962; Ruggieri & Torre,
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1989), mentre ai margini di queste zone si sviluppò una sedimentazione carbo- natica di piattaforma (con scogliere co- ralline marginali) e poi anche evapori- tica (Messiniano) (Ogniben, 1957; Selli, 1960; Decima & Wezel, 1971).
Dal Messiniano al Pliocene medio- inferiore, nuove deformazioni si verifi- carono nella Sicilia occidentale interes- sando i domini Sicani esterni e quelli Saccensi.
Dai vari domini individuatisi du- rante le fasi di distensione presero origine una serie di unità stratigrafico- strutturali (U.S.S.), termine col quale si intendono «corpi geologici non neces- sariamente sradicati dal loro basamento, che mostrano in generale omogeneità di caratteri stratigrafici, di litofacies e di comportamento tettonico e derivano da preesistenti unità paleogeografiche» (Catalano & D’Argenio, 1982).
Nel quadro delle attuali conoscen- ze l’assetto strutturale delle Madonie (Fig. 1), che ha avuto una storia lunga 20 milioni di anni, è definito dalla sovrap- posizione delle Unità Sicilidi su quelle
Panormidi e di quest’ultime sulle Unità Imeresi. Questo assetto, raggiunto alla fine del Miocene, venne profondamente modificato da una fase tettonica riferi- bile al Pliocene superiore che determinò nuovi rapporti tra le unità stesse e nuove superfici di sovrascorrimento (Abate et alii, 1991).
Le Unità Tettoniche Panormidi fan- no riferimento al massiccio carbonatico costituito da durissimo calcare coralli- fero, in cui svettano Pizzo Carbonara, Pizzo Antenna o della Principessa, Piz- zo Palermo e Monte Ferro. Si tratta di un ampio altopiano carsico che domina il nucleo centrale delle Madonie; è al- quanto ricco di doline, ciascuna estesa qualche centinaio di metri e profonda circa venticinque. L’area è articolata in un ricco sistema di circolazione idrica sotterranea, caratterizzata da inghiotti- toi e grotte di notevole valenza natura- listica e scientifica. La parte sottostante del complesso carbonatico è dominata da dolomie; essa interessa le stesse ci- me di Monte Mùfara e Monte Qua- cella, estendentesi a sud fino al Vallone
Madonna degli Angeli e verso nord fin quasi alla costa.
L e U n i t à Te t t o n i c h e I m e r e s i , a n c h ’e s – se di natura carbonatica interessano i ri- lievi del settore occidentale posti ad ovest di Portella Colla e Piano Zucchi, culmi- nanti nel complesso del Monte dei Cervi.
Le Unità del Flysch Numidico sono costituite da depositi clastici del Mioce- ne inferiore, sovrapposti in discordanza sulle rocce dei domini Panormide e Ime- rese. Si tratta di terreni siliceo-argillosi, formatisi all’interno del cosiddetto “Ba- cino Numidico”, ambiente marino costi- tuitosi circa 24 milioni di anni fa, a segui- to dello stadio di collisione continentale, costituendo un’avanfossa, quale zona di accumulo di materiale originato dallo smantellamento di una catena montuo- sa che si andava formando e sollevando (Pescatore et alii, 1987). Tali substrati interessano principalmente il settore nordorientale del territorio madonita.
3. I PAESAGGI “INVISIBILI” DIPINTI
I dipinti che in questa sede desidero attenzionare sono tre: il Giudizio Uni- versale di Giuseppe Salerno, custodito nella Chiesa Madre di Gangi, il San Francesco riceve le stimmate, sempre di Salerno, custodito nella Chiesa di San Francesco di Petralia Sottana, e il famoso Trittico fiammingo di Polizzi Generosa.
Giuseppe Salerno è stato sicuramen- te uno degli artisti che più ha rappresen- tato il paesaggio siciliano. Egli riuscì ad occupare una posizione tutt’altro che secondaria nel panorama pittorico della fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, firmandosi ora con il proprio nome, ora con lo pseudonimo “Zoppo di Gangi”, riuscendo ad alimentare la cultura isola- na con un linguaggio stilistico ricordato come la “maniera dello Zoppo” o, come lo hanno definito esperti e critici d’arte, una sorta di «Zoppo di Gangi metho- dus» (Aa.Vv., 1997). Una prima consi- derazione acquisita dall’analisi dei pae- saggi del pittore (considerazione forse banale, ma sicuramente non scontata) è che egli amava spostarsi in continuazio- ne nei luoghi delle sue committenze, in compagnia del suo taccuino su cui ab- bozzava le vedute che lo emozionavano e che decideva poi di fissare nei suoi di- pinti, come a voler lasciare in eredità ai posteri anche il concetto di territorialità.
Il Giudizio Universale si può consi- derare il suo capolavoro, se non altro per la complessità iconografica e iconologi- ca. Il pittore lavorò alla grande tela nel 1629, in piena maturità artistica. In que- gli anni, egli era certamente colui che
Figura 1. Schema geologico-strutturale del gruppo montuoso delle Madonie (da Abate & Ferruzza, 2004). Legenda: 1) Depositi quaternari; 2) Depositi terrigeni post e sin tettonici, rocce evaporitiche e carbonatiche; 3) Unità Tettoniche “Sicilidi” caratterizzate da Argille Varicolori e calcari marnosi; 4) Unità del Flysch Numidico costituite da depositi clastici del Miocene inferiore; 5) Unità Tettoniche Panormidi; 6) Unità Tettoniche Imeresi; 7) Contatti tettonici
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Figura 2. (a) Giuseppe Salerno, Giudizio Universale, part., Chiesa Madre di Gangi, 1629; (b) Confronto tra il particolare del Giudizio Universale e la contrada Re- giovanni, nel territorio di Gangi; (c) Particolare del costone roccioso dipinto nel Giudizio Universale; (d) Confronto fra il costone roccioso raffigurato nel dipinto e quello realmente presente in contrada Regiovanni
“tenea lo campo” nell’intero territorio madonita (Aa.Vv., 1997).
Nella tela, è proprio lo skyline di un paesaggio che fa da spartiacque tra il re- gistro superiore (sfera celeste) e quello inferiore (sfera terrestre) (Fig. 2a). Il pa- esaggio raffigurato è alquanto comples- so; esso, a destra di chi osserva, è costi- tuito da una chiostra di rocce spaccate e
fumanti, al modo di Hieronymus Bosch, che soffoca il campo del Tartaro, mentre a sinistra si apre verso un ambiente più dolce e collinare (Valenziano, 2009).
La Fig. 2b, mostra inequivocabilmen- te che il paesaggio raffigurato non è in- ventato ma Giuseppe Salerno, come arti- sta e produttore, ha avuto l’ispirazione di ritrarlo in contrada Regiovanni, nel terri-
torio di Gangi, località nota sin dall’epo- ca preistorica e soprattutto dal Medioevo per la presenza del castrum di Rahal Io- hannis, che impose il nome alla contrada.
Le imponenti creste rocciose (cono- sciute localmente come a rocca di Ra- giuvanni) non sono altro che le quar- zareniti del Flysch Numidico dell’Unità tettonica di Monte Salici. Esse sono di
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colore bruno-giallastre a grana fine, struttura massiva, e si presentano in po- tenti bancate che s’innalzano per più di venti metri. Con un’inclinazione quasi verticale, le quarzareniti sono appoggia- te sulle argille bruno-tabacco apparte- nenti sempre alla stessa Unità tettonica. Il paesaggio di sinistra, quello più colli- nare (da cui risorgono i morti) è costitu- ito, in primo piano, dalle argille bruno- tabacco, mentre in secondo piano dalle oligoceniche Argille Varicolori. Il netto passaggio dal colore bruno a quello ver- de è molto indicativo nel sottolineare il contatto fra i due litotipi che, nella real- tà, avviene tettonicamente tramite una faglia inversa che porta ad affiorare in superficie le argille dell’Oligocene (Bar- reca, 2007). Infine, sullo sfondo si sta- gliano i profili dell’altopiano La Rupe e il monte su cui sorge l’abitato di San Mauro Castelverde (Franco, 2016).
Interessante nel dipinto (sotto l’ar- cangelo Michele pronto a difendere con la sua spada la schiera di beati diretta verso la porta del paradiso) è un costo- ne roccioso, costituito dalle quarzareniti del Flysch Numidico (Fig. 2c). Anche questo elemento non è inventato, ma ri- prodotto fedelmente dalla realtà; infatti, sempre nella zona di Regiovanni è pre- sente un ripido rilievo isolato che emer- ge dalle argille bruno-tabacco (Fig. 2d). Dal confronto del dipinto e della foto- grafia si osserva sia come la morfologia è molto simile, sia come le faglie presenti nell’affioramento (linee tratteggiate) so- no ben visibili (Franco 2016).
Nel 1624 Giuseppe Salerno firma la tela San Francesco riceve le stimmate di Petralia Sottana, la quale si inserisce a pieno titolo nel “ciclo francescano” del- le riproduzioni pittoriche dell’artista. In particolare, nel lato destro del dipinto
(Fig. 3a), è possibile ammirare un pa- esaggio su cui si notano alcune picco- le figure di frati che si dirigono verso una chiesetta con annesso convento. Lo spaccato di paesaggio è riconducibile al luogo chiamato localmente u vazu di Santu Tieri. La roccia spicca al centro di un paesaggio affascinante, sia per la par- ticolare morfologia sia per le tipologie di rocce che la costituiscono; infatti, il cor- po centrale del Pizzo, è costruito da lito- logie calcareo-dolomitiche in contatto tettonico sia con le sovrastanti calcilutiti triassiche fossilifere, che ne realizzano il “cappello”, sia con i sottostanti depositi numidici (Torre, 2014). Cozzo Sant’O- tiero, che sembra un dente biancastro che esce fuori da un substrato argilloso numidico, in passato, per secoli, fu uti- lizzato come cava di roccia pregiata.
Superiormente a Cozzo Sant’Otie- ro vi sono le propaggini meridionali di monte San Salvatore tra cui spicca Pizzo dell’Inferno. Sulla destra è riconoscibile Cozzo Lampo, mentre in primo piano (dove è dipinto il conventino) è la zona flyschioide di San Miceli.
L’artista, per rappresentare questo esteso territorio (Fig. 3b) nel piccolo spazio della tela, ha utilizzato la tecnica della compressione. Ciò significa che, sulla base di differenti calcoli sugli inter- valli di distanza, di quota, di dimensione, il risultato ottenuto è uno scenario leg- germente differente dall’originale. Ciò si nota particolarmente nella zona di San Miceli in cui i dislivelli di quota, rispetto all’originale, risultano più esasperati.
L’ultima osservazione di questo contributo riguarda il grande Trittico fiammingo di Polizzi Generosa (Fig. 4). L’opera, definita «di cossì bella sottile artificiosa, et meravigliosa fattura, che par non da mani humane ma angeliche
depinto» (Mistretta, XVIII secolo), è senza dubbio il capolavoro di un artista fiammingo. Inizialmente indicato come “Maestro dei fogliami ricamati”, pittore attivo nel XV secolo, le tradizionali attri- buzioni dell’opera polizzana – a parte le più antiche e remote a Dürer o allo stesso Van Eych – hanno sempre oscillato fra Memling, Hugo Van der Goes e Van der Weyden (De Michele, 1852; Borge- se, 1878; Gabrici, 1924-1925; Abbate, 1997; Schimmenti & Valenziano 2001).
Un mistero avvolge la storia di que- sto capolavoro quasi dimenticato, quasi invisibile. Si tramanda il suo fortunoso e rocambolesco arrivo a Polizzi e poco o nulla è servita quell’iscrizione in bas- so Lucas Jardinus optulit gratis Deo, che peraltro è sicuramente posticcia, e quin- di non di mano del pittore fiammingo. Stando a quanto attestano le fonti sei- settecentesche sulla scia di un mano- scritto perduto, Luca Giardino sarebbe stato il capitano di nave che, scampato alla tempesta e volendo sciogliere il voto fatto nel momento del pericolo, conse- gna l’importantissima opera che aveva con sé al primo fraticello incontrato al suo approdo a Palermo e da costui portata subito a Polizzi con una serie di ulteriori vicissitudini (Borgese, 1878; Anselmo, 1993; Abbate, 1997).
A parte le dimensioni, davvero sor- prendenti, l’opera conferma che agli ini- zi del Cinquecento, anche in Sicilia e sulle Madonie, ci fu la predilezione tutta particolare per la pittura fiamminga da parte di ambienti nobili, di corte ed ec- clesiastici.
L’esecuzione dell’opera è accuratissi- ma, dipinta nei minimi particolari; sono resi con maestria i ricami delle vesti, gli intagli del trono, le gemme incastonate, la flora, persino il cartiglio con la no-
Figura 3. (a) Giuseppe Salerno, San Francesco riceve le stimmate, part., Chiesa di San Francesco di Petralia Sottana, 1624; (b) Confronto tra il particolare del San Francesco riceve le stimmate e il territorio di Petralia Sottana
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Figura 4. Rogier van der Weiden (attribuito), Trittico f iammingo, XV secolo (Ph. Antonio Schimmenti)
la vita quotidiana. I pittori fiamminghi mostrarono un interesse sempre più marcato verso la realtà e la rappresen- tazione naturalistica.
Anche il Quattrocento fiammingo, dunque, può considerarsi un punto di riferimento culturale per tutta l’Europa dell’epoca. Inoltre, la peculiare e fausta posizione geografica delle maggiori cit- tà fiamminghe stimolò il commercio di transito, che richiedeva una pronta disponibilità finanziaria. A queste ri- chieste di liquidità provvedevano molte banche, anche straniere, tra cui numero- se italiane, che spesso aprivano proprie filiali sostenendo attività economiche fiorenti e i traffici sempre più usuali con tutta Europa. Questo portò a imple- mentare notevolmente i viaggi sì d’af- fari ma anche di studio, lavoro e diletto. Commercianti, banchieri, diplomatici ma anche cartografi, scienziati, maestri in ogni arte cominciarono a spostarsi da un territorio all’altro.
È quindi assai probabile che grandi pittori si spingessero fino nell’interno della nostra Isola e qui accettarono committenze e lasciarono opere di grandiosa perfezione, e a far ad esse da sfondo meticolosi e chiarissimi paesaggi legati ad emozioni talmente intense da voler essere cristallizzate in un dipinto ad eterna memoria di quel dolce turba- mento che attraversò l’anima dell’uomo e giunse alla maestria del pittore. A tale ipotesi potrebbe essere ricondotto il mi- rabile Trittico di Polizzi Generosa con il suo monte San Calogero all’orizzonte, di là da ogni leggenda o ricostruzione, dipinto in loco da un artista fiammingo giunto nell’isola facendo tappa durante un lungo viaggio o abbozzato su uno scarno taccuino e poi magari realizzato in Patria sulla scia di ricordi e sensazioni che affioravano spontanei e di cui ancora percepiva il sapore intenso.
tazione musicale che rimanda alla cele- bre Ave Regina del compositore inglese Walter Frye (Carapezza, 1965; Schim- menti & Valenziano, 2001).
Da questa raffigurazione minuziosa non poteva certo sottrarsi un dettaglio paesaggistico, per quanto piccolo, di- pinto nella tavola centrale dietro ai due angeli suonatori di flauto e di liuto. È un particolare rilievo, che ad un’attenta analisi macroscopica, si può ricondurre a monte San Calogero che fa da sfon- do, in direzione nord-ovest, alla città di Polizzi (Fig. 5). Dal confronto delle due figure si nota come i due profili coin- cidono perfettamente. Anche il colore azzurrognolo del particolare riprodotto è indicativo della litologia del poderoso massiccio costituito da calcari e dolo- mie originatesi nel Mesozoico. Geolo- gicamente monte San Calogero è una grossa anticlinale, squarciata da faglie dirette (peraltro evidenziate nel dipin- to) immergenti verso Nord con rigetti notevoli (Franco, 2018).
Da queste osservazioni è naturale porsi delle domande. È possibile che
l’autore fiammingo del trittico cono- scesse il territorio di Polizzi Generosa? Può darsi che il dipinto sia stato realiz- zato in loco? È possibile rintracciare il nome dell’autore tra i pittori fiammin- ghi che viaggiarono in Sicilia?
Indiscutibilmente sono quesiti ine- ludibili nel caso specifico e trovare una risposta indubbia non è facile, si posso- no solo fare delle supposizioni, anche se non comprovate da prove evidenti.Tut- ta la storia del Trittico, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, d’altra parte, è avvolta nel mistero, dal nome del suo autore al suo arrivo in Sicilia, ma ciò non altera, indiscutibilmente, la sua straordinarietà. Quel che è certo è che fu l’arte del Quattrocento a riscoprire il “reale” nella sua accezione più vasta e un po’ in tutti i Paesi nordici si sviluppò una sensibilità religiosa che ricercava un più stretto rapporto tra Dio e l’uomo tale da incoraggiare addirittura un’identifi- cazione con la divinità. Questa diver- sa spiritualità fu una delle ragioni che spinse gli artisti ad una ricerca figurativa più realistica e attenta ai particolari del-
Figura 5. Confronto tra il particolare del trittico fiammingo e il massiccio calcareo del monte San Calogero (Ph. Antonio Schimmenti)
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4. CONCLUSIONI
Il professore Ardito Desio amava affermare: «Son veramente pochi i tu- risti che come i geologi sono in grado di godere più intimamente le bellezze della natura. Non solo i paesaggi, per quanto pittoreschi, li soddisfino. I geo- logi interpretano anche le meravigliose strutture interne e gli effetti dei potenti urti e sovrascorrimenti di masse enormi di roccia che hanno a poco a poco scon- volto tanta parte della crosta terrestre. Il geologo quindi sente la meravigliosa armonia che associa alla forme esterne quelle interne, facendole in una sequen- za di cause ed effetti».
Sicuramente geologia e turismo hanno molti punti in comune. Il “tu- rismo geologico” rappresenta una delle possibilità per il geologo di far conoscere e osservare con occhi diversi il territorio al grande pubblico.
In tal senso, di là da ogni conside- razione, acquisire gli aspetti geologico- morfologici dei panorami dei dipinti in oggetto come del resto quelli di tante altre sorprendenti, singolari opere pre- senti nel territorio madonita (e non so- lo) e dunque riuscire a contestualizzarli esattamente, significa poter tracciare un iter turistico-culturale attraverso le diverse località. Questo consentirebbe, peraltro, di mettere facilmente a rete i punti di osservazione scelti dai pittori in modo da poter fruire di quel museo diffuso, a cielo aperto, impregnato di ra- ra originalità che i “maestri di pittura” hanno saputo realizzare nell’Isola, ciò costituendo oggi, una significativa pre- condizione di interessante valorizzazio- ne economica per terre spesso lasciate a se stesse, prigioniere incolpevoli di decenni d’oblio e di silenzio.
Considerando, inoltre, che il Par- co delle Madonie è entrato a far parte dell’European Geoparks Network, le riflessioni del presente contributo pos- sono essere il punto di partenza per la realizzazione di innovativi itinerari ge- ologici, storici, culturali e naturalistici che potrebbero aiutare la promozione e la fruibilità di questo inestimabile patrimonio tanto sconosciuto quanto apprezzato.
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Il geosito “Travertino della
Cava Cappuccini” Alcamo
(TP)
The geosite “Travertino della Cava Cappuccini” of Alcamo
Parole chiave: travertino di Alcamo, geositi in Sicilia, fossili di elefante Key words: travertine of Alcamo, geosite Sicily, elephants fossils
Girolamo Culmone
Geologo Libero professionista Email: geogiro@libero.it
Manuela Cottone
Laureanda scienze geologiche Email: manuelacottone@gmail.com
dicembre 2015, l’Assessorato Regionale del Territorio e Ambiente ha istituito il geosito “ Travertino della cava Cappuccini ricadente nel territorio comunale di Alca- mo” catalogandolo come geosito di tipo “Paleontologico/Stratigrafico” ed indivi- duandolo come di rilevanza Mondiale.
Tutti i reperti, tra cui alcuni raccolti addirittura nel 1928 dall’allora direttore del museo G.G. Gemmellaro di Palermo prof. Ramiro Fabiani da una delle cave allora attive sempre a nord dell’abitato denominata “fontana della Pietra”, sono custoditi dal Museo Gemmellaro ed al- cuni di essi sono esposti nella sala dedi- cata agli elefanti di Sicilia. Dopo un lun- go periodo di silenzio si tornerà a parlare dei fossili del travertino a metà degli anni ottanta, momento in cui si risveglia l’in- teresse anche da parte del mondo acca- demico e di studenti alcamesi in geolo- gia con la riapertura delle collezioni del museo geologico grazie al conservatore, l’indimenticato Enzo Burgio.
L’area del geosito è posta a Nord dell’abitato di Alcamo ed è formata dall’area della ex cava di travertino lungo le quali pareti si possono ancora osser- vare le tracce delle lavorazioni manuali, numerosi gruppi di uova di tartaruga ed una eccezionale sezione di cranio di Elephas falconeri.
Tutta la fascia a nord dell’abitato è stata occupata da grandi e piccole cave e luoghi di estrazione che hanno profon- damente mutato la fisionomia dei luoghi fermandosi giusto sotto gli edifici dell’a- bitato. Il travertino della Cava Cappuc- cini, attiva a partire dagli anni Cinquan- ta, è molto importante dal punto di vista sopratutto paleontologico, infatti, per la prima volta sono state ritrovate in chiara successione stratigrafica i fossili di due associazioni faunistiche, sopratutto si registra la presenza di elefanti di taglia differente, vissute in Sicilia in tempi diversi: l’Elephas mnaidriensis Adams (taglia media) vissuto in Sicilia 180.000 anni fa e l’Elephas falconeri (noto come elefante nano) vissuto 550.000 anni fa.
Fin dalla metà degli anni 2000 grazie anche all’impulso del- la Sigea e di alcuni suoi soci dalla Sicilia sono partite di- verse segnalazioni per inserire alcuni siti all’interno dell’inventario naziona- le gestito a suo tempo dall’APAT. Tra i primi in assoluto nel giugno 2008 venne riconosciuto il geosito di “Capo Rama” prendendo spunto da uno studio precedente da parte dell’Università di Palermo “I ciclotemi triassici di Capo Ra- ma” (Geologica Romana vol XIII 1974 Catalano, D’Argenio, Lo Cicero). Negli anni successivi utilizzando il lavoro di tesi “Il travertino di Alcamo” (1997 G. Culmone) ed i successivi dati paleonto- logici raccolti dal Museo geologico GG Gemmellaro di Palermo veniva compi- lata la scheda proposta dall’Ispra, cosic- chè la “Cava Cappuccini” veniva inserita ufficialmente all’interno del censimento nazionale dei geositi italiani.
Al contempo si sviluppava da parte di istituzioni scientifiche, associazioni ed appassionati una prima elencazione di siti con dati raccolti in tutta la Sicilia. L’Asses- sorato Regionale Territorio ed Ambiente, che in virtù dell’autonomia regionale, si occupa della tutela dell’ambiente (Riserve naturali, Parchi regionali, siti natura 2000) iniziava a redigere un primo censimento ad uso esclusivo degli uffici; questo lavoro di raccolta dati servì a mettere le basi della Legge Regionale che riconobbe in Sicilia lo status giuridico dei geositi.
Infatti, con la L.R. 11 aprile 2012, n. 25, “Norme per il riconoscimento, la cata- logazione e la tutela dei Geositi in Sicilia” ed il successivo Decreto Assessoriale ARTA n. 87/2012 individuò i primi siti e le rela- tive linee guida per “la gestione del Ca- talogo Regionale dei Geositi” indicando le modalità per l’istituzione del singolo Geosito volte sia ad impedire il degrado del Patrimonio Geologico sia alla valo- rizzazione del bene geologico attraverso la divulgazione e la sua fruizione.
Più recentemente sono state ap- provate le “Procedure per l’istituzione
e norme di salvaguardia e di tutela dei Geositi della Sicilia”. Si tratta di diret- tive relative all’uso dell’area del Geosito, nelle quali vengono delineate le attività vietate e quelle esercitabili sia nel Geo- sito in senso stretto sia nella sua fascia di rispetto, oltre a definire l’iter proce- durale per l’istituzione.
Grazie agli studi precedenti condot- ti dal personale del Museo Geologico Gemmellaro guidati dal conservatore Enzo Burgio e dal reperimento di nume- rosi resti fossili nel 2006 veniva pubbli- cato il volume della collana «I quaderni di palazzo Montalto» al n°7, “Il traverti- no di Alcamo – Proposta per l’istituzione di un geosito”, teso proprio a sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della tute- la del patrimonio geologico siciliano. A seguire il Ministero dell’Ambiente, attraverso l’ISPRA sulla scheda com- pilata e proposta dal sottoscritto aveva già inserito il geosito delle ex cave Cap- puccini nell’elenco ufficiale dei geositi italiani. Con la legge regionale 25/2012 e le norme attuative, con decreto del 1
Figura 1. Il prof. Giuliano Ruggeri, il dott. Enzo Bur- gio e l’allora studente Girolamo Culmone nel corso di uno dei primi sopralluoghi prima dell’avvio di una delle campagne di scavo.
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Figura 2. Campagna di scavo del museo “G.G. Gemmellaro” all ’interno delle terre rosse nel 1995. I risultati hanno consentito di ribaltare le tesi della presenza degli elefanti in Sicilia
Le due associazioni faunistiche in que- sto contesto stratigrafico hanno consen- tito di rivoluzionare le teorie precedenti circa la presenza di questi animali in Sicilia e la reale successione tempora- le. Eccezionale è stato anche negli anni Ottanta il ritrovamento nel bancone di travertino una grande impronta di un carapace fossilizzato attribuito ad una tartaruga gigante terrestre e migliaia di impronte di uova in associazione con i resti fossili appartenenti ad esemplari di elefante nano.Tra le decine di fossili do- natemi dai cavatori a partire dagli anni novanta di eccezionale rilevanza è un calco encefalico di elefante nano.
L’area della Cava Cappuccini è state oggetto di un intervento alcuni anni fa da parte del comune di Alcamo, proprieta- rio dei terreni; purtroppo il progetto di riqualificazione ha tenuto conto solo in parte della presenza del geosito che è sta- to così limitato solo alle pareti di cava e ad una fascia di rispetto di 5 metri dalla base.
L’area di cava è stata occupata per la quasi totalità da un edificio di oltre mille
Figura 3. Fossili di uova di tartaruga in situ
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metri quadrati con una sovrastante gra- dinata a forma di anfiteatro, per ospitare spettacoli mentre la parte sottostante do- vrebbe in futuro essere sede di una strut- tura museale espositiva e laboratori di ri- cerca. L’intervento della soprintendenza chiese la presenza di un paleontologo di cantiere grazie al quale nel movimentare i numerosi blocchi di scarto sono stati re- cuperati altri numerosi reperti.
Le campagne di scavo condotte alla fine degli anni novanta hanno consen- tito di raccogliere ulteriore materiale tra le terre rosse che occupano le numerose fratture mentre nel corso di 2 mostre organizzate dal museo geologico G.G. Gemmellaro ad Alcamo, numerosissi- mi sono stati gli ex cavatori che hanno donato altri pezzi raccolti negli anni e trattenuti come “curiosità”; addirittura con le impronte delle uova qualcuno realizzò anche un servizio di tazzine da caffè. L’escavazione del travertino che occupa buona parte del sottosuolo della città di Alcamo ha radici antiche, tant’è che tutti gli edifici e/o monumenti a
Figura 4. Sezione cranio fossile di Elephas falconeri in situ
partire dal medioevo sono realizzati in grossi blocchi squadrati di tale litotipo.
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Gioacchino Lena
Viaggio geoarcheologico attraverso la Calabria
Collana Scientia Antiquitatis, 2020, pp. 168
Rubbettino Editore, Storia, Archeologia, Università, Archeologia ISBN: 9788849864526
Il volume di Gioacchino Lena si apre con una riflessione semplice, ma complessa, che racchiude i suoi oltre quarant’anni di esperienza scientifica sul campo e non solo: “Perché un libro di Geoarcheologia”. Ancora oggi si dibatte sul concetto di Geoarcheologia che, da un lato associa il lavoro del geologo che opera nel campo dell’Archeologia, mentre dall’altro lega la ricerca archeologica all’utilizzo di concetti e metodi delle Scienze della Terra. Partendo da questo ultimo concetto, l’autore ci accompagna nel suo viaggio attraverso il paesaggio Geoarcheologico della Calabria, la sua terra di adozione, ricostruendo i cambiamenti ambientali e climatici avvenuti nel corso della Preistoria. Prima tappa, lungo la costa ionica, con la Piana di Sibari e le sue caratteristiche ambientali e antropiche, per poi spostarci immediatamente sui Monti Lacini e per giungere sino a Soverato con un focus sulla cava e l’area costiera. Il viaggio continua, con un salto immaginario, dalla costa ionica a quella tirrenica, per essere catapultati nell’antica Hipponion-Vibo Valentia e sulle tracce dell’antico porto. L’itinerario pro- segue con la peschiera romana di S. Irene a Tropea e si conclude con l’ultima tappa a Reggio Calabria tra alluvioni e disastri naturali di una città travagliata.
Davide Mastroianni
Vicepresidente Sigea Calabria
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