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IL TESTO COMPLETO DELL’INTERVENTO DEL MINISTRO ROBERTO SPERANZA

Speranza si difende: “Si afferma il tentativo di sfruttare l’angoscia degli italiani per miopi interessi di parte”

ROBERTO SPERANZA, ministro della salute

Signor Presidente, onorevoli colleghi, conformemente a quanto previsto dall’articolo 94 della nostra Costituzione e dall’articolo 161 del Regolamento del Senato, si discutono oggi le mozioni di sfiducia presentate da 33 senatori.

Affronto questo dibattito e il voto finale dell’Aula con il rispetto che si deve a tutte le iniziative parlamentari e con la consapevolezza di avere ogni giorno servito il mio Paese con disciplina ed onore, attraverso questi mesi terribili.

Il 5 settembre 2019 ho giurato come Ministro della salute di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione.
Ogni giorno ho tenuto fede a questo giuramento, facendo tutto quanto in mio potere, tutto quanto nelle mie forze per difendere la salute degli italiani.

È stato ed è questo il mio dovere Costituzionale, il faro che mi guida in ogni scelta e in ogni azione.
Ho ribadito lo stesso giuramento il 13 febbraio 2021 quando, confermato in questo ruolo dal presidente Draghi, ho continuato ad operare senza sosta per il Paese contro questo virus tremendo.

Nessuno di noi dovrebbe mai dimenticare che il nemico è il virus e che occorre essere più uniti che mai nel combatterlo, resistendo alla tentazione di trascinare la pandemia su di un terreno improprio.

È con amarezza che vedo nelle ultime settimane prevalere invece lo scontro politico, spesso anche alimentando un linguaggio di odio che non può mai essere accettato.

Si afferma il tentativo di sfruttare l’angoscia di tanti italiani per miopi interessi di parte.

Questo è profondamente sbagliato, perché produce danni enormi, non a me o al Governo di cui faccio parte, ma all’intero Paese, che invece deve restare unito in un passaggio così delicato.
Questo ci ha chiesto il presidente Mattarella quando ha proposto a tutti noi di sostenere il nuovo governo Draghi; questo ho sempre ribadito in ogni mio intervento in Parlamento e questa rimarrà sempre la mia posizione: unità, unità, unità!


Al Paese e al Parlamento ho sempre detto la verità e continuerò a farlo.
Considero quindi questa discussione un’opportunità per rispondere puntualmente nel merito, nella sede più appropriata e con rigore, a contestazioni che nel corso delle settimane si sono susseguite con un certo disordine.
Lo farò riavvolgendo il nastro dei principali avvenimenti che abbiamo attraversato dalla fine di dicembre del 2019 e ricostruendo la sequenza delle decisioni più rilevanti adottate per fronteggiare questo virus forte, invisibile e sconosciuto.
Una lettura unitaria, che tenga insieme eventi, tempi, evidenze scientifiche, contesto internazionale, è fondamentale; una lettura decontestualizzata e parziale non spiega nulla.
Senza dilungarmi in troppi preamboli, intendo da subito soffermarmi sui due principali argomenti affrontati nelle mozioni: il piano pandemico antinfluenzale del 2006 e lo studio dell’ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) Europa di Venezia finanziato dal Kuwait.


La contestazione meno pertinente riguarda il mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale.

È un tema che va affrontato con grande serietà, evitando di piegarlo alla polemica politica, come purtroppo è avvenuto nelle ultime settimane, anche perché viene da molto lontano.
Tutte le mozioni sottolineano come il piano non sia stato aggiornato secondo le linee guida dell’OMS per molti anni; fanno riferimento, quelle mozioni, a centottanta mesi durante i quali si sono alternati sette Governi con diverse maggioranze parlamentari.
Tutti i Gruppi di quest’Assemblea, nessuno escluso, compresi anche quelli che hanno presentato le mozioni oggi in discussione, hanno sostenuto alcuni di questi Governi.

Troppo facile far finta oggi di non vedere!

Io ho fiducia e rispetto per il delicato lavoro che sta svolgendo la magistratura.

Credo fermamente, convintamente, da cittadino italiano prima ancora che da Ministro, che chiunque, nessuno escluso, abbia avuto responsabilità in questi mesi così difficili, dai vertici dell’OMS fino al sindaco del più piccolo Comune del nostro Paese, debba essere pronto a rendere sempre conto delle proprie azioni.

Questa è la forza e la bellezza di una grande democrazia come la nostra.

Quanto, invece, alle responsabilità politiche, non sono io a dovermi difendere.

Come dicevo, ho giurato al Quirinale il 5 settembre 2019 e posso dire a testa alta che adesso il piano pandemico antinfluenzale aggiornato c’è ed è stato approvato all’unanimità in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
Quello che non è stato fatto in molti anni è stato invece realizzato in pochi mesi, proprio durante il mio mandato.
E quello approvato è un documento importante, anche e soprattutto per l’impostazione fortemente operativa e per la chiara definizione di compiti, ruoli e responsabilità che vi sono riportati.

Il lavoro per organizzare e migliorare la risposta del Paese al Covid non si è mai fermato, neanche nei mesi in cui alcuni abbassavano la guardia.

È dell’11 agosto il documento pubblicato dal Ministero della salute «Elementi di preparazione e risposta a Covid-19 nella stagione autunno- invernale», mentre il 12 ottobre è stato pubblicato il manuale «Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno- invernale» (anche questo documento è stato approvato all’unanimità in Conferenza Stato-Regioni).

Sul piano pandemico antinfluenzale del 2006 e sulla sua applicazione tornerò più avanti nel corso del mio intervento.

Prima intendo affrontare il caso del documento dell’ufficio OMS Europa di Venezia, finanziato dal Kuwait, anch’esso richiamato nelle mozioni presentate.

Occorre innanzitutto fornire un’informazione importante di natura preliminare: durante le emergenze sanitarie, una delle principali modalità operative dell’OMS e dell’ECDC è rappresentata dalle cosiddette country visit (visite ai Paesi colpiti).
Una delegazione composta esclusivamente da esperti di alto profilo di queste organizzazioni si reca in un Paese membro per effettuare una verifica tecnica indipendente; è sulla base di questo lavoro svolto sul campo che vengono definite alcune raccomandazioni per migliorare la risposta della Nazione visitata alla diffusione dell’infezione.


Veniamo quindi allo svolgersi dei fatti.

Primo: OMS ed ECDC vengono in Italia per una visita dal 24 febbraio al 4 marzo, tre giorni dopo la scoperta del cluster di Codogno.

Gli esiti di questa missione vengono trasmessi formalmente al Governo italiano il 12 marzo 2020.
Secondo: il report a cui invece si è fatto riferimento sulla situazione dell’Italia arriva soltanto a metà maggio.

Comprendere la differenza tra la visita e il report è fondamentale per dare il giusto peso alla questione sollevata nelle mozioni.
La visita infatti produce un documento con raccomandazioni e indicazioni, anche operative, per la nazione oggetto della missione.
Il report invece è uno studio rispettabile, il cui fine è far circolare nella comunità scientifica dati e analisi sulla situazione del Paese e di ogni singola Regione.

L’OMS e l’ECDC, con i quali abbiamo avuto e abbiamo rapporti costanti e positivi, ci hanno indicato le loro raccomandazioni operative in seguito alla visita del 24 febbraio-4 marzo; quelle valutazioni, pur avendo carattere non vincolante, rappresentano le indicazioni all’Italia che noi abbiamo prontamente valorizzato.
Il report al centro della polemica è invece successivo e non ha una ricaduta operativa nella gestione della pandemia; non ha infatti indicazioni di natura operativa.

Non è un caso che la visita avvenga pochi giorni dopo Codogno, mentre il documento tanto discusso viene pubblicato il 13 maggio, dopo il lockdown, quando la curva del contagio della prima ondata era già stata appiattita

Questi sono i fatti di rilievo.

La scelta di pubblicare e poi ritirare quel documento viene assunta esclusivamente dall’OMS, nella sua piena autonomia, che noi rispettiamo, anche nelle sue diverse articolazioni e nel dibattito interno che con evidenza vi è stato a questo proposito tra dirigenti dell’OMS in palese contrasto tra loro. Ma una cosa è certa: non c’è nessuno dei protagonisti di questa vicenda che affermi il contrario.

Le scelte relative al dossier sono autonome dell’OMS.

L’OMS, di cui è parte la sede di Venezia, che propone lo studio in discussione, ha chiarito che il report è stato ritirato per inesattezze fattuali; tra gli errori rilevanti quello relativo alla timeline dell’epidemia in Cina.

La stessa OMS Europa, in un comunicato ufficiale del 14 dicembre 2020, ha dichiarato che in nessun momento il Governo italiano ha chiesto all’OMS di rimuovere il documento.

Mi sembra una posizione molto chiara, che pone fine a ogni ulteriore speculazione.

Veniamo così alla ricostruzione dell’emergenza sanitaria.
Ripercorrerò i passaggi salienti delle enormi difficoltà che abbiamo vissuto e delle misure che abbiamo adottato.

Il Ministero della salute ha sempre considerato la serietà della situazione. Sarebbe molto facile per me, in quest’Aula, oggi, sottolineare che non si può contemporaneamente criticarmi perché avrei sottovalutato la gravità della situazione e, al tempo stesso, contestarmi per aver seguito sempre la linea della massima prudenza e che è contraddittorio lamentare l’assenza di un’efficace strategia di contenimento del virus e, nel contempo, chiedere ripetutamente di cancellare le misure più severe adottate dal Governo, proprio per contenere il virus.

Preferisco invece svolgere un ragionamento di merito, fondato sui fatti, anziché su interpretazioni strumentali ed emotive.

A tal fine, ritengo innanzitutto necessaria una riflessione di fondo, per comprendere cosa è realmente accaduto in questi mesi, a partire dal contagio che ha colpito Wuhan e la provincia di Hubei, in Cina, alla fine di dicembre 2019.

 

Perché grandi potenze economiche e sistemi sanitari strutturali sono stati a tal punto messi in difficoltà da questo virus?

Com’è potuto accadere che persino una delle massime potenze mondiali, gli Stati Uniti d’America, abbia dovuto vedere ospedali da campo montati in un luogo simbolico come Central Park?

Perché, mentre celebriamo i successi di una scienza che ogni giorno fa compiere passi in avanti nel contrasto a patologie mortali, l’intero pianeta è stato travolto da un virus prima sconosciuto?

 

A queste domande difficili, vere e profonde la comunità scientifica internazionale ha fornito, nel corso dei mesi, risposte che ci offrono una chiave di lettura di quanto accaduto nel mondo, in Europa e nella nostra Italia.
La ragione di fondo delle nostre difficoltà è una: SARS-CoV-2 è un virus del tutto nuovo e particolarmente aggressivo, con caratteristiche molto diverse non solo dai virus influenzali, ma anche da quelli che in passato si erano manifestati, con un salto di specie, dagli animali agli uomini.

È un virus molto diverso anche dall’evento pandemico del 2002-2003, provocato da un altro coronavirus, quello della SARS, diverso – questo è il punto che mi preme evidenziare – per due caratteristiche fondamentali.
La prima è che le persone affette da SARS in gran parte presentavano sintomi gravi ed erano dunque facilmente identificabili, mentre SARS-CoV-2 è frequentemente causa di casi asintomatici e paucisintomatici.

La seconda è che il picco di contagiosità della SARS si raggiungeva circa una settimana dopo la comparsa dei sintomi, quindi si faceva in tempo ad isolare i malati, che diventavano contagiosi, mentre per SARS-CoV-2 il picco coincide con la comparsa dei sintomi o addirittura li anticipa.

Viste con gli occhi di oggi, queste differenze appaiono scontate, ma al contrario sono acquisizioni a cui la comunità scientifica è giunta solo dopo mesi.

Basti ricordare, per fare un esempio, che a lungo l’indicazione di tutte le autorità scientifiche mondiali è stata quella di effettuare tamponi solo ai sintomatici.

La circolazione virale di SARS-CoV-2, per le sue caratteristiche, può essere contenuta e poi mitigata, in assenza del vaccino, innanzitutto con interventi che favoriscono il distanziamento.
In questa cruciale differenza con i precedenti virus c’è la ragione e il filo conduttore della nostra strategia di contrasto alla diffusione dell’infezione.

Il lockdown, le zone rosse, il blocco delle attività che non è possibile svolgere in sicurezza o che possono determinare assembramenti, la limitazione dei movimenti non necessari, l’utilizzo costante delle mascherine non sono decisioni adottate per complicare la vita delle persone, ma l’unica strada, in assenza del vaccino, per arginare la diffusione del contagio.
È la conclusione alla quale è arrivato anche il Regno Unito, che dopo un primo approccio alla pandemia, caratterizzato da misure molto limitate, ha attuato tre diversi lockdown, con chiusura di tutti i servizi non essenziali e, nell’ultimo di questi, durato sessantuno giorni, anche delle scuole di ogni ordine e grado.

Sono misure che in Italia, dall’inizio del 2020, abbiamo dovuto disegnare e implementare, nel pieno di una pandemia che ci colpiva senza preavviso, per primi in Europa, senza che esistesse un manuale d’istruzioni.

Quel manuale abbiamo contribuito a scriverlo, giorno dopo giorno, facendo tesoro dell’esperienza accumulata.
Di fronte a questo virus totalmente nuovo è del tutto evidente che il piano pandemico antinfluenzale del 2006 non era sufficiente, né lo erano le successive raccomandazioni emanate dall’OMS.
Non era una situazione in cui sedersi e attendere istruzioni.
Per salvare delle vite andavano trovate soluzioni nuove e assunte decisioni rapide. Ecco perché del vecchio piano è stato valorizzato ciò che era utile e funzionale a contrastare questo nuovo virus, come, ad esempio, la dichiarazione dello stato di emergenza.

I nostri tecnici, però, hanno valutato da subito che c’era da andare decisamente oltre: non ci si è limitati alla burocratica attuazione di un piano pandemico antinfluenzale non sufficiente a rispondere a un virus completamente nuovo; non ci si è limitati a una lettera o a un ordine di servizio, giusto per tenere in ordine le carte.
Per ragioni di tempo non posso richiamare puntualmente tutti i provvedimenti adottati fin da prima che venisse dichiarata la pandemia.


Mi preme, invece, ricordare tre date del 2020: 22 gennaio, 28 gennaio e 30 gennaio.
Sono tre passaggi documentati che danno conto con chiarezza di come non abbiamo sottovalutato la situazione.
Il 22 gennaio sia l’OMS che il Center for disease control and prevention (CDC) indicavano, ancora una volta, come molto basso il rischio che il virus raggiungesse l’Europa e in Italia non c’erano casi accertati. Tuttavia, presso il Ministero della salute è stata attivata una task force con il compito di monitorare l’evolversi dell’epidemia e valutare iniziative idonee a fronteggiare eventuali critcità.

Il 28 gennaio 2020, quando ancora non c’erano casi in Italia, dopo varie interlocuzioni telefoniche, ho scritto formalmente alla commissaria europea competente Stella Kyriakides e alla Presidenza di turno per richiedere una riunione dei Ministri della salute dei Paesi europei, ritenendo necessaria e non rinviabile un’azione di coordinamento internazionale.

È su mia iniziativa, su proposta dell’Italia, che si è tenuta la prima riunione sul Covid a livello europeo.
Il 30 gennaio, lo stesso giorno in cui l’Istituto superiore di sanità confermava i primi due casi di infezione Covid in Italia (i due cittadini cinesi in visita a Roma ricoverati all’ospedale Spallanzani), ho proposto subito la dichiarazione dello stato di emergenza, poi deliberato il 31 gennaio dal Consiglio dei ministri.

Siamo stati il primo Paese del mondo, insieme agli Stati Uniti, a farlo ed è stata adottata una mia ordinanza con la quale veniva interdetto il traffico aereo dalla Cina per la durata di novanta giorni.
In quelle ore le stesse scelte sono state fatte da Israele e Stati Uniti e noi siamo stati i primi in Europa a varare questo provvedimento.

Sono solo le primissime tappe di un percorso di gestione dell’emergenza durante il quale, tra mille difficoltà, non ci siamo mai fermati, né possiamo ancora fermarci.

Abbiamo imparato che una pandemia non è uno sprint, ma purtroppo una maratona che richiede tenuta di lungo periodo e resistenza.
Continuiamo a stare ai fatti.

Il 9 febbraio 2020, solo due giorni dopo la sua prima riunione, il Comitato tecnico-scientifico avvia una riflessione sulla definizione di scenari possibili in caso di evoluzione dell’epidemia e decide di costituire un gruppo di lavoro informale con il compito di analizzare le misure da adottare nell’eventualità di un rapido aumento dei ricoveri ospedalieri.
Il 10 febbraio viene deciso di lavorare, anche con il supporto di esperti, a modelli di risposta ai diversi scenari possibili.

Il 12 febbraio, per la prima volta, viene presentato ai membri del CTS dal dottor Merler della fondazione Kessler un documento con i dati relativi allo studio di scenari di diffusione del Covid in Italia e impaKo sul Servizio sanitario nazionale.

Lo studio Merler è uno dei contributi che furono acquisiti agli atti del Comitato tecnico-scientifico e non si discosta da quelli derivanti da altre analisi o da altri modelli presi in esame ed elaborati anche da istituzioni di ricerca importanti come Imperial college di Londra.

Per autonoma decisione del CTS, le riunioni si sono svolte con indicazione di riservatezza per i partecipanti, ma lo studio Merler, a differenza di ciò che si sostiene nelle mozioni, non è stato affatto secretato ed è oggi pubblicato sul nostro portale.

Anche grazie a quello studio abbiamo potuto reagire, muniti di alcuni parametri di riferimento, al primo cluster di Codogno e di Vo’ Euganeo e poi all’ulteriore accelerazione nella circolazione del Paese.
La reazione è stata sempre coerente con una valutazione seria del rischio.
È del 1° marzo la circolare della nostra Direzione generale della programmazione sanitari con la quale si dava indicazione alle Regioni di aumentare del 50 per cento i posti in terapia intensiva e del 100 per cento i posti di pneumologia e malattie infettive.

Una scelta che, in quella giornata, molti definirono eccessiva rispetto al livello del contagio in Italia.
Voglio ricordare a quest’Aula che, anche dopo l’istituzione delle prime zone rosse, in molti pensavano che stessimo esagerando. Abbiamo adottato misure severe, prima in territori specifici, e poi, dal 9 marzo, su tutto il territorio nazionale.

Quelle misure ci hanno permesso di piegare la curva dei contagi.

In questa breve e sommaria ricostruzione c’è un tratto importante del nostro lavoro.
Voglio essere chiaro: è il lavoro non di un Ministro o di un Governo, ma di un Paese intero, della nostra comunità scientifica, dei nostri medici, infermieri e professionisti sanitari, che non smetteremo mai di ringraziare.

L’Italia, il nostro Paese, in quei mesi in cui tutto il mondo si chiedeva cosa fare ha indicato una strada, sicuramente non perfetta e non facile da attuare, ma una strada che, progressivamente, è stata seguita dalla maggioranza dei Paesi europei e del mondo.

Questo è avvenuto anche grazie a istituzioni che hanno saputo restare salde e compatte alla guida dell’emergenza.

Ecco perché, personalmente, sono stato e resterò sempre distante mille miglia dalle polemiche che danneggiano il prestigio e la forza dell’Italia e rendono più difficile il lavoro di tutti coloro che, ogni giorno, salvano le vite umane.

Ecco perché sbaglia oggi chi ritiene che lo spirito di responsabilità e di servizio, dimostrato da tanti in questi mesi, si possa accantonare come un ferro vecchio, magari insieme alle cautele.

Non è così e lo dico con tutta la forza che ho.

Comprendo le ragioni della battaglia politica, ma la politica non è un gioco d’azzardo sulla pelle dei cittadini.
Anche a chi ogni giorno fa polemica continuo a rispondere: non dividiamo il Paese sulla pandemia, che è ancora in corso, purtroppo. Non è finita come qualcuno vorrebbe far credere.

Guardiamo il dramma di questi giorni, di queste ore, in India.

Non dobbiamo dimentcare mai che sconfiggere il virus è ancora oggi il principale interesse dell’Italia e la premessa di ogni ripartenza economica e sociale.

Rivendichiamo insieme, con umiltà, il lavoro svolto dal Governo, gomito a gomito con le Regioni, molte delle quali governate attualmente anche dai sottoscrittori delle mozioni di sfiducia.

In questi mesi avrei potuto scaricare sulle Regioni responsabilità e limiti che tanti hanno visto, ma non l’ho mai fatto e non lo farò mai.

Ho sempre collaborato con tutti, senza alcuna distinzione e con la massima disponibilità, perché penso che, in un grande Paese, non si fa politica su una tremenda epidemia.

In un grande Paese non si fa politica su una grande epidemia.


Abbiamo gestito per primi in Occidente una emergenza sanitaria senza precedenti.
Lo abbiamo fatto con le conoscenze e i mezzi limitati che avevamo, ma in modo dinamico e flessibile, sempre sulla base dell’evoluzione dei dati e delle evidenze scientifiche.

Prima di passare alla parte finale del mio intervento, intendo rispondere in modo sintetico ad altre tre osservazioni formulate puntualmente nelle mozioni.

La prima riguarda l’alto tasso di letalità del virus nel nostro Paese.
Anche su questo tema mi attengo rigorosamente ai dati.

La prima spiegazione, sulla quale conviene gran parte della comunità scientifica, si basa sulla composizione anagrafica della nostra popolazione.
Non c’è discussione sul fatto che i Paesi più anziani siano quelli maggiormente colpiti e l’Italia è tra questi.

L’Italia è il Paese che si colloca al primo posto in Europa per età mediana (46,7), con una percentuale di popolazione over 65 superiore al 23 per cento e una percentuale di
popolazione over 80 del 7,4 per cento.
Anche allargando l’orizzonte di analisi, l’Italia continua a posizionarsi ai primissimi posti sia per quanto riguarda la percentuale di ultrasessantacinquenni sia per quanto riguarda l’età mediana.


Una seconda chiave di lettura sta nella alta percentuale di malattie croniche e comorbilità, in particolare nelle persone anziane.

Ricordo, a tal proposito, tre dati nazionali molto importanti: la percentuale di malattie croniche degenerative tra gli ultrasessantacinquenni è dell’86,9 per cento; il 21,5 per cento della popolazione è affetto da due o più patologie croniche; tra gli ultra seKantacinquenni la comorbilità si attesta al 66,6 per cento.
Nei primi tempi dell’emergenza la capacità di testing in Italia era limitata, in quanto si facevano tamponi solo su casi sintomatici di entità rilevante.
Al 15 luglio 2020 registravamo 34.997 casi di decesso e 243.506 casi positivi al Covid.

Lo studio di sieroprevalenza condotto dall’Istat e presentato il 3 agosto 2020 ha stimato che, invece, in quel 15 luglio i contagiati erano in realtà 1.482.000, ossia circa sei volte il numero dei casi diagnosticati
Solo in seguito, con l’aumento dei test, abbiamo potuto stimare in modo più puntuale i casi e la letalità.

Il tasso di letalità sui casi, a partire dal 16 luglio, è stato pari al 2,2 per cento.
Si tratta di un dato in linea con quello degli altri grandi Paesi (ad esempio, nell’ultima fase la Germania si è attestata al 2,3 per cento). Solo nella prima ondata l’Italia ha effettivamente avuto un tasso di letalità più elevato, dovuto eminentemente alla durezza dell’impatto del Covid nelle Regioni del Nord del Paese.
Nella seconda ondata i dat dell’Italia si sono mantenuti in linea con la media europea e mondiale.

Una seconda critica che mi viene rivolta riguarda la presunta parziale istituzione delle Unità speciali di continuità assistenziale (USCA).

In proposito, ricordo velocemente due dati.

In primo luogo, le Unità speciali di continuità assistenziale sono state istituite proprio su mia iniziativa, con l’articolo 4-bis del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18: una ogni 50.000 abitanti, per un totale di 1.200 USCA su tutto il territorio nazionale.

Mi fa piacere che oggi ne venga riconosciuto il valore anche da chi allora non sostenne il provvedimento.
In secondo luogo, dai dati trasmessi dalle Regioni e Province autonome risulta che sul territorio nazionale sono state oggi attivate 1.339 USCA.

Parziale attivazione è quindi un’interpretazione singolare di una situazione in cui risultano attivate più USCA di quelle che erano state previste.
In esse lavorano 6.562 medici, 2.105 infermieri, 66 assistenti sociali, 134 psicologi e oltre 240 altre figure professionali.

L’occasione è utile, anche qui, per ringraziarli ancora una volta per il lavoro straordinario e fondamentale che stanno svolgendo ogni giorno.

Vengo infine all’ultima risposta di merito.

In una delle mozioni e anche in un intervento svolto oggi si afferma che non abbiamo elaborato alcuna circolare per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid.
È falso, semplicemente falso.
La circolare finora utilizzata è stata elaborata dai nostri tecnici già nel 2020 e un ulteriore aggiornamento è stato emanato proprio il 26 aprile con parere favorevole del Consiglio superiore di sanità.
Aggiungo che probabilmente, nel corso dell’anno, verrà ancora aggiornata, come è naturale che sia, sulla base delle nuove evidenze scientifiche.

Le significative attvità per sostenere le sfide aperte dalla pandemia oltre un anno fa sono molte e documentabili. Le tracce di queste attività sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.

In questa sede mi limito a ricordare qualche altro dato.

Dall’inizio dell’emergenza ad aprile 2021 sono state reclutate 81.236 unità di personale, di cui 17.634 a tempo indeterminato (in particolare, 20.192 medici, 32.064 infermieri, più di 15.900 operatori socio-sanitari, oltre a tecnici di radiologia e di laboratorio, assistenti sanitari, biologi e altre professionalità necessarie per fronteggiare l’emergenza sanitaria).

Con il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 è stato introdotto il piano di potenziamento dei presidi ospedalieri sul territorio nazionale per un adeguamento strutturale dei reparti, con risultati significativi.
Nel nostro Paese i posti letto in terapia intensiva sono aumentati del 106 per cento. Prima dell’emergenza in Italia c’erano 5.179 posti letto.
Al 1° marzo 2021, ne sono attivi 9.018 e altri 1.667 possono essere attivati utilizzando i dispositivi già trasferiti alle Regioni.
La nostra capacità di somministrazione dei tamponi oggi è 100 volte superiore rispetto a febbraio scorso e marzo scorso, infatti allora c’erano in media 3-000-3.500 tamponi al giorno, oggi tra antigenici e molecolari ne facciamo stabilmente molto più di 300.000 al giorno.
All’inizio dell’ emergenza, l’offerta di dispositivi e di attrezzature prodotti in Italia era quasi nulla, questa è la verità.
Abbiamo agito per sostenere la produzione nazionale, per favorire processi di reshoring, per ridurre rapidamente la dipendenza dalle importazioni.
Ad aprile 2020, abbiamo dato incarico a due grandi aziende italiane di progettare e realizzare 50 macchine capaci di produrre fino a 30 milioni al giorno di mascherine chirurgiche delle varie misure.
L’impegno sul fronte dei vaccini, cominciato nella primavera del 2020, è stato intenso in uno scenario mutevole e incerto.
La firma della prima intesa con Germania, Francia e Olanda è di maggio e ha aperto la strada al lavoro poi svolto dalla Commissione.

In ogni trattativa con le diverse aziende produttrici, l’Italia è stata impegnata per garantire ai suoi cittadini il maggior numero possibile di forniture di vaccini.

Si poteva negoziare meglio a livello europeo?
Io credo di sì, ma io dell’idea che sia stato giusto muoversi insieme e non favorire un tutti contro tutti in Europa che non ci avrebbe certo aiutato a bilanciare la forza delle multinazionali del farmaco.
Voglio oggi ribadire che anche per le prossime annualità l’Italia continuerà a comprare insieme agli altri Paesi europei.

Nella campagna vaccinale abbiamo impegnato risorse ingenti in termini di personale, siglando accordi che oggi coinvolgono nelle vaccinazioni centinaia di migliaia di professionisti della sanità.

Tra poche settimane, avremo messo in sicurezza tutte le fasce d’età più gravemente colpite dal virus, è uno sforzo coordinato che non si organizza in un giorno, è figlio di un incessante lavoro di squadra.

In questo schema, abbiamo anche provato a rafforzare la ricerca italiana, penso al vaccino di ReiThera o agli anticorpi monoclonali a cui ha lavorato la squadra del professor Rappuoli a Toscana Life Science.
Considero l’impegno su questi fronti inderogabile per almeno due ragioni: la prima è assicurare al Paese difese necessarie anche in prospettiva futura;

la seconda è sviluppare nuove sinergie nel campo della ricerca scientifica, le professionalità e i talenti presenti nel nostro Paese vanno incoraggiati sempre.

A questo proposito, intendo ora soffermarmi, in chiusura, sulla critica di fondo che attraversa le tre mozioni.
Non è solo la gestione dell’emergenza a venir criticata, l’accusa sarebbe quella di non aver rafforzato il nostro Servizio sanitario nazionale e di non aver messo in campo nel corso della pandemia un rilancio complessivo della sanità italiana.
Ritengo di aver fornito più di qualche dato a dimostrazione della tesi opposta, ma intendo andare oltre questi numeri e guardare ai prossimi mesi e ai prossimi anni, perché la riforma di cui si parla è la nostra vera sfida ed è un primo passo e possiamo già farlo grazie a Next generation EU.
Tutti noi – ne sono convinto – dobbiamo sentire l’obbligo di interrogarci sulle ragioni di fondo delle debolezze strutturali che la pandemia ha messo a nudo.

In questo mio intervento ho risposto con i fatti a giudizi che appaiono largamente immotivati, ma vorrei dire con grande fermezza che a me come Ministro della salute è chiarissimo che dentro uno sforzo straordinario e generoso siano emerse anche debolezze, limiti del nostro Servizio sanitario nazionale che bisogna avere il coraggio di affrontare a viso aperto.
Sono ben lontano da una lettura edulcorata dei mesi che abbiamo alle nostre spalle e della situazione in cui ancora ci troviamo. L’Italia – questa è la verità – è arrivata indebolita al tragico appuntamento con il Covid perché per decenni, con scelte sbagliate e miopi, è stata a più ripresa indebolita la sanità pubblica, la salute è stata troppo spesso considerata un costo, mentre il principale investimento per il nostro futuro, la chiave della crescita e della coesione sociale, il Servizio sanitario nazionale, il bene più prezioso che abbiamo, è stato sovente trascurato.

Si sono moltiplicate le diseguaglianze territoriali e sociali nell’accesso alle cure, all’assistenza e alla riabilitazione.
Siamo rimasti indietro sulla digitalizzazione.
Lo stesso Ministero della salute ha pagato il prezzo dei mancati investimenti nella pubblica amministrazione;

basti pensare che la dotazione organica è passata da 2.520 unità del 2010 a 1.699 del 2018 e solo negli ultimi mesi stiamo recuperando con un numero di assunzioni significative.

In molti, troppi casi è solo grazie alla professionalità e all’abnegazione del nostro personale sanitario che siamo riusciti ad andare avanti, riportando risultati che non dobbiamo dimenticare mai.
Eppure non dobbiamo dimenticare che la spesa per il personale sanitario è stata bloccata per anni a quella del 2004 meno l’1,4 per cento.
Pensateci con attenzione per un istante: la spesa per il personale sanitario è stata bloccata per anni nel nostro Paese a quella del 2004 meno l’1,4 per cento.
Quanta distanza tra questo dato crudo e duro e la retorica degli eroi, che spesso ha attraversato la nostra discussione.

E poi, ancora, da parte di alcuni si è alimentata negli anni l’illusione che la sanità privata potesse progressivamente sostituire la sanità pubblica. È vero esattamente il contrario: solo con una forte sanità pubblica è possibile difendere l’universalità del nostro Servizio sanitario nazionale e anche creare valore aggiunto all’iniziativa privata, costruendo sinergie positive.
L’Italia intera, con una consapevolezza acuita dall’emergenza, ci chiede oggi una sanità pubblica più forte.
Fin dal primo giorno del mio lavoro di Ministro della salute questo è stato per me l’impegno fondamentale.

Siamo già al lavoro per la riforma della sanità territoriale che abbiamo disegnato proprio in questi mesi.
Essa ruota attorno all’idea di prossimità – parola cruciale per la sanità del futuro – con obiettivi chiari e ambiziosi che in queste settimane abbiamo iniziato a discutere con le Regioni e con la Commissione europea.


Tre primi obiettivi: portare l’assistenza domiciliare al 10 per cento degli over 65, diventando i primi in Europa per questo dato. È un paradosso inaccettabile; abbiamo la popolazione più anziana d’Europa e abbiamo un dato di assistenza domiciliare del tuKo insufficiente. Noi vogliamo arrivare al 10 per cento.
Oggi i migliori modelli in Europa sono la Germania e la Svezia con circa il 9 per cento; useremo per questo le risorse del recovery fund.

E poi, ancora, realizzare una Casa della comunità ogni 20.000 abitanti e un ospedale di comunità ogni 50.000 abitanti;

grazie al recovery fund ne finanzieremo rispettivamente le prime 1.288 e i primi 381.
Questa riforma è l’orizzonte più ampio del mio e del nostro lavoro.

È il modo per dare una risposta vera ai sacrifici e alle sofferenze di tutti.
È il frutto più maturo dell’impegno con cui da mesi, senza sosta, ci adoperiamo per portare l’Italia fuori da questa crisi.


Voglio ricordare ancora una volta in quest’Aula le parole di Papa Francesco e quell’immagine indelebile, che spesso ci torna in testa, di piazza San Pietro deserta. Peggio di questa crisi c’è solo il rischio di sprecarla e noi non dobbiamo farlo.

Con le risorse di Next generation EU abbiamo la concreta possibilità di tenere finalmente insieme riforme e investimenti.

È questa la vera sfida che sta dinanzi a tutti noi, ma sfide così impegnative non si affrontano in ordine sparso. 

Per tale ragione insisto: non è il tempo dei contrasti, né dei piccoli interessi di parte.


È il tempo, come ha ricordato per il 25 aprile il presidente Sergio Mattarella, di restare uniti in uno sforzo congiunto.

Non dividiamo il Paese, non disperdiamo le energie, accantoniamo divisioni e polemiche e affrontiamo la ricostruzione che dobbiamo all’Italia con responsabilità, con onestà e con forza.

Dopo l’approvazione del Pnnr, oggi per il governo c’è stata una nuova battaglia parlamentare sul ruolo del ministro della Salute, Roberto Speranza.

Ma come avvenuto ieri con il braccio di ferro sul coprifuoco, anche oggi la Lega e Forza Itaila hanno isolato Fratelli d’Italia.

Il Senato ha infatti respinto la mozione presentata da Fdi contro il ministro Speranza.

I voti contrari sono stati 221, mentre i no soltanto 29.

Bocciate anche le mozioni analoghe presentate dal leader di Italexit Gianluigi Paragone (206 no e 29 sì) e dal senatore di Alternativa c’è, Mattia Crucioli (204 voti contrari, 28 voti favorevoli e 2 astenuti).
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