LE DOMANDE ABISSALI DI CHI SOFFRE DI DEPRESSIONE
Lettere lucane
Ho rivisto “Melancholia” (2011) di Lars von Trier, uno dei film più potenti sulla depressione. Sono almeno vent’anni che indago questo “male oscuro”, un po’ perché chi crolla diventa in qualche modo trasparente, e dunque più profondamente leggibile, e un po’ perché ne soffro pure io, anche se lo combatto con volontà taurina. Se qualcuno mi chiedesse che cos’è la depressione in una sola frase, direi questo: è trovarsi al polo opposto della felicità. L’immagine che meglio la sintetizza è la posa purgatoriale di Belacqua, personaggio dantesco ripreso da Samuel Beckett. Nel suo stare in Purgatorio con le braccia intorno alle ginocchia e la testa bassa c’è tutto il senso di inadeguatezza e di fallimento che sempre porta con sé quella che noi, appunto, chiamiamo depressione. È giusto curare chimicamente questa sofferenza, dare sollievo a chi si ritrova in un tempo senza luce. Ma la depressione è anche uno straordinario linguaggio che va ascoltato e interpretato, perché esprime domande, bisogni, angosce, spaventi e paure di vitale importanza (sulla morte, sul senso della vita, sull’amore, sulla solitudine, ecc.). Soffrire di depressione significa che il corpo e la mente non ce la fanno più a sopportare l’infelicità. È, allo stesso tempo, una resa e una ribellione, perché chi mostra i segni evidenti di una sofferenza sta anche dicendo al mondo circostante che non ce la fa più. Non esisteranno mai due persone depresse allo stesso modo – la parola depressione va sempre declinata al plurale, perché ogni persona sofferente esprime sfumature assolutamente uniche. Una volta, tanti anni fa, un’amica lucana mi disse una cosa struggente: “Se riuscissi a piangere sarebbe tutto più semplice”. L’infelicità tramortisce così tanto che tutte le emozioni sono come pietrificate – eppure ogni depresso esprime, anche senza saperlo, un’abissale domanda di senso e di amore.