DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI NATURA?
Lettere lucane
Fra qualche ora presenterò a Roma il bel libro di Davide Rondoni “Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti” (Fazi editore). È un libro molto ricco che indaga il concetto di natura attraverso la storia della poesia, e mettendo in collegamento la poesia con la scienza e con la variegata galassia dei naturalisti, ecologisti e ambientalisti. L’ho letto con grande piacere, perché affronta un tema in apparenza molto a portata di mano – la parola “green” viene usata in ogni discorso, praticamente – in realtà eluso. Perché parlare di natura significa parlare di qualcosa di tremendo, misterioso, impenetrabile, e che poco ha a che vedere con parole come armonia, pace, quiete. La natura ha leggi e imprevisti che incutono timore, più spesso terrore, e che ci interrogano profondamente su noi stessi, e sul nostro essere natura e tuttavia contro-natura, proprio per questa straordinaria dote che abbiamo di sentircene al di fuori, e di osservarla e studiarla come se, in fondo, non ci appartenesse. Mi sono sempre chiesto perché, pur ammirandola in tutte le sue forme, io abbia deciso, come tanti, di vivere in città e di nutrirmi di sapere – il sapere è sempre un tentativo di addomesticare la natura. Mi piace osservare la campagna, accarezzare gli animali, rimanere in silenzio davanti ai paesaggi, osservare all’alba, quando sono a Rotonda, la schiena addormentata del monte Pollino. Ma perché poi ho sempre bisogno di rumore, di progetti, di fughe, di trambusti, ecc.? Per quale ragione, pur essendo io natura, me ne allontano continuamente? Forse perché il mistero della natura è per me insostenibile; o forse perché non voglio accettare quel che la natura insegna, ovvero la ciclicità. Il progresso è sempre fuga dalla natura, cioè dalla morte – ed ecco spiegato perché anch’io fuggo sempre. Eppure è strano, perché solo quando sono coi piedi nella terra la mia angoscia di morte si placa.