LAVORO PER TUTTI O SOLO PER LE “ECCELLENZE”?
Lettere lucane
Più di una volta mi è capitato di ricevere richieste di aiuto sul lavoro da parte di amici e parenti. Ovviamente non sono un uomo di potere, ma evidentemente lavorando tanto e in contesti assai diversi tra di loro vedono in me qualcuno che può avere informazioni utili o dare consigli concreti. Un giorno un mio amico potentino mi ha detto questa frase: “Posso fare tutto, mi va bene qualsiasi lavoro”. Lì per lì la frase mi ha disturbato, perché l’ho vista come un’ammissione di genericità; poi però l’ho anche valutata come una dichiarazione di umiltà e di capacità di adattamento, di chi sa adeguarsi professionalmente alle condizioni del momento. Un mio caro collega della Rai, Gianluca Visalli – un grande professionista specializzato in marketing e digitalizzazione – spesso mi racconta come funziona il mercato del lavoro nelle società più avanzate a livello globale. La sintesi potrebbe essere questa: nelle grandi società globali le eccellenze crescono o mantengono la posizione acquisita, mentre i collaboratori medi o “bassi” lentamente vengono espulsi. E infatti spesso sentiamo dire che per affermarsi nel lavoro bisogna essere specializzati o addirittura “eccellenze”. Ma io su questo tema sono molto critico, perché è matematicamente impossibile creare una società delle eccellenze senza emarginare chi eccellenza non è, e parliamo di miliardi di persone, a partire dal sottoscritto. È normale che l’economia moderna assimili i migliori, sopratutto in quest’epoca di robotizzazione e di vorticosa innovazione tecnologica e ricerca scientifica. Ma cosa ce ne facciamo di quelli “così così”, dei “normali”, di chi non ha grandi vocazioni? È facile per l’economia assumere i migliori – coloro che hanno avuto la fortuna di avere in dono una grande intelligenza, e la serietà di impegnarsi fino in fondo –ma che fine fanno i tanti che cercano “un lavoro qualsiasi” per vivere dignitosamente?
