PERCHÉ NON HO FATTO LA CARRIERA UNIVERSITARIA
Lettere lucane
Ho appreso solo adesso, e casualmente, della morte del professor Maurizio De Benedictis, titolare a Roma, presso “La Sapienza”, della cattedra di Storia e critica del cinema. In un’altra vita – ormai sono trascorsi quasi vent’anni – sono stato suo assistente volontario all’Università. All’epoca eravamo molto amici, e fui anche suo editore – ricordo che veniva spesso a cena nella casa dove si abitava ai tempi, un piccolo appartamento all’ex Pantanella, sulla Casilina. Maurizio aveva cultura cinematografica e letteraria di tipo enciclopedico, ma lo ricordo sempre inquieto e tormentato, benché molto amato dagli studenti. Per un periodo, dunque – in quella fase della vita in cui bisogna decidere “cosa fare da grandi” – provai anche a capire se la strada universitaria facesse per me. Ma proprio grazie all’esperienza che mi fece fare Maurizio capii che non faceva per me, l’Università: in primo luogo perché bisognava aspettare anni e anni, prima di sperare di avere un incarico retribuito – tendenzialmente quello universitario è un lavoro per figli di ricchi, o per asceti profondamente motivati; in secondo, perché non avevo la minima attitudine all’imparzialità durante gli esami. Lo confesso con vergogna, ma quando davanti a me si sedeva uno studente o una studentessa di origini lucane, io immediatamente mi intenerivo, perché immaginavo le loro camere doppie, i pacchi spediti da giù coi pullman, i sacrifici dei genitori. E sentivo un impulso irrefrenabile all’indulgenza e alla magnanimità. So che è poco etico quello che sto confessando, ma non appena leggevo sul libretto universitario il nome di un paese lucano – Melfi, Tricarico, Lagonegro, ecc. – immediatamente scattava in me una reazione protettiva e paternalistica. Ragion per cui decisi di troncare sul nascere la mia carriera universitaria, preferendo ambienti più adatti alla mia anarchica e disordinata visceralità.