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LA PAURA DELLA MORTE NELLA BASILICATA PROFONDA

Lettere lucane

Sono in Lucania per stare vicino a una famigliare che ha un problema di salute. Piove, e mi sento immerso nell’autunno come in un assedio umido, crepuscolare, silenzioso. La salute, ecco: non si parla che di salute, a questa latitudine della vita. Ogni altro discorso è come un passatempo, un po’ come guardare la televisione. Sono così pieni di medicine, gli armadi degli anziani. Ci sono più medicine che cibo, nelle case dei nostri anziani, perché anche loro hanno interiorizzato che il cibo è veleno. Dopo secoli e secoli di fame nera – di incubi causati dalla malnutrizione – è arrivato un tempo che si teme il pane, il vino, la pasta e la carne come veleni. E non si parla d’altro che di Covid, di tumori, di ictus, di infarti, di diabete; forse perché quando muore Dio nel cuore di un popolo non rimane altro che il terrore della morte. Mi faccio rapidamente risucchiare in questa cupezza profonda. Mi risulta vana ogni cosa – un’ambizione, un’idea, un guizzo di fiducia – perché da nessuna parte come qui mi sento crocifisso a una elementare verità: che null’altro è, la vita, che una resistenza alla morte combattuta con anticoaugolanti, antibiotici, chemioterapie, risonanze, analisi cliniche, Tac, Pet, cardioaspirine, ecc. Non c’è più un briciolo di felicità, in queste case contadine che ancora reggono ai venti incrociati della modernità. Qualche anziano si ribella a questo silenzio e va via, magari dai figli in città; altri sprofondano in quest’attesa silenziosa appena interrotta dalle voci di Canale 5. E’ la terra più bella della mia vita, la Lucania, ma quanta malattia che mi ha insegnato, quanta morte. Non so da quanti decenni non sento più la felicità in queste case. Ormai si pensa solo a questo: a strappare un altro giorno. Anche in questi mondi antichi il senso è smarrito. Le porte sono chiuse a chiave non per tenere lontani i ladri, ma la morte.

diconsoli@lecronache.info

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