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ORIENTE ISLAMICO E OCCIDENTE CRISTIANO : INCONTRO A PIÙ VOCI IN TEATRO STABILE

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INCONTRO A TEMA 

Tema dell’evento culturale “Oriente islamico e Occidente cristiano oggi insieme nel segno della Fraternità umana nel segno di Papa Francesco e del Grande Iman Al-Tayyb per la salvezza dell’Uomo e del Creato” 

Oriente islamico e occidente cristiano

Martedì 28 settembre 2021, alle ore 16.30 al teatro Francesco Stabile, incontro sul tema, promosso dal Premio letterario di Basilicata, il Circolo culturale Silvio Spaventa Filippi e la Fondazione Leonardo Sinisgalli, con il patrocinio della Regione Basilicata, della Provincia di Potenza, del Comune di Potenza – Assessorato alla cultura e della Biennale BILART.

Potenza: “Oriente islamico e Occidente cristiano”

A Potenza il 28 settembre incontro di grande rilievo, dalle ore 17:000, al Teatro Stabile si è discusso di “Oriente islamico e Occidente cristiano oggi insieme nel segno della fraternità umana nel segno di Papa Francesco e del Grande Iman Al-Tayyb per la salvezza dell’Uomo e del Creato”

In occasione del cinquantennale del “Premio letterario Basilicata”, è stata ospitata questa manifestazione di grande livello culturale, promossa dal prof. Luigi Serra (Preside della Facoltà di studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università degl Studi Orientale di Napoli) 

e dal prof. Guido Cipollone (Accademia Ambrosiana e già Ordinario di storia medioevale presso la Pontificia Università Gregoriana).

Sono previsti interventi di Franco Cardini (Università di Firenze), Mahmoud Salem el-Sheikh (Accademia della Crusca), Amedeo Di Maio (Università Orientale di Napoli), Pietro Laureano (Università di Firenze) e Aurelio Pace (Foro di Potenza). Interverrà anche l’Ambasciatore Riccardo Sessa (vicepresidente della Società Italiana per le organizzazioni internazionale e già Direttore generale del Mediterraneo al Ministero degli Esteri e ambasciatore in Iran e Cina).

Durante l’evento il prof Cipollone, presenterà il suo ultimo lavoro: “Né crociata né gihad – Quando papi e sultani avevano lo stesso linguaggio di guerra”. Una particolarità del libro è che in copertina ha la foto del mosaico considerato opera unica, che mostra Isa(Gesù) che libera prigionieri cristiani e musulmani vittime di guerre sante.

Dalla epistola di Francesco I “Fratelli Tutti” molti avvenimenti che hanno accomunato i fedeli di entrambe le religioni, ad iniziare dall’incontro tra il Papa e l’Imam e passando per l’Italia, i primi a farlo, l’evento webinar “Fratelli Tutti” delle associazioni ANMI e ANaMeC.

Le civiltà del Mediterraneo: rapporto tra Occidente e Islam
“Talvolta tutti i mari sembrano uno solo, specie quando la traversata è lunga; talvolta ognuno di essi è un altro mare. Il Mediterraneo è a un tempo simile e in altro diverso a se stesso”.
P. Matvejevic, Breviario mediterraneo.
Il Mediterraneo è culla e centro di irradiazione delle grandi religioni monoteistiche, e, per questo, terreno di indagine privilegiato per analizzare le dinamiche di interazione tra le rispettive identità culturali, rispetto alle quali – argomenta Donati – proprio le religioni sono elemento fondante, poiché ci permettono di dare “senso a ciò che è contingente mediante la relazione all’assoluto” [2008: 130] e ci “forniscono un senso di identità e di orientamento nella vita” [Huntington 2000: 135]1. Questo excursus risponde anche all’intento di offrire, da una prospettiva storico-culturale, spunti di riflessione sulle motivazioni soggiacenti agli spostamenti che da sempre, e oggi soprattutto attraverso le migrazioni, solcano le acque di quel mare che Braudel aveva definito “uno spazio-movimento”, in cui tutto ciò che lo attraversa e lo avvicina “è afferrato dalla corrente della sua vita sanguigna, portato lontano, depositato, nuovamente trascinato, trasportato senza fine, e magari buttato fuori dai suoi limiti” [1986, vol. I: 290].
È certamente una forzatura ridurre il pluriverso mediterraneo alla sola dicotomia Occidente- Islam2: il Mediterraneo è piuttosto “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre” [Braudel 1987: 7). Di queste, l’occidente cristiano e il mondo arabo- islamico – a loro volta approssimazioni troppo uniformanti per macrocosmi così articolati al loro interno – sono tuttavia gli eredi principali, poiché ne hanno assorbito mentalità e costumi, dando nuovi significati a valori antichi, che attraverso di essi sopravvivono e continuano a costituirne la sostanza [ibid.: 103]. “Così l’Occidente – spiega ancora l’autore – non fa che continuare il mondo
1 Quello tra identità e religione è, secondo Huntington, non solo un nesso profondo ma anche un accostamento illuminante per comprendere le relazioni conflittuali tra civiltà. L’instabilità identitaria 2 Il Mediterraneo è terra di origine e irradiazione anche della terza (o piuttosto la prima) grande religione monoteistica: l’ebraismo. Coprotagonista dello scenario geopolitico e culturale mediterraneo, essa è qui ricondotta all’interno della grande famiglia giudaico-cristiana, rispetto alla quale è mono in contrapposizione di quanto non lo sia la civiltà musulmana, che – come sostiene Braudel – “rispetto all’Occidente, è come un gatto rispetto al cane […] un Contro-Occidente, con le ambiguità che comporta
qualsiasi profonda contrapposizione, che è insieme rivalità, ostilità e acculturazione reciproca” [1987: 102].

latino, dal quale ha ricevuto lingua, spirito, diritto e molte altre cose ancora […]. L’Islam si dichiara prima di tutto erede del Vicino Oriente, di tutta una serie di culture e di economie e di scienze antiche” [ibid.: 104]. Allo stesso tempo, però, le molteplici influenze reciproche avvenute negli ambiti più diversi – artistico, culturale, sociale, economico e politico – tra le due grandi civiltà qui analizzate, mettono quantomeno in dubbio l’idea di una loro reciproca estraneità o di una netta contrapposizione [Cardini 1994: 13], tanto che lo storico americano Bulliet [2005] arriva persino a proporre l’idea di un’unica civiltà islamico-cristiana, convinto che “Né il percorso storico seguito dai cristiani né quello seguito dai musulmani possono essere capiti a fondo se non li si considera nella loro interrelazione”3.
In questo sistema eteroclito ma coerente che è il Mediterraneo, in cui “tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale” [Braudel 1987: 9] e nel quale, più che altrove, “le culture e le genti s’incontrano; si scambiano – anche senza volerlo e senza saperlo – costumi e informazioni” [Cardini, cit.: 12], risultano tuttavia complesse le dinamiche di interazione, e non poche sono le difficoltà teoriche e concettuali che da sempre ostacolano il dialogo tra civiltà cristiana e musulmana, dal momento che – come spiega ancora Cardini [ibid.: 105] – “a nessuna religione si può chiedere di rinunziare a parte della sua identità, cioè di perdere la sua intima natura, nel nome di un dialogo tra diversi”, tanto più se le due religioni in questione si basano su una visione opposta del rapporto tra teologia e diritto. L’inconciliabilità delle vedute, sostiene infatti Huntington, risiede proprio nel legame tra le identità culturali e le rispettive religioni e alla non-negoziabilità dei valori cui esse rimandano: “Qualunque fine universalistico possano avere, le religioni forniscono agli uomini un senso di identità stabilendo una distinzione di fondo tra credenti e non credenti, tra un ‘noi’ superiore ed un ‘altro’ diverso e inferiore” [ibid.: 135]. Eppure, nonostante il difficile dialogo sul piano prettamente religioso – dove tuttavia esistono elementi di convergenza – queste due civiltà “si sono imposte su aree geografiche contigue” [Bulliet, cit.] e “si specchiano nelle stesse acque, integrandosi e interagendo nella parabola della storia, presente o passata che sia” [Igonetti, in Ruthven 1999: IX]. È quindi possibile, oltre che proficuo, distinguere i diversi livelli d’interazione tra le due civiltà, nella misura in cui alla quasi incomunicabilità dogmatica ha fatto da contraltare un’intensa rete di relazioni economiche e socio-culturali. Se, infatti, il Mediterraneo deve alle due
3 “La cristianità occidentale – spiega, infatti, lo stesso Bulliet, autore, peraltro, del saggio La civiltà islamico-cristiana [2005] – ha elaborato un’immagine dell’islam come ‘Altro’ cattivo e ha diffuso un gran numero di convinzioni affinché questa immagine fosse mantenuta viva. Tuttavia tali convinzioni dipendono da una diffidenza preconcetta che persiste ancora oggi. In realtà gli sviluppi storici della cristianità occidentale e dell’Islam procedono secondo direttive parallele e così vicine che le due comunità potrebbero essere considerate come due versioni di uno stesso sistema socio-religioso, alla stessa stregua della differenza tra cristiani ortodossi e cristiani occidentali. Per otto secoli, i percorsi di sviluppo sono andati dalla stessa parte e in varie occasioni si sono quasi sovrapposti” [cfr.: Bulliet, “La nostra civiltà Islamico- Cristiana”, Corriere della Sera, 25/10/2005].

civiltà le guerre ideologico-religiose che ne hanno insanguinata la storia, e che si sono tradotte fino ad oggi in disprezzo ed esecrazione reciproca, allo stesso tempo esso “è stato loro debitore anche della molteplicità degli scambi” [Braudel, 1987: 112] che, come vedremo, hanno finito con l’estendere ad ogni livello una profonda e spesso inconscia interrelazione, non di rado vissuta come un’ambiguità lacerante.
Il sociologo tunisino Labib, nel fornire una panoramica storica del rapporto tra cultura arabo-islamica e alterità, sottolinea come la contrapposizione tra Islam e Occidente venga spesso fatta risalire “alla classica distinzione del diritto musulmano tra ‘dimora dell’Islam’ (dār al-Islām) e ‘dimora della guerra’ (dār al-ḥarb)” [2006: 41]: una frattura assoluta, un’ostilità permanente sul piano dogmatico-religioso che, tanto più alla luce della simbiosi tra legge divina e ortoprassi nella cultura islamica, dove “la civiltà è fondamentalmente una religione” [ibid.: 42], ha spesso ispirato le interpretazioni delle relazioni euro-islamiche, a tal punto che – avverte l’autore – “la totale chiusura di fronte all’ ‘infedele’ avrebbe impedito, secondo alcuni studiosi, la scoperta musulmana dell’Europa cristiana”, quanto meno fino alle soglie del XIX secolo, quando la colonizzazione costrinse le popolazioni musulmane a fare i conti con la cultura europea [ibid.: 42-43]. A tale chiusura, si sarebbe invece contrapposta la sete di conoscenza degli europei. L’autore tunisino contesta una tale impostazione, sottolineando la necessità di uscire dall’essenzialismo di queste contrapposizioni insanabili che oggi rischiano solo di alimentare l’idea di un inevitabile ‘scontro di civiltà’. Al contrario, Labib sostiene che se un certo disinteresse islamico è effettivamente esistito nei confronti dell’Europa, in particolare nel medioevo, questo non è da attribuire a un presunto sentimento innato di ostilità contro i cristiani. Questi, infatti, costituivano una delle tante culture con cui conviveva la variegata società arabo-islamica, al cui interno essi erano considerati, peraltro, “più sinceri degli ebrei, più benevoli, meno collerici”, nella convinzione che “la loro miscredenza sia meno grave e il loro castigo nell’aldilà sarà più lieve” [ibid.: 44]4. I conflitti religiosi, pertanto, non avrebbero impedito l’esistenza di relazioni pacifiche sul piano commerciale e culturale5, e la collaborazione si estendeva anche sul piano politico e militare: non rare, infatti, erano le alleanze islamico-cristiane in cui potenze dell’una e dell’altra parte si alleavano strategicamente, non solo
4 Sono parole dell’erudito arabo Al-Jāḥiẓ, vissuto tra l’VIII e il IX sec d.C. che Labib riporta a conferma dei rapporti privilegiati dell’epoca tra musulmani e cristiani.
5 A conferma delle proficue relazioni cristiano-islamiche, Labib illustra i rapporti tra Bisanzio e il califfato degli Omayaddi, seconda dinastia araba che tra il VII e l’VIII sec. d.C. regnò sull’Ummah (la comunità islamica) trasferendone la capitale a Damasco. “Il caso di Bisanzio – spiega, infatti, l’autore – contribuisce a ridimensionare la rigidità della contrapposizione religiosa. Questa regione di frontiera tra Oriente e Occidente ha conosciuto numerose guerre tra i musulmani e ‘Rūm’, il termine che si riferisce indistintamente ai bizantini, ai cristiani d’Oriente e agli ortodossi. Questi conflitti non hanno però impedito l’instaurarsi di intense relazioni politiche, commerciali e culturali” [2006: 46].

per ampliare le relazioni commerciali, ma anche per sconfiggere schieramenti di correligionari6. L’esistenza di queste iniziative di collaborazione, sottolinea ancora Labib citando lo storico francese Cahen [1983], favorirono la convivenza tra musulmani e cristiani anche in epoca di crociate, durante le quali le relazioni commerciale, rese possibili da un tacito accordo tra commercianti, non vennero mai del tutto interrotte, a ulteriore riprova che, il rapporto dell’Islam con l’Occidente, costituiva nel medioevo un “problematico complesso di relazioni storiche” [Labib et al. 2006: 47].
Analogamente, ma dalla prospettiva opposta, ossia quella della civiltà euro-cristiana, Cardini confuta l’idea che la conoscenza che il mondo cristiano aveva dell’Islam fosse incentrata esclusivamente su “fosche leggende, ingenue calunnie e ottuse manipolazioni” [cit.: 69]. Anch’egli sostiene, infatti, che, oltre alle importanti controversie sul terreno dogmatico, il problema del rapporto tra Occidente e mondo arabo-islamico sia stato molto più vasto e articolato, non privo tra l’altro di episodi di reciproca deferenza e occasioni di condivisione spirituale7; tali eventi, tuttavia, non riuscirono a sradicare quelle credenze che, diffuse fin dalla cristianità antica, dipingevano i musulmani come pagani e demonolatri [ibid.: 71]. Ad ogni modo, un certo contatto e quindi contesti di interazione e conoscenza reciproca furono possibili se non altro grazie alla contiguità geografica; sebbene, infatti, in gran parte del territorio europeo non vivessero comunità musulmane a differenza della cospicua presenza di fedeli cristiani in Terra d’Islam, l’Islam era comunque familiare non solo alla cristianità bizantina, estesasi a ridosso del mondo arabo-islamico, ma anche alla cristianità latina, a stretto contatto con gli arabi stabilitisi in Sicilia e in Andalusia. Proprio in Spagna, “luogo privilegiato dell’incontro”, venne tradotto il Corano intorno alla metà dell’XII sec., in una duplice versione in castigliano e latino che, pur con tante lacune e imprecisioni, alimentò il fiorire di studi islamici in Europa, mentre contemporaneamente cresceva l’interesse per la cultura musulmana in generale, ritenuta erede della filosofia e della scienza greche [ibid.: 74].
Alquanto diversa è invece l’impostazione di Huntington, il quale, pur riconoscendo la sporadica esistenza di contesti di convivenza pacifica, sostiene che il rapporto tra Occidente e Islam sia stato perlopiù “di intensa rivalità e di guerra calda a diversi livelli” tanto che “per entrambi, la
6 Labib cita al riguardo l’alleanza che il califfato degli abbasidi, succeduti nel 750 d.C. agli Omayyadi e insediatisi a Baghdad, strinse alla fine dell’VIII sec. con i franchi carolingi per opporsi invano al califfato di Spagna (fondato dall’unico membro superstite della famiglia Omayyade sterminata dagli Abassidi) e contro i Bizantini [ibid.: 46].
7 Cardini cita, come esempio emblematico, la corrispondenza tra Gregorio VII e l’emiro nordafricano Hammadid an-Nasir, il quale nel 1076 aveva indirizzato il suo saluto al pontefice attraverso il neo vescovo di Ippona Servandus, successore di Agostino, giunto a Roma per la sua consacrazione. Rivolgendosi all’emiro, il pontefice scriveva: “tu e noi… crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo” [1994: 72].

parte opposta ha sempre rappresentato ‘l’altro’ ” [cit.: 306]. Si tratta, per l’autore, di una conflittualità incessante, che avrebbe determinato a fasi alterne i successi delle due religioni nel corso della storia fin dai primi secoli dell’espansione arabo-islamica (VII e VIII sec.) verso l’Europa meridionale cristiana, e che si sarebbe poi riproposta con l’avanzata dei turchi ottomani negli ex territori bizantini, fino alla presa di Costantinopoli (1453) e il primo assedio di Vienna (1529). A questa duplice aggressività, la civiltà cristiano-europea oppose la sua violenta reazione, prima con la riconquista della Sicilia e di Toledo e l’avvio nel 1095 delle Crociate, e, successivamente, con la scacciata degli arabi dall’Andalusia nel 1492 e l’avvio di una strenua resistenza agli ottomani, la cui graduale ritirata apriva ai cattolici dell’Impero asburgico e agli ortodossi dell’Impero Russo il controllo rispettivamente dei Balcani e del Caucaso. Il tramonto ottomano e l’avvio del dominio coloniale europeo, a cui fece seguito dalla fine del secolo scorso la crescente ingerenza economica e militare degli Stati Uniti, segnarono la ripresa della rivalità che, secondo Huntington, ha assunto la forma di una conflittualità strisciante ma pericolosamente in crescita, tanto da paventare il ripristinarsi di una condizione di “guerra fredda” tra paesi musulmani e Occidente [ibid.: 303; 311]. Il politologo americano individua le ragioni di questa reciproca aggressività, alternata ma costante, nelle differenze e nelle similitudini tra le due religioni delle rispettive civiltà. Da un lato, infatti, la simbiosi tra religione e politica nell’Islam, in cui il potere teocratico penetra gran parte della vita sociale, risulta inconciliabile col secolarismo del cristianesimo occidentale, i cui mali sarebbero da attribuire, per i musulmani, proprio alla scelta di aver abbandonato Dio. Tuttavia, alla radice di questa conflittualità irredimibile vi sarebbe, secondo l’autore, una profonda somiglianza che renderebbe reciprocamente escludenti ciascuna delle due religioni: entrambe sono, infatti, monoteiste, universaliste e a vocazione missionaria, ossia non ammettono altre divinità, presumono di trasmettere l’unica vera fede, a cui i propri adepti hanno la responsabilità di convertire i ‘miscredenti’. A conferma di queste forti affinità, l’autore sottolinea la corrispondenza tra i concetti di ‘Crociata’ e ‘Jihad’, entrambi strumenti bellicosi di autodifesa ed espansione8. Una simile contrapposizione è però stemperata proprio dai movimenti migratori contemporanei che, come affermano Mezzadra e Nelson, sono “responsabili del rimescolamento e dello spiazzamento delle divisioni di civiltà tra Oriente e Occidente” [2014: 78].
8 Letteralmente ‘sforzo’, ‘lotta’, il termine jihad è comunemente riferito alla guerra santa dei musulmani contro gli infedeli per l’espansione e la difesa della comunità. Il jihad veniva proclamato dal Sovrano e impegnava tutta la collettività, il che ne fece ben presto uno strumento politico al servizio di conquiste secolari e di un’espansione straordinaria dell’Islam. Lo studioso americano Ruthven tiene tuttavia a precisare che, a conferma di quanto già accennato e in contrasto con la visione conflittualista di Huntington, mentre “I politeisti erano messi di fronte alla scelta tra la conversione e la morte”, la Gente del Libro (ebrei e cristiani) “aveva diritto a praticare liberamente la propria religione” in cambio del pagamento di una tassa. “A conti fatti, la tolleranza islamica in epoca premoderna è stata di gran lunga maggiore di quella della Chiesa cristiana medievale” [1999: 115-116].

Ad ogni modo, in questo avvicendarsi di contatti, scontri e sconfinamenti alternati, le crociate cristiane in terra d’Islam, condotte per circa duecento anni a partire dall’XI sec., incisero profondamente nelle relazioni con la civiltà islamica, soprattutto sul piano della rappresentazione che essa produceva dell’Occidente. Vivide ancora oggi nella memoria collettiva dei musulmani, ogni qual volta nell’attuale discorso politico-religioso entra il tema controverso del rapporto con la cultura occidentale, le crociate fecero, infatti, radicare nella coscienza islamica l’immagine di un Occidente conquistatore, in grado di “sottomettere i musulmani in casa propria” [Labib, cit.: 83]. Pertanto, nonostante il continuo e proficuo intessersi di relazioni commerciali, le crociate comportarono come conseguenza un arroccamento auto-difensivo della cultura arabo-islamica nella propria identità – come peraltro attesta la letteratura cavalleresca dell’XIII e XIV sec., dedita al recupero dei personaggi eroici di un passato mitizzato [ibid.: 87-88] – nonché un graduale restringimento della percezione musulmana dell’alterità, che andava sempre più riducendosi all’immagine minacciosa (ma allo stesso tempo affascinante) dell’Occidente9. In quei secoli, inoltre, crebbe l’intransigenza dei vertici islamici nei confronti delle minoranze religiose, comprese quelle monoteistiche, che nel periodo islamico classico (ossia fino al X-XI sec.), erano invece protette e libere di esercitare la loro religione in cambio del pagamento di una tassa di compensazione (Jizya) e del versamento di un’imposta fondiaria (kharaj). Allo stesso tempo, però, la grande abilità dimostrata dai combattenti europei, quei “franchi che esso ha conosciuto come barbari che ha vinto ma che da allora sono riusciti a dominare la Terra,” [Malouf in ibid.: 84], produsse nell’immaginario del mondo arabo-islamico un duplice sentimento di paura e attrazione, tanto che il rapporto tra Islam e Occidente si andava sempre più polarizzando nella tensione tra odio e ammirazione; un’ambiguità che l’umiliante cacciata dalla penisola iberica subita nel XV sec. e, successivamente, il tracollo dell’impero ottomano e la colonizzazione europea agli inizi del XX sec., avrebbero reso ancora più profonda.
Per quel che riguarda in particolare la parabola turca, il ritrovato vigore di cui beneficiarono la religione e la civiltà islamiche con l’avanzata dell’impero Ottomano (a partire dal XIV sec.), e la
9 L’identificazione del nemico esterno con la sola immagine dell’Occidente pare sia tutt’oggi in atto come reazione all’ingerenza occidentale nella regione. Labib evidenzia, al riguardo, la connessione tra questa identificazione e la memoria storica delle crociate attraverso le parole del giornalista franco-libanese Maalouf [1989]: “il mondo arabo non può decidersi a considerare le crociate come una semplice episodio di un passato ormai compiuto. Si è spesso sorpresi nello scoprire fino a che punto l’atteggiamento degli arabi e dei musulmani in generale nei confronti dell’occidente sia influenzato ancora oggi da avvenimenti che si presumono conclusi sette secoli or sono” [in Labib, cit.: 84]. Una simile associazione emerge di frequente anche nei proclami dei gruppi jihadisti, come confermavano le minacce del portavoce dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) contro gli americani e i loro ‘alleati crociati’: “Pagherete il prezzo quando la vostra crociata fallirà”. Al riguardo, cfr. Panunzio,“Isis, nuovo messaggio shock: Conquisteremo la vostra Roma, prenderemo le vostre donne”, L’Huffington Post, 22/09/2014.

conseguente frustrazione che conseguì alla sua disfatta (nel 1922), non ebbero tuttavia una grande incidenza sulla percezione che il resto del variegato mondo islamico aveva di sé, né sulla sua rappresentazione dell’Occidente e, del resto, la lealtà dei musulmani non turchi, in particolare degli arabi, nei confronti del califfato ottomano era tutt’altro che incondizionato e affatto privo di contraddizioni [Labib, cit.: 89]10. Ciononostante, sul fronte opposto, quello del mondo euro- cristiano, l’irruzione dei turchi sulla scena geopolitica mediterranea ha certamente rappresentato un nuovo punto di svolta per il già articolato sistema di relazioni col mondo musulmano, tanto che, fin dalla conquista di Costantinopoli nel XV sec., “l’Islam fu, nella sensibilità europea, qualcosa di fondamentalmente turco” [Cardini, cit.: 79]. Ed è prevalentemente in funzione del ‘problema turco’ che si orientavano le strategie geo-politiche delle nazioni europee, tra l’altro affatto restie a stringere con Istanbul alleanze militari e commerciali. In sostanza, anche per l’Occidente cristiano il rapporto con l’oriente islamico (sempre più turco-ottomano) si andava impostando nei termini di un’ambigua commistione di timore e interesse. Da un lato, la comune minaccia turca – spiega ancora Cardini – “divenne il motore di una specie di primitiva configurazione ‘federale’ dell’Europa” [ibid.: 80], compattatasi a più riprese in reazione alle aggressioni ottomane, soprattutto nel quadro della politica delle ‘sante leghe’11. Dall’altro, però, le varie forze europee, soprattutto nei turbolenti secoli della Riforma e della Controriforma (XVI e XVII sec.), presero a “condurre una politica obiettivamente o addirittura scientemente filo musulmana pur di far trionfare i propri interessi” [ibid.: 81] nelle intestine guerre di religione12. L’impero Ottomano ha rappresentato, quindi, per oltre sei secoli, l’unica (e ambivalente) controparte esterna a un’Europa internamente divisa, ma pronta a ricompattarsi in un’unica identità – quella cristiana – ogni qual volta si trattava di difendersi dalla minaccia dell’‘alterità’13.
10 La popolazione dell’Impero era, infatti, tutt’altro che omogenea, e oltre alle etnie turche inglobava popoli arabi, berberi, europei, curdi, persiani e tutte e tre le regioni monoteiste. Del resto, l’impero si estendeva su un territorio immenso che, nel periodo di massima espansione (XV-XVII sec.) comprendeva l’Algeria a Ovest, l’Azerbaigian (quindi il Caucaso e il Mar Caspio) a Est, l’Europa orientale (Crimea, Moldavia, Transilvania e Balcani) a Nord, e l’Egitto e parte della penisola arabica (detta Higiaz) a Sud.
11 Le Leghe Sante erano delle alleanze promosse dal Pontificato per riunire tutti gli stati cristiani d’Europa contro le offensive del nemico ottomano. Le principali sono quelle che portarono alle vittorie cristiane del 1571 (Battaglia di Lepanto) e 1684 (Battaglia di Vienna). Nel 1718, la pace di Passarowitz pose fine al dominio ottomano sui Balcani, segnando l’avvio del graduale ma irreversibile declino dell’Impero ottomano.
12 E poiché, come ancora accade, non v’è guerra di religione che non curi gli interessi economici di chi la combatte, nessuna delle potenze europee in campo trascurò all’epoca di “far almeno occultamente la corte alla Sublime Porta [Istanbul] nell’intento di riceverne vantaggi commerciali nell’immenso territorio che essa controllava” [Cardini, ibid.].
13 Come sostiene Sartori, è l’altro a costituire quel “necessario complemento dell’identità”: come ogni comunità, così anche quella cristiana “implica clausura, un raccogliersi assieme che è anche un chiudere fuori, un escludere”, poiché “un ‘noi’ che non è circoscritto da un ‘loro’ nemmeno si costituisce” [2000: 44].

Tuttavia, a partire dal XVIII sec., questa alterità, rappresentata dal mondo islamico- ottomano, andò sempre più erodendosi, sia per le pressioni esterne delle potenze europee sia per le resistenze interne di parti consistenti della sua variegata popolazione; l’Impero crollò definitivamente nel 1922 con l’abolizione del sultanato, aprendo la strada alla spartizione coloniale del Medio Oriente14. Il dominio europeo, come precedentemente accennato, approfondì ed esasperò l’ambiguità dell’immagine che la società musulmana aveva dell’Occidente, visto come “un nemico che è allo stesso tempo il rappresentante di un progresso desiderato” [Labib, cit.: 86]. Da qui, il lacerarsi di una coscienza sempre più divisa tra due opzioni opposte: ripiegarsi in un passato glorioso o sacrificarlo sull’altare della modernità occidentale15. Gli intellettuali dei paesi arabi, esposti alla forte influenza europea, finirono così con l’attribuire le ragioni della propria sconfitta non solo alla superiorità militare dell’Europa, ma anche all’inferiorità culturale e alle carenze del sistema amministrativo ed educativo delle società musulmane [Ruthven, cit.: 122]. Venne pertanto promosso un movimento di rinnovamento socio-culturale in particolare dalle élites borghesi arabe maggiormente a contatto con la civiltà europea, che aspiravano da un lato a un ammodernamento economico, amministrativo, militare ed educativo sul modello delle potenze occidentali, e dall’altro a una “reinterpretazione della fede in chiave contemporanea” [ibid.: 123]. Alla base di tali proposte vi era, come sottolinea lo stesso autore, l’attrazione che non solo le conquiste, ma soprattutto le ideologie e gli stili di vita occidentali esercitavano sulle classi intellettuali musulmane più moderniste, nei cui circoli riecheggiavano con sempre maggior vigore le rivendicazioni del femminismo e del nazionalismo europei.
In opposizione a questa tendenza, i riformisti più conservatori proponevano, invece, un rinnovamento religioso che si ispirasse piuttosto a un recupero della tradizione musulmana, ed esortavano a limitare i contatti con i colonizzatori europei, di cui stigmatizzavano i costumi e la loro emulazione. Tuttavia, come rileva lo stesso Ruthven, non si trattò di una contrapposizione netta: i due orientamenti proponevano, in effetti, due diverse soluzioni a una stessa condizione, ossia la
14 I mandati britannico e francese vennero ufficializzati all’indomani della Grande Guerra, ma la spartizione della regione in aree di influenza era già stata concordata nel 1916 con l’accordo segreto di Sykes-Picot. Occorre inoltre precisare che, per quel che riguarda in particolare la Francia, la presenza coloniale nel mondo arabo risaliva a circa un secolo prima, ossia alla conquista algerina del 1830, estesa poi alla Tunisia e al Marocco. Anche Londra disponeva di un certo peso geopolitico nell’area fin dalla seconda metà del XIX sec., ed esercitava un diretto controllo sulle vie di terra e di mare verso l’India. Il mandato britannico in Medio Oriente assunse, poi, particolare rilievo nel 1917, quando con la sua celebre dichiarazione – detta appunto di Balfour – il ministro degli Esteri britannico si impegnava col Congresso sionista mondiale nella creazione di uno foyer ebraico in Palestina.
15 Come spiega al riguardo Latouche, infatti, l’invasione di una cultura innesca un processo di ‘spossessamento’ della cultura assoggettata: “la cultura invasa non si percepisce più attraverso le proprie categorie ma attraverso quelle della cultura che invade. Non ha più desideri propri, ma soltanto quelli dell’altro” [2012: 41].

subordinazione politica ed economica alla dominazione europea, e, a seconda delle circostanze, conversero o si alternarono. Si trattava, in sostanza, del duplice riflesso di una stessa immagine, quella dell’Occidente, con la quale – sottolinea Labib – “qualunque opzione si scelga, il ritorno al passato o la sua cancellazione, è inevitabile fare i conti […], sia pure per distruggerla!” [cit.: 89]. L’esperienza forse più dolorosa di questa profonda ambivalenza si consumò nell’adesione araba alla causa anglo-francese negli anni della Grande Guerra: una partecipazione verso cui gli arabi furono incoraggiati dal crescente radicamento dell’ideale europeo del nazionalismo e dalla promessa, poi amaramente disattesa, della creazione di una grande nazione araba16. Fu certamente un episodio significativo: la componente araba del mondo islamico, scendendo in campo nel 1916 al fianco degli ‘infedeli’ inglesi e francesi contro i ‘correligionari’ turchi, aveva subordinato l’appartenenza alla famiglia musulmana a ideali occidentali di autodeterminazione e unità nazionale, percepiti evidentemente come più urgenti [Cardini, cit.: 91], a conferma dell’eccezionale portata che l’ascendente europeo ebbe nella coscienza e nelle aspirazioni degli arabi, e che avrebbe poi ceduto il posto a sentimenti di frustrazione e risentimento altrettanto intensi.
L’era delle indipendenze in Medio Oriente giunse abbastanza in fretta con la fine della Seconda Guerra mondiale; tuttavia, la transizione fu tutt’altro che pacifica e non si tradusse in una liberazione effettiva. Negli anni del controllo europeo, infatti, l’imposizione dei mandati aveva scatenato ovunque rivolte e resistenze, le cui motivazioni sono da rintracciare, da un lato, nella suddivisione arbitraria dei territori assoggettati – per amministrare i quali le potenze mandatarie finirono con l’alterare i precedenti equilibri intercomunitari favorendo alcune comunità a danno di altre17 – dall’altro, nell’ascesa delle forze nazionaliste locali, nutritesi dell’ideale di nazione che gli stessi europei avevano prima loro trasmesso – alimentandone le aspirazioni – e poi contrastato con ogni mezzo possibile, ricorrendo anche a forme violente di repressione18. In seguito, la
16 Come spiega, infatti, lo storico Cardini, “gli arabi parteciparono nel 1916, al seguito dello sceriffo hashemita Hussein ‘custode della Mecca’, al teatro vicino orientale della prima guerra mondiale; o meglio, a quel che per inglesi e francesi era lo scenario sud-orientale del conflitto contro Germania e Turchia, mentre per essi [gli arabi] era una guerra d’indipendenza e, in prospettiva, di unità nazionale” [cit.: 91]. Si tratta, in sostanza, della guerra nota come ‘Rivolta araba’, combattuta per due anni dall’emiro della Mecca Hussein con l’appoggio del governo britannico per sottrarre la Penisola arabica al dominio ottomano e creare uno stato arabo che comprendesse anche la Siria. Tuttavia, nonostante l’impegno assunto, l’Inghilterra acconsentì di cedere la Siria alla Francia, mentre in Arabia voltò le spalle allo stesso Hussein, sostenendo il sultano wahabita Abdul Aziz Ibn Saud.
17 Fu il caso, per esempio, dei cristiano-maroniti in Libano, dei musulmani sunniti in Iraq, o ancora degli wahabiti in Arabia Saudita. Particolarmente emblematico fu il caso della Palestina: originariamente destinata al promesso stato unitario arabo, venne poi posta sotto mandato britannico e infine ceduta ai coloni ebrei; furono così gettate le basi di quella drammatica conflittualità che si protrae fino ai nostri giorni.
18 Come argomenta il professore Rogan, esperto di storia moderna del Medio Oriente, “all’indomani della Prima Guerra Mondiale le potenze europee si accordarono tra loro sul modo in cui spartirsi i territori dell’impero ottomano e sulla forma da dare agli Stati sorti dalle sue ceneri senza la minima consultazione

degenerazione autoritaria e il dissesto economico provocato dalle élites – giunte al potere col sostegno delle potenze europee19 – fomentarono il sorgere e il rapido diffondersi di movimenti radicali islamisti; esse, infatti, impadronendosi della retorica della liberazione nazionale, attuarono un sistema strutturato e inespugnabile di accentramento del potere e delle ricchezze, che provocò, per reazione, la crescita in popolarità dell’ideologismo religioso20. Questo prese a diffondersi soprattutto tra le moschee, luogo privilegiato di opposizione e proselitismo e, grazie alla diffusione dei mezzi d’informazione e delle tecnologie della comunicazione, fece breccia soprattutto nel recente sottoproletariato urbano, ai margini della rete di redistribuzione del reddito e particolarmente sensibile ai messaggi dei predicatori populisti [Ruthven, cit.: 1331-133]21. Si diffuse ben presto, così, la convinzione che solo un ritorno alle tradizioni di un Islam autentico avrebbe potuto restituire dignità al popolo musulmano22; convinzione che ha incoraggiato, fino ad oggi, sia la crescita dei tradizionalisti moderati (come la Fratellanza musulmana), sostenitori del “ritorno a una vita pubblica e privata ispirata ai principi del puro Islam” [Cardini, cit.: 93], sia il rinvigorirsi delle correnti islamiste radicali, dediti a “mobilitare attorno all’ortodossia islamica le
delle popolazioni e delle élite locali… Se guardiamo ai nazionalismi insoddisfatti o ai territori disputati, possiamo identificare precisi problemi nelle relazioni internazionali le cui origini possono essere rintracciate nelle frontiere disegnate durante e dopo la Grande guerra” [“Così noi europei inventammo il Medio Oriente”, Limes – rivista italiana di geopolitica, settembre 2014]; l’endemica conflittualità della regione deriva quindi in gran parte proprio dalle modalità con cui la forma-Stato europea è stata imposta nei paesi mediorientali.
19 Occorre tuttavia precisare che la gestione del potere nei paesi della regione non fu sempre diretta filiazione delle potenze coloniali. Infatti – argomenta Rogan – “le élite nazionaliste che avevano guidato la lotta per l’indipendenza, molte delle quale istruite in Europa, erano ormai compromesse dal precedente fallimento nel negoziare la libertà. Quando un’ondata rivoluzionaria spazzò la regione, queste élite furono rimpiazzate da militari e tecnocrati. Ed è questo il Medio Oriente con cui facciamo i conti oggi” [ibid.].
20 La scelta della causa cui aderire si poneva nei termini di una contrapposizione difficilmente conciliabile tra l’appartenenza culturale (che in una civiltà teocentrica come quella islamica è essenzialmente definita dalla componente religiosa) e la lealtà verso una fragile struttura esogena, lo Stato moderno d’importazione europea, la cui gestione fallimentare ne aveva screditato l’immagine e che, diversamente dal suo modello di riferimento (ossia lo Stato occidentale), non rispecchiava nemmeno l’unità armoniosa tra territorio e nazione. Pertanto, se è vero che, come sostiene Huntington, “ciò che per un uomo conta più di ogni altra è il sangue, la fede e la famiglia” [cit.: 178], è facile comprendere come, in una situazione del genere, vi fu una diffusa adesione alla causa religiosa. Come, infatti, sostiene sempre il politologo americano, “la religione è una forza fondamentale, forse la forza per eccellenza capace di motivare e mobilitare le masse” [ibid.: 85], tanto più in epoca moderna, in cui la “disgregazione dell’ordine e della società civile crea dei vuoti che a volte vengono riempiti dai gruppi religiosi, spesso fondamentalisti” [ibid.: 136].
21 Come commenta al riguardo anche Huntington, “Gli elementi di fresca urbanizzazione hanno generalmente bisogno di sostegno e guida emotiva, sociale e materiale, tutte cose che i gruppi religiosi offrono più di chiunque altri” [cit.: 140]. Bisogno che da noi, invece, è spesso intercettato da un certo populismo politico.
22 Dopo il declino dell’ideologia nazionalista conseguente alla fallimentare gestione statuale nell’era post-indipendenze, nonché il crollo dell’altra grande ideologia europea, il socialismo, che negli anni della guerra fredda aveva attratto nella sua orbita molte delle repubbliche arabe, il ritorno ai valori tradizionali musulmani appariva come l’unica strada di sviluppo possibile per il mondo araboislamico. “La religione – evidenzia ancora Huntington – viene dunque a sostituire l’ideologia, e il nazionalismo religioso soppianta il nazionalismo laico” [cit.: 139]. Si invocava così “il distacco da un modernismo rivelatosi fallace nel momento in cui aveva voluto allontanarsi da Dio” [ibid.: 132].

energie delle masse popolari” [ibid.]. In entrambi i casi, sottolinea Huntington, l’affermazione dell’islamismo rappresentava “la più possente manifestazione di antioccidentalismo”, una rivendicazione di pari dignità nei confronti sia delle potenze europee, sia di quella classe dirigente che ne aveva abbracciato valori e stili di vita [cit.: 141].
Raggiunte le indipendenze, l’intera regione fu, durante gli anni della Guerra Fredda, oggetto di spartizione in aree d’influenza da parte delle due grandi potenze del nuovo sistema geopolitico bipolare, con le principali repubbliche (Algeria, Libia, Egitto, Siria e Iraq) schierate nell’orbita sovietica, e le principali monarchie (Marocco, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania) alleate agli Stati Uniti. Proprio gli americani intervennero militarmente nella regione a più riprese, e la loro presenza, consolidatasi dopo il crollo del regime sovietico, acuì tutta l’ambiguità che l’immagine dell’Occidente suscita nella coscienza araba e musulmana. In particolare, come rileva Labib, fu l’intervento militare statunitense in Kuwait nel 1991 per frenare l’avanzata irachena a generare una profonda frattura tra gli orientamenti dei musulmani al riguardo. Durante la Guerra del Golfo, spiega infatti l’autore, si contrapposero due posizioni: “Da un lato, è stata addossata all’Occidente la colpa di tutti i mali che si sono accumulati dal periodo delle crociate, dall’altro, gli sono stati tributati elogi mai sentiti prima in lingua araba” [cit.: 90]. Come chiarisce Rogan, infatti, “è sopravvissuta la concezione di potenza occidentale dell’era coloniale, quando eravamo gli arbitri assoluti dell’ordine internazionale. È una relazione di amore e odio, approfondita dal fatto che negli ultimi 25-30 anni molti arabi sono emigrati in Europa: vedono la libertà delle democrazie occidentali come modello a cui aspirare per plasmare un diverso sistema politico nei loro paesi” [cit.].
Pochi anni dopo, nel 1995, i paesi dell’Unione Europea e del Mediterraneo orientale e meridionale diedero avvio a Barcellona al Partenariato euro-mediterraneo, con l’obiettivo (ad oggi non ancora raggiunto) di realizzare l’ambita stabilità socio-politica nei paesi della regione, e dar maggiore linfa alle collaborazioni in ambito culturale e commerciale attraverso la creazione di un’area di libero scambio. Tali accordi diedero indubbiamente nuovo slancio alle relazioni tra le due sponde e così, dopo decenni di (apparente) immobilismo, si inaugurò una nuova stagione di scambi culturali che, insieme alle crescenti migrazioni da Sud a Nord e ai flussi turistici in direzione inversa, favorirono nuove occasioni di contatto tra le due culture. Tuttavia – sostiene Corrao in un’analisi dei fattori che nel 2011 condussero allo scoppio delle cosiddette ‘rivoluzioni arabe’ – “se da una parte si riducevano le distanze, dall’altra si accentuava il senso di frustrazione in quelli che non potevano godere delle stesse libertà degli occidentali” [2011: 40]; ciò contribuì a incrementare il malcontento e fomentare la tensione contro un sistema politico-economico familistico ed elitario

che non rispondeva ai bisogni delle masse, e ad ampliare la scollatura tra queste e le classi al potere, strategicamente colmata dalle reti assistenziali dei movimenti di ispirazione islamista, divenuti infatti, successivamente, protagonisti della politica araba post-rivoluzione23. Come suggerisce sempre l’autrice [ibid.: 86-87; 100], sia nella preparazione sia nell’attuazione delle rivolte arabe, frutto di tensioni e disagi stratificati a vari livelli della società civile che fermentavano sordidamente da tempo, fu determinante il combinarsi di alcuni fattori (frutto, in parte, dell’adozione di elementi della cultura occidentale): i giovani, sempre più istruiti grazie a una crescente alfabetizzazione ma senza prospettive occupazionali; le donne, il cui ruolo sociale andava gradualmente crescendo, pur con difficoltà, soprattutto nel settore dei servizi e dell’istruzione; lo sviluppo de mezzi di comunicazione, e in particolare le TV satellitari panarabe (come Al-Jazeera) e i nuovi media (social network, blog, etc.) che hanno permesso un accesso più libero al sapere e, abbinati alla diffusione dei cellulari, fornito strumenti di coordinamento dell’azione24.
A diversi anni di distanza da quel dicembre 2010, quando il suicidio di un giovane venditore ambulante diede avvio in Tunisia all’ondata di proteste anti-sistema, l’esito delle rivoluzioni arabe appare ancora molto incerto25. Alla ventata rivoluzionaria sono indubbiamente legate le complesse dinamiche geopolitiche nel Mediterraneo di oggi, tra le quali le migrazioni rappresentano uno degli aspetti più drammatici, che peraltro coinvolge direttamente anche l’Europa. Come suggerisce Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, occorre che le proteste popolari trovino “sostegno in una struttura sociale, economica e, anche, politica, adeguata”, altrimenti il rischio è
23 Il ruolo svolto dai gruppi religiosi nel rispondere ai bisogni delle masse cresceva proporzionalmente al graduale fallimento delle ideologie occidentali del nazionalismo e del socialismo. I gruppi politici d’ispirazione religiosa, dediti al recupero della centralità dell’Islam nella vita culturale e politica della società, s’inserirono in tal modo negli epiloghi di una rivoluzione, sebbene essa fosse originariamente un movimento di protesta popolare generato dalle rivendicazioni di una società civile molto più consapevole e impegnata di quanto noi occidentali potessimo immaginare, e la cui crescita culturale e tecnologica fu conferma di un’“incessante interazione con il resto del mondo” [Corrao 2011: 3].
24 Corrao parla, al riguardo, di convergenza delle due ‘piazze’ di espressione delle istanze rivoluzionarie: quella virtuale e quella reale [cit.: 81]. Un crescente ricorso alle tecnologie della comunicazione è in atto pure nel fenomeno migratorio: sempre più migranti, effettivi e potenziali, sono interconnessi attraverso smartphone e tablet con cui pianificano o modificano il proprio percorso migratorio [cfr. “Smartphone, Facebook, Google Maps. Così la tecnologia ha cambiato il viaggio dei profughi 2.0”, Huffingtonpost, 28-08-2015].
25 La sola eccezione sembrerebbe essere proprio la Tunisia, dove il 21 dicembre 2014, quattro anni dopo la caduta del regime di Ben Ali, si sono tenute le prime elezioni presidenziali libere. Il nuovo presidente eletto, Beji Caid Essebsi, è l’anziano leader del partito laico Nidaa Tounes. Come osserva il giornalista Paluzzi, “La sua elezione […] chiude il processo di transizione in Tunisia, il Paese dove la Primavera araba è nata e dove oggi trova forse l’unico compimento veramente democratico” [“La Tunisia sceglie un presidente laico, vince Essebsi”, Ansa.it, 21/12/2014]. Ciononostante, è forse ancora troppo presto per stabilire se si tratti con certezza di un passo concreto verso una compiuta democratizzazione. A sollevare i maggiori dubbi è soprattutto il fatto che Essebsi – il quale ha comunque permesso di arginare il rischio di deriva islamista, essendo il leader di un partito laico – è stato in passato ministro nei governi di Ben Ali, dopo la caduta del quale è riuscito comunque a riciclarsi “votandosi lesto alla rivoluzione” [Paci, “Essebsi, l’ex ministro di Ben Ali che ha superato indenne la rivoluzione”, La Stampa, 22/12/2014].

quello di “rimanere imbrigliati in una commistione di debolezza delle nuove realtà governative, ancora non radicate in profondità nella società, e mancanza di soggetti in grado di dialogare realmente su una via democratica” [in Anghelone-Ungari 2014: 9]. Le condizioni critiche in cui versano le casse statali e l’inadeguatezza dimostrata dalle strutture politiche al potere (per lo più islamiste, come la “Fratellanza Musulmana” in Egitto e “Ennahda” in Tunisia) rischiano, infatti, di perpetrare un’instabilità tale da mettere in discussione non solo la credibilità delle nuove classi dirigenti, ma la legittimità stessa dell’idea di democrazia, rinvigorendo ulteriormente l’estremismo jihadista [ibid.: 9-10]. I recenti disordini conseguenti alle rivoluzioni arabe, che ancora scuotono la sponda sud del Mediterraneo e a cui oggi si aggiungono gli strascichi di un’interminabile guerra civile in Siria, oltre al preoccupante riaccendersi delle tensioni israelo-palestinesi e del fondamentalismo islamico in Iraq e in Libia, ne sono una preoccupante conferma, da cui non può considerarsi immune nemmeno la società europea, proprio per quel plurimillenario intrecciarsi di relazioni che fa di questo mare la casa comune per entrambe le civiltà: “i destini che hanno segnato e che continuano a segnare la nostra cultura, il nostro essere – spiega al riguardo Igonetti – nascono da un luogo, il Mediterraneo, e non si può ignorarne una parte” [in Ruthven, cit.: IX].
Tuttavia, non si tratta qui di valutare le eventuali responsabilità dell’Europa, quanto piuttosto di far emergere la complessità che la questione del suo rapporto con la civiltà islamica assume in questo particolare periodo storico, alla luce, peraltro, delle sfide sociali, culturali, economiche e politiche che in essa pongono le migrazioni dalla sponda sud del Mediterraneo. Può rivelarsi utile a comprenderne la portata rileggere la metafora proposta in un vecchio editoriale del Corriere della Sera – scritto nei mesi drammatici della prima Guerra del Golfo e delle sanguinose secessioni nei Balcani – secondo il quale “La situazione dell’Europa occidentale somiglia agli ultimi tempi dell’impero romano. Un impero vecchio, privo di ideali con poche nascite”. Come allora successe all’impero romano con i popoli germanici, anche oggi, alle porte di un’Europa invecchiata, sta bussando “una popolazione musulmana africana e mediorientale che cresce vertiginosamente. Sono i giovani, fiduciosi, pronti a qualsiasi lavoro, a qualsiasi sacrificio, che sentono oscuramente di avere dalla loro parte il futuro, animati, sostenuti dalla promessa dell’Islam e, nel caso degli arabi, da una brama secolare di riscatto, di rivincita sull’occidente”. E poiché “nel prossimo secolo dovremo comunque vivere insieme e nel modo più pacifico, sarà bene cercare di capire meglio”26.
26 Cfr. Alberoni, “Prepariamoci a convivere, Allah emigra e si ferma da noi”, Corriere della Sera, 11/02/1991.

REPORT DELL’EVENTO CON VIDEO IN DIRETTA FACEBOOK

prof. Luigi Serra (Preside della Facoltà di studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università degl Studi Orientale di Napoli)

https://www.facebook.com/domenicoleccese.dettomimmo/videos/550463286249718/?d=n

Sono previsti, su specifici aspetti, gli interventi di Franco Cardini (Università di Firenze), 

Amedeo Di Maio (Università Orientale di Napoli)

https://www.facebook.com/domenicoleccese.dettomimmo/videos/4388978074513019/?d=n

Pietro Laureano (Università di Firenze)

https://www.facebook.com/domenicoleccese.dettomimmo/videos/4284303791649725/?d=n

e Aurelio Pace (Foro di Potenza).

Le conclusioni dei lavori sono affidate all’Ambasciatore Riccardo Sessa (vicepresidente della Società Italiana per le organizzazioni internazionale e già Direttore generale del Mediterraneo al Ministero degli Esteri e ambasciatore in Iran e Cina)

https://www.facebook.com/domenicoleccese.dettomimmo/videos/557556935531926/?d=n

Nel corso della manifestazione presentazione del volume dello stesso Giulio Cipollone, fresco di stampa per l’editrice bolognese Il Mulino dall’eloquente titolo “Né crociata né gihad – Quando papi e sultani avevano lo stesso linguaggio di guerra” che in copertina riproduce un mosaico,

tuttora esistente a Roma, considerato opera unica in tutta la storia dell’arte, che mostra Cristo pantocratore che libera prigionieri cristiani e musulmani vittime di «guerre sante»



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