BEVILACQUA AI TAVOLINI DI UN BAR DI MARATEA
lettere lucane
Nell’estate del 1998 io feci il portiere di notte in un albergo di Maratea. Un giorno, al porto, seduto ai tavolini di un bar, vidi lo scrittore Alberto Bevilacqua. I più giovani non possono saperlo, ma all’epoca Bevilacqua era lo scrittore italiano che vendeva più libri in assoluto. Alcuni anni dopo divenni suo amico – andai un paio di volte a casa sua, scrissi di qualche sua opera poetica, lo intervistai per “Il Messaggero”; una volta presentò a Roma finanche un mio libro di versi. Ma c’era qualcosa che mi disturbava, nella nostra amicizia, e credo che questo disturbo avesse a che fare con la mia idiosincrasia verso la vanità del successo. All’epoca gli scrittori somigliavano mediamente assai poco a Bevilacqua. Poi, con il passare degli anni, mi è parso addirittura un dilettante – per come gli scrittori erano diventati abili nell’ipocrisia e nel marketing. So che questa sensazione non la provo soltanto io, ma tanti libri degli scrittori italiani più “affermati” mi sembrano banali, volontaristici, prove muscolari per dimostrare di essere bravi, di saper scrivere, di essere seguiti, ecc. Una volta li ho definiti “impiegati dell’ispirazione”, e devo dire che la formula ha ancora una sua efficacia, perché in loro non sento profondità ma “profondismo”, ovvero involontaria parodia del profondo. Io non dico che non faccia piacere avere qualche riconoscimento pubblico, ma trovo molto desolante quest’ossessivo sgomitare per un premio, per una comparsata in tv, per una foto su un settimanale, per un invito a un festival, per ingraziarsi librai, redattori culturali, editori, ecc. Osservateli: pubblicano libri a ritmi isterici, si promuovono ossessivamente, non dicono un solo pensiero scomodo o “scoperto” per non inimicarsi nessuno. Purtroppo la loro ambiziosa banalità rischia di dare ragione a chi si vanta di non leggere libri nemmeno per errore.