AttualitàBasilicata

CERVELLI IN FUGA…E FANNO BENE

Lucani emigranti anche se non partono!

Cervelli che fuggono, cervelli che rientrano, cervelli che lavorano al sud e cervelli in prestito.

Tante locuzioni e modi di dire per descrivere l’organo meno sedentario del corpo umano e che, per motivi etno-antropologici noti, al sud presenta una motilità superiore alla media nazionale.

Nei due secoli passati il fenomeno si chiamava brutalmente emigrazione e con questo termine, dietro il quale si nasconde un universo di miserie e di rivalse, ci si riferisce a famiglie intere, senza distinzione di età, titolo di istruzione e professionalità, che svuotavano i paesini di provenienza per seguire le rotte lavorative. Dai piroscafi che traghettavano verso il sogno americano ai treni colmi di valigie di cartone diretti verso il Nord Europa, intere comunità di italiani, e di lucani in particolare, si sono estirpati per trapiantarsi altrove, non di rado anche con grande successo.

Il fenomeno emigratorio, tuttavia, non è scomparso, si è solo parcellizzato. Più raramente si spostano famiglie intere ma esiste ancora, e non è limitato solo ai cervelli.

I cervelli, appunto.

Tanti ragazzi formati in regione e all’Università della Basilicata, su cui sono state investite importanti risorse regionali, giovani preparati, brillanti e in grado di dare realmente un contributo alla comunità d’origine, ciascuno nei rispettivi ambiti, lasciano la Basilicata per seguire opportunità lavorative inesistenti sul territorio e non tornano perché, appunto, le trovano altrove.

Tutto questo è noto e quasi accettato, nel comune sentire e nelle famiglie, fatalmente abituate all’idea che i figli che vanno fuori regione all’università difficilmente vi facciano ritorno e che, anzi, a volte ne sollecitano la partenza anche quando hanno studiato a casa, in cerca di qualcosa meglio, di più sicuro e meglio remunerato.

Fa eccezione solo quella ristretta élite di persone che, sollevando il sottile velo di ipocrisia piccolo borghese per cui certe cose si sanno ma non si dicono, sono sempre perfettamente in grado di sistemare i pargoli, che siano super eccezionali o del tutto incapaci.

Sono pochi, rispetto ai meritevoli, i cervelli autoctoni che riescono a stabilirsi in regione e ad ottenere posizioni lavorative consone alle proprie capacità. A volte si accontentano di posizioni del tutto incongrue rispetto alle loro potenzialità e professionalità, pur di non partire, magari per ragioni personali e familiari, frustrando le proprie capacità  e, con esse, quelle di un’intera comunità che non punta ad eccellere ma semplicemente a galleggiare, fatalisticamente rassegnata al principio che è sempre andata così.

Quando si parla di Lucani nel Mondo si parla di una comunità che supera di gran lunga quella ancora presente sul territorio regionale per numero, per produttività, per successo. Paradossalmente, assistendo ai grandi risultati ottenuti dai figli degli emigranti, partiti dal nulla e arrivati alle vette di paesi stranieri, all’atavico sentimento di nostalgia che contraddistingue l’emigrante, anche se di terza generazione, si contrappone quasi una sorta di invidia attiva del lucano stanziale e residente. Chi è rimasto e chi, ancor più, è ritornato nel territorio d’origine dopo un’esperienza fuori, ha la posizione terribilmente privilegiata per calcolare la distanza che separa i due mondi, per misurare la forza frenante delle dinamiche malate che sopravvivono sul territorio e, infine, per stimare in maniera controfattuale quanto costi, in termini di realizzazione personale, restare e non partire o, peggio, tornare.

Già, perché oltre ai cervelli che vanno e vengono, ci sono quelli che restano, che per caso o per sfortuna, non sono nelle condizioni di dover andar via ma hanno la consapevolezza che restando non riusciranno mai a realizzarsi al massimo.

È una terra “matrigna” la Basilicata, per chi se ne é dovuto andare e per chi resta, è inutile nasconderselo. Una terra aspra e arida, che non fa sconti e non perdona. Le sue leggi di natura, anche se si sono imborghesite e che sono il retaggio culturale dal quale non ci si è ancora affrancati, sono rimaste quelle antiche, in cui spara solo chi ha la polvere, e purtroppo, la polvere non è fatta della sostanza di cui sono fatti i famosi cervelli né tantomeno i loro sogni.

Resta una terra di enormi potenzialità ma è governata da un’entelechia non meritocratica e spesso miope e ingiusta che non consente ai suoi cervelli, e ce ne sono tanti, di realizzarsi, di crescere, impedendo fatalmente a se stessa di realizzarsi e crescere attraverso di loro.

Resta una terra di conquista, come tutte quelle che non addestrano al meglio le proprie nuove generazioni e che, non solo non sanno espandersi, ma falliscono anche nel difendersi.

Resta una terra di struggente nostalgia, sia per coloro che la guardano ricordando il passato, sia per chi la vive pensando al futuro.

Resta una terra indifferente che “sempre ebbe ed ha l’intenzione a tutt’altro che alla felicità dei lucani o all’infelicità e che, anche se le avvenisse di estinguere tutta la sua specie, non ne se ne avvedrebbe”.

In un film che ha appena compiuto i suoi primi quarant’anni, come la generazione degli emigranti di ritorno dell’ondata della fine degli Settanta, un disarmante Massimo Troisi cercava in tutti i modi di togliersi di dosso l’etichetta di emigrante che gli veniva attaccata ogniqualvolta diceva di essere napoletano e di voler viaggiare. Non ci è riuscito lui, che alla fine, ci rinuncia e si dichiara, esausto, emigrante. E in tanti non ci riusciamo ancora oggi.

Siamo tutti emigranti, in atto e in potenza, effettivi o mancati, seduti alla panchina della stazione di Eboli, bloccati nel dilemma tra il partire definitivamente e il tornare indietro, salendo su un treno utopico che attraversi entrambi i capoluoghi lucani e che ha per capostazione due “leoni rifiniti e maceri dall’inedia” identici a quelli che, tanto tempo fa, ebbero appena la forza di mangiarsi un finissimo Islandese, cocciuto ed esasperato, come un lucano di oggi.

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