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LA COMUNIONE DEI MORTI E DEI VIVI IN LUCANIA

Lettere lucane

Sono andato via dal mio paese a vent’anni. Non ho trascorso un solo giorno senza pensarlo, ma intanto sono passati venticinque anni. La cosa strana che è accaduta alla mia memoria di emigrante è che ho cominciato a ripensare al decennio cruciale che salda infanzia con età adulta con una sorta di pensiero mitico, perché in alcune menti particolarmente vocate alla suggestione magica o poetica gli anni della scoperta della vita si cristallizzano in immagini da paradiso perduto. Vivo ovviamente con intensità il presente e annuso con naso di cane il futuro, ma a ossessionarmi è il passato, le cose accadute per la prima volta, le memorie sempre più intermittenti, i cari morti. Non so se ci siano popoli più portati a vivere guidati dal pensiero del passato e della morte, ma io dalla mia terra ho imparato anche questo, a sentire una strana ma profonda comunione tra la comunità dei vivi e la comunità dei morti. Scrivo questa “lettera” da Rotonda, poco dopo dopo essere andato a fare visita al cimitero. Spesso mi chiedo, camminando in piazza, dove sia finito il paese che ricordo io – quello che, appunto, mi si è cristallizzato nella mente negli anni d’oro della scoperta della vita. Un pezzo di quel paese ancora c’è, ma tre quarti è emigrato, oppure è finito al cimitero. Tanto che spesso mi dico, osservando le lapidi del cimitero, che conosco più persone morte che vive. Io so bene che viviamo un tempo che considera inutili i morti, e che è tutto proiettato con euforia nel futuro; ma io sento di appartenere a un’altra civiltà, che era proprio caratterizzata da questa riconoscenza e da questa nostalgia per chi non c’è più, per chi ci ha insegnato le cose e poi ha smesso di vedere e di parlare. Quando guardo le immagini degli amati morti io sento di appartenere a un vincolo che trascende il presente, e a un luogo dove i vivi sono vicini ai morti, e i morti sempre a fianco ai vivi.

diconsoli@lecronache.info

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