I FIAMMIFERI ACCESI DI MAURO ARMANDO TITA
Lettere lucane
Sono molti anni che leggo gli interventi e le riflessioni del “sociologo di strada” – è lui a definirsi così – Mauro Armando Tita. Credo che nessuno come Tita abbia scritto sulla Basilicata con tale appassionata, puntuale e disperata ostinazione. Quasi tutti, prima o poi, gettano la spugna, e si chiudono nel silenzio – è capitato a me, e sicuramente ricapiterà; ed è capitato e ricapiterà ancora a tanti altri. Tita no; Tita non si è mai arreso. Ogni giorno ha fatto almeno un passo nel deserto del pubblico dibattito lucano. Lo leggo da almeno quindici anni e ancora, dopo quindici anni, è lì con le sue carte, i suoi studi, le sue idee sulla nostra terra. Ieri mi ha mandato un articolo che ha scritto per la “Gazzetta” nel quale auspica una sorta di raduno dei figli degli emigrati che per le crudeli leggi elvetiche non potevano entrare in Svizzera coi loro genitori, e di tutti quelli che sono in qualche modo rimasti psicologicamente mutilati dall’emigrazione – per esempio le vedove bianche, o i figli di padri emigrati e mai più tornati. Temi che conosco da vicino, essendo figlio di emigrati in Svizzera, e parente di molti emigrati in Argentina. Al di là del tema specifico, però, c’è sempre in Tita questo profondo impulso morale a risarcire i sofferenti, quest’istinto quasi donchisciottesco di lenire le ferite e le mutilazioni del passato, di accarezzarle, di sanarle attraverso la parole e la memoria. Quando negli anni ho provato a parlare degli anni svizzeri con i miei genitori – che hanno vissuto esperienze durissime – ho notato che in loro prevaleva la reticenza, il bisogno di dimenticare. A differenza di Tita, ho smesso di interrogarli. Ma confesso di ammirare profondamente quest’intellettuale che continua ad accendere fiammiferi nonostante gli si spengano continuamente in mano. La sua fede morale nella parola e nella memoria ha qualcosa di commovente.