LE VOCI PERDUTE DEI MERIDIONALI A MILANO
Lettere lucane
Scrivo questa lettera su un treno che, da Roma, mi sta portando a Torino. Chi mi conosce sa che viaggiare mi pesa molto, perché ho avuto una vita talmente randagia che ormai sopporto sempre meno interrompere le piccole abitudini che ho, e che mi danno uno straccio di stabilità psicologica. Sono appena risalito sul vagone dopo aver accompagnato un passeggero, con cui ho fatto amicizia, a fumare una sigaretta alla stazione centrale di Milano. Ma mentre lui parlava, a me è successa una cosa strana, e cioè che di colpo mi sono sentito travolto da una strana inquietudine, da una specie di straniamento. Mi ha sempre messo agitazione, questa stazione – la lugubre tettoia di ferro e di vetro, la voce lontana e fredda degli annunci ferroviari, un’aria come di autunno che pare avvolgere ogni cosa, ecc. E quindi, mentre lui parlava, io mi sono assentato, e la mia mente è andata all’indietro verso memorie non mie, ma della dolorosa emigrazione meridionale del dopoguerra. La stazione non la vedevo più a colori, ma in bianco e nero; e le persone non erano più queste qui di adesso – ben vestite, abituate a viaggiare, mediamente informate del mondo – ma la nostra gente di giù, stanca morta, preoccupata, impaurita, spaventata, vestita umilmente. E ho sentito nettamente i loro dialetti, le loro cadenze – e ho visto i figli svegli e ubbidienti, le valigie, le scarpe consumate, le mogli intimidite e spaesate. Milano non era più la Milano di oggi, levigata da molti decenni di integrazione; Milano era un altrove nebbioso dov’era difficile entrare, e dove era facilissimo provare smarrimento, nostalgia e rabbia. Milano era letteralmente un altro mondo. Sempre più spesso mi capita di provare il desiderio di essere in epoche passate. Mentre il passeggero mi parlava, infatti, io avrei voluto dirgli solo questo: “Non sono più qui, mi dispiace; io sono in un lontano ottobre dell’umile Italia del 1950”.