RIFLESSIONI SULL’EMIGRAZIONE TRA LE VIE DI TORINO
Lettere lucane
Da qualche anno mi sveglio molto presto – raramente riesco a dormire oltre le sei del mattino. Stamattina mi sono svegliato verso le cinque, e sono uscito in via Carlo Alberto a Torino dove sono alloggiato, e mi sono fatto una passeggiata. Mentre osservavo strade e palazzi, la mia mente è tornata all’emigrazione dei nostri lucani e dei meridionali. Ed è come se la mia mente mi avesse catapultato proprio negli anni più intensi dell’emigrazione a Torino – gli anni ‘50 e ‘60. Ho rivisto operai, giovani infreddoliti, donne stremate – e ho sentito le sirene delle fabbriche, e mi sono sentito addosso nebbia e gelo. Ripenso spesso agli emigrati del dopoguerra, ma in fondo penso a me, perché pure io sono un emigrato, anche se di lusso, perché l’emigrazione per noi è molto meno aspra – almeno credo. Chissà quanti operai meridionali proprio a quest’ora del mattino, mentre si preparavano o prendevano il caffè, pensavano come me al sogno di ritornare a casa. Chissà quanta forza hanno tratto da questo sogno quando le giornate in fabbrica si facevano durissime. Ma tornare è privilegio di pochi. Perché quando si emigra la vita preme, va avanti, e spesso si decide di fare dei figli, e di farli crescere a fianco a noi; e i figli crescono dove siamo emigrati, ma loro di tornare giù non ci pensano proprio. Ecco cosa fotte e salva un emigrato meridionale: i figli. Un giorno si sveglia e dice: basta, anche pane e cicoria, ma a casa mia. Ma quel giorno scopre di essere incatenato, perché, appunto, ci sono i figli. Allora dice, per ripiego: tornerò quando andrò in pensione. Ma non appena andrà in pensione si sentirà impaurito, perché giù non conosce quasi più nessuno e, in fondo, se si ha bisogno i figli ci sono sempre. E così passa la sua vita senza “nostos”. Perché nessun ritorno vale la vicinanza dei figli, che in fondo sono il senso profondo di tutti i sacrifici degli emigrati.