URSULA FRANCO : DIARIO DAL CARCERE DI GORGONA
Il direttore del carcere di Gorgona: finire qui non conviene più né ai detenuti né ai poliziotti
#uncasoallavoltafinoallafine
Casa di Reclusione di Gorgona
di Ursula Franco *
Nel 1995 ho ricoperto l’incarico di medico nella Casa di Reclusione di Gorgona, un carcere che si trova su una piccola isola dell’arcipelago toscano, in provincia di Livorno.
Direttore il dottor Carlo Mazzerbo.
Ecco alcuni stralci del mio diario dell’epoca:
“Sull’isola risiede un’unica nativa, novantatreenne, mai madre, la Zietta, della famiglia dei Citti, che, ai tempi, erano tanti e tutti pescatori d’acciughe.
Una donna che neanche il contatto ormai quasi centenario con gli esseri più derelitti e sfortunati ha addolcito nei tratti e nei giudizi.
Ha gli occhi chiari dei Citti, i capelli lunghi e bianchi raccolti in una crocchia e veste di lana pesante anche d’estate.
I detenuti le hanno costruito un bagno in camera e lei non l’ha mai usato, si lava da sempre nell’acquaio.
La Zietta ha le gambe scure e squamose per la gangrena secca secondaria al diabete.
Il pranzo e la cena le arrivano dalla mensa delle guardie, è il detenuto V.M. ad accudirla, cinquant’anni che sembrano settanta, e lei non solo non ringrazia ma gli fa pure gli sgarbi.
V.M. lavora al bar e alla mensa degli agenti, è di Bari, sta scontando una condanna a 14 anni per duplice omicidio a causa d’onore, ha ucciso, nell’impeto d’ira suscitata dalla vergogna per l’offesa all’onor suo e a quello della sua famiglia, una sorella ed il marito di un’altra sorella colpevoli d’una illegittima relazione carnale.
Nel pomeriggio ho visitato un agente che, per la seconda volta, s’è preso lo “scolo dalle puttane di Livorno”, dice d’essere sfortunato.
Dopo un diverbio col maresciallo, B.A.B. è venuto da me quasi piangendo, minaccia di tagliarsi. Ho cercato di dissuaderlo.
Alla fine si è distratto parlando del couscous di pesce: “Si fa un soffritto d’aglio, s’aggiunge la salsa di pomodoro, poi le carote, le patate a tocchi e, quando le verdure sono cotte a metà, il pesce a pezzi. La semola si cuoce a vapore, si lavora con le mani, s’aggiunge poi il brodo e si cuoce il tempo che basta a farlo asciugare, infine si servono il pesce e le verdure sulla semola”.
B.A.B., marocchino di Casablanca, dentro per spaccio di droga, è di una bellezza rara, dopo il lavoro veste la djellaba.
Prima di cena, ho visitato ancora Morris B., ha la febbre alta ma rifiuta la terapia.
Anche Leo sta male, si lamenta per la solita emicrania e, nonostante la febbre, Morris B. ha lavorato al posto suo all’inceneritore.
Stamani Morris B. è tornato in ambulatorio di buon’ora perché gli si è gonfiato il braccio per il morso di un maiale. S’è fatto fare gli impacchi di alcool dall’infermiera.
Morris B. è carcerato da quando, a diciotto anni, uccise un compagno d’armi.
È un animalino magro magro che puzza più dei maiali che governa, i capelli raccolti in un codino che sembra un pennellaccio.
Ha i denti neri a causa delle quaranta sigarette al giorno, usa anche il cerottino perché si vuole spaccare i polmoni, dice lui, così da lasciare l’isola per una radiografia. Vorrebbe passare qualche anno in un carcere francese, ne parla come degli scambi nei dottorati di ricerca.
Ha solo trentadue anni ma sembra un cinquantenne tanto è sfinito.
Mi hanno chiamata in Seconda per un detenuto che vomitava.
Dalla jeep ho visto gli “sconsegnati” del Transito che passeggiavano nel campo di bocce. Facevano cinque passi avanti e cinque indietro, sono condizionati ancora dall’ora d’aria del carcere chiuso.
Stamani Morris B. è arrivato in ambulatorio molto prima dell’apertura. L’ho trovato tutto bagnato ad aspettarmi. Il braccio si sta sgonfiando, mi ha mostrato un tatuaggio da 400.000 lire ed una poesia alla madre che si sta scrivendo sul polpaccio, mi ha detto: “Per fortuna i tatuaggi ora sono legali, passati da sfregio permanente ad opera d’arte”
Oggi è piovuto per quasi tutta la giornata e sull’isola c’è nebbia.
Alle cinque, con il capoposto, sono stata da Leo per la solita puntura.
È “sconsegnato” come Morris B. e vive alle Capanne, vicino all’inceneritore dove lavora. Si è fatto la cucina in bagno così che gli è bastato un solo lavandino. Da una scaletta scomoda si sale nel soppalco dove dorme, tra cicche e spazzatura ha messo un materasso. L’agente è talmente disgustato che si rifiuta di salire.
Leo ne approfitta per parlarmi, è pugliese ma nel carcere di Lecce non è voluto stare perché troppe erano le tentazioni che gli avrebbero prolungato la permanenza.
Tornata in ambulatorio mi riferiscono dall’Agricola che Morris B. minaccia di tagliarsi.
Morris B., che da ieri minaccia di tagliarsi, è venuto in ambulatorio a chiedermi otto giorni di riposo.
Tra cinque anni, quando uscirà, dice lui, farà l’elettricista. Mi racconta che, per il reato, di anni ne ha avuti venti.
Il compagno di naia l’ha ammazzato pugnalandolo con una baionetta e poi ha nascosto il morto dietro un cespuglio. Qui a Gorgona si mormora che l’abbia fatto per una storia di soldi, circa dodicimila lire.
Stamani ho trovato in ambulatorio il tiramisù ed un sacchetto di biscotti appena sfornati, l’aveva portati caldi il pasticciere.
Antonio R., napoletano, detenuto per mestiere.
Il tiramisù sull’isola lo fa con la crema pasticcera, la panna e il pan di Spagna.
Ha l’ernia iatale, la gastrite ipertrofica, l’ulcera duodenale e l’epatite B e per questo lo sposteranno dal forno, ne avrà gran delusione.
Ha il viso abbronzato, occhi chiari, piccoli e vivaci, il corpo di un atleta nonostante la malattia.
Si è fatto tatuare un veliero enorme su torace e addome, sul dorso invece s’è fatto scrivere “MORIRÒ UCCISO”
Ha poco più di quarantanni, moglie e tre figli. Dicono le guardie che ogni volta che esce in permesso “fa come i conigli”
È a fine pena, deve scontare ancora sei anni dei trenta cui è stato condannato.
Mi racconta che era a Poggioreale durante il terremoto dell’80 e che un detenuto ricoverato in infermeria fu finito a coltellate.
Da quando sono sull’isola, ormai quasi due mesi, c’è stato un solo giorno di sole e di bonaccia.
F.B. ha perso un occhio a causa di uno spruzzo di calce. Sono stata a visitarlo in cella. In sezione è molto rispettato.
Gli altri detenuti lo chiamano “l’avvocato”.
Qui a Gorgona si mormora che ne sappia più d’un giudice.
Morris B. ha passato il pomeriggio in sala d’aspetto a ferirsi tra i calli della mano con una grappetta e minaccia di lancianrsi contro un muro per slogarsi una spalla per lasciare Gorgona per una una radiografia d’urgenza.
Dalle Sughere però non ci vuole passare perché lì, dice, sgozzerebbe una guardia, “così che paghi uno per tutti”
Il suo bisogno d’attenzioni, a volte, mi sfinisce.
Morris B. ha fermi i permessi perché l’ultima volta s’è fatto condannare ad altri sette anni per omicidio tentato.
Sono ormai quattro anni che non vede i genitori, dice che il padre sta male e lo devono operare.
Tempo fa, ha ammazzato una scrofa a bastonate.
Dopo una breve burrasca il sole ha asciugato l’isola.
Ho cenato alla mensa con il bollito ed il brodo caldo. Se solo il vento potesse portar via il dolore denso che si è stratificato su Gorgona negli ultimi cent’anni.
M. s’è ricordato della mia promessa che avremmo parlato, così ho avuto nei particolari la storia della sua vita.
È piccolo, abbronzato, indossa occhialini da vista rotondi e ha le “bozze frontali da criminale”
Mi dice del padre invalido, mutilato ad entrambe le gambe, e di quando si toglieva le protesi per riposare i monconi, dei suoi otto fratelli, di cui non ricorda tutti i nomi, delle due sorelle morte prima dell’anno d’età, una per ustioni, l’altra, dice, l’ha uccisa lui facendola cadere.
Mi racconta di quando, ancora agli arresti domiciliari, conobbe una donna che viveva al piano di sopra del palazzo.
Per entrambi fu un colpo di fulmine tanto che decisero di fare una “fuitina”, poiché lui non poteva lasciare la propria abitazione, scese lei dal piano di sopra e si “coricarono” nel letto dei genitori di lui.
Dice M. che lui lo doveva capire che lei non “lo voleva tanto bene perché passò più di un quarto d’ora prima che lei telefonasse che scendeva”.
M. è carcerato dall’82, da quando, a soli quindici anni, uccise un uomo durante una rapina.
Oggi Morris B. si è rasato, si è lavato i denti e pettinato, si è messo addosso vestiti puliti e quasi non puzza. Il maiale che l’ha morso è un piccolo di tre chili.
Nel pomeriggio ho preparato i campioni d’urina per l’esame degli oppiacei dei detenuti rientrati dal permesso, sono sempre molto stressati dopo i controlli degli agenti.
Sulla cartella dell’A. leggo della sua sifilide. L’A., che ha quasi settant’anni, entra ed esce dalla galera da quand’era minorenne. È stato processato e carcerato con tutti i figli suoi. A lui la pena, dice, gliel’hanno “maggiorata per l’aggravante del cattivo esempio”.
Mi ha illuminato sul suo enfisema, gli spurghi, le bronchiti varie ed i catarri che, a suo dire, gli portano il “bottino in bocca”
Il detenuto che s’è ustionato nel giugno scorso, torace, addome e genitali ha il prurito e grosse retrazioni.
Tra i nuovi giunti c’è uno dei complici di Pietro Maso, uno dei quattro ragazzi di età compresa tra i 17 e i 19 anni che, nell’aprile di 4 anni fa, dopo aver atteso al buio nella cucina di una villetta di Montecchia di Crosara che i signori Maso rientrassero in casa e, salita la scala, accendessero la luce, li colpirono ripetutamente con un bloccasterzo, una pentola ed una spranga per un tempo interminabile, 53 minuti, e poi, dopo la mattanza, per crearsi un alibi, andarono a ballare in discoteca.
Il giorno dopo, Pietro Maso si recò in banca, non senza difficoltà, svuotò il conto corrente dei genitori e di lì a poco fu processato e condannato a 30 anni di reclusione, poi confermati in Appello e in Cassazione.
Per scherzo, a fine giornata, ho chiamato il centralino fingendomi un medico dell’O.P.G. di Montelupo Fiorentino, l’agente mi ha risposto: “Qui Manicomio Criminale di Gorgona”
Durante la mia assenza hanno ricoverato M. nel reparto chiuso della Psichiatria di Pisa.
Si era spaccato la testa contro un muro e, nel delirio, il suo “ego” s’era fatto smisurato tanto che ripeteva d’essere Totò Riina.
Piove ormai da qualche giorno e le strade sono una melma pastosa dove si affonda.
Un anno fa, a causa delle piogge interminabili, il fango convogliato nella Valle dello Scalo ha invaso una casa e trascinato via, attraverso una finestra, una cugina della Zietta.
La donna, soccorsa da un’agente, che ne vide un braccio in mezzo al fango che correva al mare, s’è fatta tre mesi d’ospedale e a Gorgona non è ancora tornata.
Morris B. ha finalmente avuto il permesso per una radiografia.
L’ho incontrato al porto stamattina, era pulito e profumato e s’era vestito alla moda di quando l’avevano arrestato, con lo spencer scuro, la cravatta stretta di pelle nera, i jeans con l’orlo rovesciato e i Ray Ban. La radiografia è solo una scusa per farsi una specie di vacanza.
Siamo vicini a Pasqua e di notte sento belare le pecore alle quali hanno ammazzato gli agnellini.
Mi hanno chiamata a casa di un agente, la moglie che era incinta al terzo mese, il feto l’ha perso nel bidè.
Ha trent’anni, è uno scricciolo che peserà sì e no quaranta chili. L’ho messa a letto con la terapia, perché, a causa del libeccio, l’isola non si può lasciare (…)”.
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* Medico chirurgo e criminologo, allieva di Peter Hyatt, uno dei massimi esperti mondiali di Statement Analysis (tecnica di analisi di interviste ed interrogatori), si occupa soprattutto di morti accidentali e suicidi scambiati per omicidi e di errori giudiziari. Recentemente entrata nel Forensic Team della COLD CASE FOUNDATION, una Fondazione Americana che si occupa di casi irrisolti, Executive Director: FBI Profiler Gregory M. Cooper
Il direttore del carcere di Gorgona: finire qui non conviene più né ai detenuti né ai poliziotti
Il direttore Carlo Mazzerbo:
“Il nostro idealismo? Sconfitto da lassismo e burocrazia”
Pochi fondi, meno lavoro, più detenuti.
Così va in crisi la colonia penale nata 150 anni fa sull’isolotto toscano. Era un modello. Adesso rischia di diventare peggio di una galera.
Z. è un ex ufficiale dell’esercito russo.
È accusato di omicidio. Uscirà nel 2033. Quando può lavora in falegnameria. Ed è particolarmente bravo.
Si lamenta: “Qui non ci voglio più stare”. Dice che non gli pagano tutte le ore lavorate. “Meglio tornare in carcere. Anche duro”.
B., dodici anni nella legione straniera. Anche lui ha un appuntamento con il 2033, data del suo fine pena. Sconta condanne per violazione della legge sulle armi e molti altri reati. Ma preferisce non parlarne. Non si lamenta. Sa aspettare. Fa della pazienza la sua via di fuga.
Quando G. è arrivato, molti operatori hanno cercato di aiutarlo. Vedovo con due figlie da crescere… È stato lui ad uccidere la moglie. C’è un uomo che abita in mezzo al mare. Misura il tempo in miglia marine (18, l’equivalente dei 34 chilometri, che si percorrono in 40 minuti, ma dipende dalle condizioni atmosferiche) e le vite degli altri seguendo il ritmo lento delle stagioni.
Inverni interminabili e freddi, estati estenuanti per il caldo e l’umidità. La vita è così sull’isola di Gorgona nell’Arcipelago Toscano, dove nei giorni di grazia si scorge la linea di costa di Livorno. Da lì partono e tornano le motovedette della polizia penitenziaria. L’unico collegamento con questi tre chilometri di lunghezza per due di larghezza.
Due sono anche i viaggi al giorno: al mattino e al pomeriggio. Dal mare si posso apprezzare i 225 metri di altitudine che nascondono le bellezze di questo ecosistema con il nulla intorno. Un solo residente stanziale: Luisa Citti, 92 anni, che qui ci è nata. Gli altri 20-25 che risultano sono ciò che resta della storia: nuclei familiari che conservano, con concessione demaniale, l’uso delle case appartenute alla loro famiglia per generazioni, abitate per brevi periodi all’anno, soprattutto in estate. Fine: non c’è un bar, un negozio, un ufficio postale.
Solo un presidio medico (aperto in base alle esigenze) e una chiesa dove si dice messa la domenica alle 11. Benvenuti nell’ultima isola colonia penale d’Italia, che compie 150 anni. Lo divenne ufficialmente nel 1869. Da qui non si scappa. Si lavora e si produce, almeno secondo le intenzioni.
È il piccolo mondo di Carlo Mazzerbo e delle sue 26 guardie penitenziarie, che controllano i 96 detenuti che scontano in questa presunta oasi gli ultimi anni di (fine) pena. Mazzerbo ci è tornato dopo esserne stato responsabile dal 1989 al 2004, e poi dal 2008 al 2010. In mezzo gli incarichi ricoperti a Porto Azzurro, Massa Marittima.
Ma Gorgona ritorna sempre. Oggi Mazzerbo è direttore della casa circondariale di Livorno di cui l’isola è una sezione distaccata: è considerata un modello detentivo e ad esso lui ha legato il suo nome. L’unità di misura della gioia è il mare calmo che consente sbarchi regolari ai familiari dei detenuti e agli approvvigionamenti.
L’isolamento è contemplato (sempre) e costa. In termini economici (il gasolio, la manutenzione delle strutture abitative) e di sopravvivenza. Mazzerbo sorride: “Noi un modello?”, e parla sempre al plurale: “Abbiamo solo applicato quello che la legge prevede. Niente di più. È ciò che chiamiamo recupero”.
Ma non è stato sempre così. Quel modello va in crisi nel 2004, l’Annus Horribilis: due omicidi infrangono il mito. Forse Gorgona non è proprio un esempio di regime detentivo alternativo. “Bisogna prendersi dei rischi” spiega Mazzerbo.
“E avere il coraggio di porsi una domanda: che me ne faccio di un buon detenuto, se poi torna a essere un pessimo cittadino?”. Di certo non sembrano aiutare tempi come questi, dove il buonismo suona come una bestemmia quando lo si coniuga all’idea di sicurezza. Non le sembra un ragionamento un po’ azzardato? “Va di moda il concetto che ai detenuti non spetti nulla più del vitto e dell’alloggio. Bisogna buttar via la chiave. Problema risolto. Il nostro difetto? Siamo idealisti frenati dal lassismo e dalla burocrazia”.
E il modello di carcere buono lo diventa sempre meno. Lo sbarco è alle 9.30: sul molo la garitta assicura i controlli. Sull’imbarcazione c’è un detenuto che torna da un permesso; con lui, un nuovo arrivo dal carcere di Livorno. Il punto di raccordo è lo spaccio, una terrazza vista mare dove gli agenti trascorrono la maggior parte del tempo quando non sono di turno. Qui tutto è diverso. Bisogna fare l’abitudine non ai rumori, ma ai suoni.
Il vento, la risacca, il frastuono provocato dallo stridio dei gabbiani interrotto solo dai motori dei trattori guidati dai detenuti che arrancano su sentieri dissestati a precipizio sul mare che portano nelle aree-lavoro dislocate lungo l’isola. In alto c’è l’azienda agricola dove si producono formaggi, ricotta e ortaggi. Ancora più su ci sono le stalle con gli animali da accudire. A Gorgona si comincia presto: alle 5.30 del mattino. Una pausa a mezzogiorno per il pasto da consumare in mensa. Poi di nuovo al lavoro fino alle 16.
“La vocazione di Gorgona è stata sempre quella di permettere di lavorare”, sostiene Mazzerbo, “nessuno deve starsene in disparte. Ma i fondi sono ormai insufficienti e cresce il malcontento. D’altronde la possibilità di guadagnare qualcosa da mandare magari a casa costituisce pur sempre un incentivo. Se viene a mancare anche questo…”.
Le aree dei detenuti sono delimitate e i controlli rappresentano una sorta di patto non scritto. Un reciproco rispetto per evitare guai. È il modo con cui le guardie penitenziarie mantengono l’ordine a dispetto di un organico piuttosto modesto. I detenuti sono aumentati, mentre parte del personale è andato in pensione o, trasferito, e non è stato rimpiazzato.
“Fino al 2013 un agente poteva chiedere di prestare servizio sull’isola”, racconta uno di loro, “in palio c’era la possibilità di vedersi riconosciuto un bonus di 4 punti aggiuntivi in graduatoria”. Oggi non funziona più così. Il paradosso? Da meta desiderata, Gorgona è diventata un posto da cui tenersi alla larga. “E consideri anche la vita privata… Licenze brevi, magari una volta al mese, per raggiungere paesi in Campania o in Sardegna. È così che le famiglie si sfasciano”.
Eppure qui i buoni (le guardie) e i cattivi (i reclusi) mischiano le rispettive esperienze. Studiare insieme per la licenza media, allestire una band musicale o un armo di canottaggio. È il “volto umano” della detenzione che ormai fa a pugni con la crisi. Un tempo i detenuti venivano scelti con grande attenzione: buone condizioni di salute, nessun legame con la criminalità organizzata, e un occhio alle competenze lavorative. Oggi c’è un po’ di tutto: romeni, polacchi, tunisini che riproducono in piccolo la vita del clan.
“Senza lavoro, resta solo il tempo. Non passa mai” dice M., detenuto dell’area Articolo 21, un padiglione separato dove abitano i buoni che si autogestiscono, a cominciare dai pasti che si cucinano da soli. “Ce facímm’ e fatt nuosr ma è dura. È vero, molti vorrebbero tornare in carcere perché hanno paura che a stà senza fa’ niente a capa non l’aiuta…”.
Perché Gorgona assomiglia a un videogioco che riproduce sempre lo stesso meccanismo. Giornate tutte uguali. Come le facce che si incontrano, i percorsi fatti migliaia di volte, i gesti sempre identici. A un certo punto finiscono anche le storie da raccontarsi.
L’unica cosa in cui si spera è andar via. Presto, prima che si può.
Lo fanno anche i familiari dei reclusi che si imbarcano per tornare verso Livorno dopo la visita.
E non si voltano a guardare il molo che si allontana. Proprio come ho fatto io.
{da Venerdì di Repubblica 15/04/2019}