L’ARAGOSTA, MATERA E LA BASILICATA
Taccuino del sabato a cura di Enzo Santochirico
C’è voluto un recentissimo e originale libro di un antropologo per rivelarmi il sorprendente ciclo biologico di un crostaceo, finora noto solo per la sua bontà gastronomica, e che però racchiude una potentissima metafora.
Non credo fossi il solo a ignorare che l’aragosta nasce nuda, poi si forma il guscio, ma questo rimane immutato mentre essa esce. Quando il divario fra corpo e corazza aumenta e la pressione di questa diventa insopportabile, l’aragosta è costretta a liberarsene e, per farlo, sceglie un luogo riparato (una roccia, un anfratto), se ne disfa e rimane nuda, esposta al pericolo e senza protezione. Pian piano svilupperà una nuova corazza adeguata alla sua nuova dimensione e alle sue mutate esigenze: lo ripeterà spesso durante la sua vita ( che può essere lunghissima, anche secolare) e queste operazioni segneranno i passaggi della sua crescita, ma ogni volta, rimanendo senza la precedente e in attesa che si formi la nuova, sarà vulnerabile, sola e senza di difesa, ma il dolore e il disagio, metaforicamente, indicano l’esistenza del limite e postulano la necessità di superarlo.
Stefano De Matteis, riassume così il dilemma dell’aragosta (che dà il titolo al libro): «lasciare le proprie corazze, capire quanto sono provvisorie, smettere di trincerarsi in quelle certezze che ormai procurano solo sofferenze ed esporsi al rischio, avendo il coraggio di scegliere la vulnerabilità che si rivela un momento di estrema forza. Un passaggio decisivo.
Perchè produce il cambiamento e prelude alla ricostruzione di una nuova vita ». L’autore applica la metafora all’uomo, chiedendosi e analizzando come il dilemma dell’aragosta si presenta nella vita della persone (p. 11), anche quando amplia lo sguardo al tipo di società che viviamo e vivremo nel capitolo di chiusura “Quale futuro”.A me, invece, é sembrata straordinariamente idonea a interpretare il “miracolo materano”, a offrire .uno schema per rispondere a un quesito che molti interlocutori, soprattutto provenienti da altre realtà, mi pongono e si pongono: come é riuscita Matera in alcuni decenni a passare “da vergogna nazionale a capitale della cultura”?Come é riuscita a farlo in un contesto regionale e meridionale che non ha eccelso né per qualità di classi dirigenti né per significativi indici di crescita?
Ha fatto come l’aragosta: é stata progressivamente capace di liberarsi dalle “corazze” che si erano formate, e che per un certo tempo ne avevano costituito la forza e la soluzione, costruendone nuove, più adatte ad affrontare il cambiamento, a far rinascere a nuova vita.
Ripercorrendo l’ultimo mezzo secolo a volo d’uccello: il passaggio dall’abbandono fisico e dalla rimozione psicologica dei Sassi al loro riuso e valorizzazione come prezioso capitale, la transizione dall’industria pastaria a quella del mobile imbottito, e poi ancora dalla crisi di quest’ultimo all’assunzione della cultura come nuovo drive del suo sviluppo, non rappresentano momenti di dismissione del vecchio guscio – per tornare alla metafora – e creazione di uno nuovo che accompagna ad una ulteriore fase ?
Come nel caso dell’aragosta, la transizione é stata sempre dolorosa, angosciosa, anche rischiosa, ma é il prezzo perché si compia, lasciando sul suo percorso i nostalgici e generando nuove energie vitali.Il cambiamento della corazza è stato reso possibile dal fatto che il corpo racchiuso crescesse più velocemente e liberamente anche del guscio politico istituzionale che l’avvolgeva.
Anzi, arrivo a ipotizzare che la vitalità della società civile abbia condizionato e influito sulle forme della politica in città, che é stata molto più mobile, imprevedibile e fluida che altrove e di cui il civismo ne ha rappresentato un’espressione.
Per dirla ancora più semplicemente: qui sembra sia la società civile a “condizionare” quella politica, il contrario di quello che accade a livello regionale e nell’altro capoluogo lucano.Dove e quando é preponderante l’apparato e il ruolo politico-istituzionale e burocratico, prevalgono l’illusione della preservazione, la paura inibitoria di cambiare e perciò la reiterazione cieca di schemi e politiche che non modificano la realtà, anzi la imprigionano e forse spiegano l’immobilismo e il declino lucano. Più volte, ultimamente, ho insistito sul dato demografico.
Anche in proposito, non sarà che le aree dove meno si avverte il declino (oltre Matera, vulturemelfese e metapontino) sono quelle dove, per cause endogene o esogene, più volte o più radicalmente si è cambiata corazza grazie ad un corpo più vivo e reattivo? Quando si parla del dilemma della aragosta, si è soliti ricordare l’osservazione del rabbino Abraham Twersky che sosteneva che, se la creatura marina avesse avuto a disposizione dei medici, non sarebbe cresciuta perchè, ai primi sintomi di malessere, le avrebbero somministrato farmaci atti a farla sentire meglio, a sopportare la sua condizione, con l’effetto di bloccarne il ricambio.
Traslandondola metaforicamente, può dirsi che sia la conservazione ostinata di assetti sociali obsoleti sia la “protezione” politicoburocratica possono avere nella società conseguenze narcotizzanti o addirittura paralizzanti.Scorgo subito la maliziosa equazione: – stato + mercato = progresso e libertà ? Niente di più rozzo e sbagliato. L’intervento pubblico che procura benessere, diritti, opportunità è una manna, quello che vuole condizionare e limitare é una sciagura.Ma certo la contraddizione esiste e se non ci sono classi dirigenti illuminate, è meglio fare come l’aragosta. Buon fine settimana