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IN CHE MODO QUESTA PANDEMIA CI HA CAMBIATI?

Lettere lucane

Ieri mattina mi ha chiamato un amico di Potenza. A un certo punto mi ha fatto una domanda difficile: “Ma insomma, a te questa pandemia ti ha cambiato?” Ho risposto un po’ frettolosamente; ma dopo, quando sono rimasto solo, me lo sono richiesto seriamente. Mi ha dunque cambiato questa pandemia? No, non mi ha cambiato – o, almeno, non credo. Certamente è cambiato il mio punto di vista sui mutamenti della società moderna – dal ruolo della medicina a quello di internet –, ma io, intimamente, non mi sento cambiato. Penso e faccio le stesse cose di prima. E questo perché, anche prima, io ero precario: precario nel lavoro; precario nella mia condizione di sradicato; precario in quanto uomo consapevole della propria finitudine; precario poiché tendenzialmente laico, pluralista, relativista, “liquido”; precario perché da sempre assediato da fantasmi, paure, angosce, insicurezze di ogni tipo. E dunque no, la pandemia non mi ha cambiato. La cosa che però in me è sopraggiunta è una sorta di insofferenza nei confronti della crescente clinicizzazione della società e di chi pensa che le risposte alle domande della società debba darle unicamente lo Stato, che non aveva mai avuto, almeno dal dopoguerra in poi, tutta questa centralità. Insomma, sono diventato un po’ più fatalista e un po’ più liberale. Pur avendo paure come tutti, sono per la “società aperta” di Popper – sono anti-platonico, ovvero anti-totalitario. Qualche settimana fa ho riletto “La città del sole” di Tommaso Campanella e l’ho trovato semplicemente agghiacciante, per quanto è soffocante e coercitivo. Ma, come tutti, mi sento insicuro, precario, esposto senza difese ai capricci del caso. La pandemia mi ha solo confermato che il coraggio non è l’assenza della paura, ma la forza d’animo di saperla governare. Non avevo certamente bisogno del Covid per sapere che siamo creature ogni giorno sospese tra la vita e la morte.

diconsoli@lecronache.info

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