32º NUMERO RARAMENTE
Il conflitto ha reso drammatica una situazione già estremamente difficile, vista la grave e perdurante crisi economica del Paese, legata a varie ragioni, non ultime quelle derivanti dall’emergenza COVID. In questo contesto la “Casa della Misericordia” da quasi sei anni non solo rappresenta per un vasto territorio l’unica struttura per la presa in carico della disabilità in età evolutiva, ma fino all’esplodere della guerra è stata anche un fondamentale punto di riferimento per una comunità piagata da alcolismo, violenza familiare, povertà estrema
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??#Ucraina, nella Casa che accoglie bimbi #disabili
15 marzo 2022
Ucraina, nella Casa che accoglie i bambini disabili |
a cura di Emanuele Brambilla (Servizio Comunicazione – Fondazione Don Gnocchi) |
I bambini accolti nella “Casa della Misericordia” sono terrorizzati. Per molti di loro, colpiti da disabilità di varia natura, il suono delle sirene è insopportabile e provoca crisi che i pochi operatori rimasti faticano a contenere. I minori che invece ricorrevano ai servizi diurni hanno smesso di frequentare il Centro: il pulmino che li raccoglieva casa per casa è fermo, non c’è più benzina. Il poco carburante nel serbatoio deve servire in caso di un’eventuale evacuazione d’emergenza.
La Casa, realizzata su iniziativa del vescovo locale e di proprietà della diocesi in un contesto prevalentemente rurale nella regione sud-occidentale dell’Ucraina, è sostenuta dalla Fondazione Don Gnocchi dal 2018 nell’ambito di un progetto di solidarietà internazionale. Prima dello scoppio della guerra dava ospitalità anche a madri sole, spesso malate, con problemi psichiatrici o alcolismo. Alcune sono state accompagnate oltreconfine con i loro figli piccoli, grazie all’intervento di un’organizzazione polacca che sta cercando di trovare loro la sistemazione più idonea. Negli spazi liberati sono stati predisposti un centinaio di posti per accogliere gli sfollati che fuggono da altre zone del Paese. La guerra fuori dalla Casa significa continui sorvoli aerei, sirene, benzina esaurita, farmacie e negozi chiusi, carenza di medicinali e generi di prima necessità, acqua razionata, elettricità, rete Internet e linee telefoniche a singhiozzo. Su tutto domina una generale situazione di incertezza e paura. Gli uomini sono partiti per il fronte, abbandonando le famiglie. Quelli che tornano sono spesso gravemente feriti. Rispetto al centinaio di bambini normalmente presenti in forma residenziale o con trattamento ambulatoriale, oggi il Centro accoglie meno di una cinquantina di persone, oltre allo staff guidato dalla presidente Tetyana, in contatto – quando possibile – con l’Italia e con la Fondazione. Il conflitto ha reso drammatica una situazione già estremamente difficile, vista la grave e perdurante crisi economica del Paese, legata a varie ragioni, non ultime quelle derivanti dall’emergenza COVID. In questo contesto la “Casa della Misericordia” da quasi sei anni non solo rappresenta per un vasto territorio l’unica struttura per la presa in carico della disabilità in età evolutiva, ma fino all’esplodere della guerra è stata anche un fondamentale punto di riferimento per una comunità piagata da alcolismo, violenza familiare, povertà estrema. Nel circondario si segnala oltretutto un elevato numero di patologie congenite, dovute in parte ancora al disastro nucleare di Chernobyl (distante circa 500 chilometri) e probabilmente anche alla diffusa sindrome feto-alcolica. Pochi sono i medici pediatri e l’unico specialista della riabilitazione pediatrica della regione si trovava a parecchi chilometri di distanza. La “Casa della Misericordia” si è inserita in questo contesto, accogliendo minori colpiti anche da patologie rare, oltre ai casi di rachitismo, disturbi dello spettro autistico, sindrome di Down, paralisi cerebrali infantili, ritardi nello sviluppo psico-fisico e disabilità mentale. Il progetto di collaborazione della Fondazione Don Gnocchi è mirato ad accompagnare il Centro, in primo luogo per il miglioramento della gestione amministrativo-organizzativa, con l’introduzione di un modello manageriale per la gestione e lo sviluppo delle attività. Grande attenzione è dedicata a rendere più efficace la presa in carico dei bambini e delle loro famiglie, anche con percorsi di formazione professionale, in particolare per terapisti della riabilitazione ed educatori. In queste drammatiche settimane, il sostegno della Fondazione si sta concentrando sui bisogni e sui generi di prima necessità, ma l’auspicio di tutti è che la guerra non possa disperdere quanto costruito pazientemente in questi anni a vantaggio del personale della struttura, dei pazienti, nonché di famiglie, istituzioni e dell’intera comunità locale. «Oggi non ho tempo per piangere – ha scritto la presidente Tetyana in un messaggio alla Fondazione -. Piangerò dopo la guerra. Ora il mio unico pensiero e quello che mi fa andare avanti nonostante tutto è che i nostri bambini restino al sicuro». La Fondazione Don Gnocchi si è immediatamente mobilitata: sono stati trasferiti fondi per far fronte alle prime emergenze ed è stato predisposto l’invio di medicinali, derrate alimentari, kit igienici. È stata lanciata anche una campagna di raccolta fondi (“Un Aiuto per l’Ucraina”, sul sito donazioni.dongnocchi.it) perché l’emergenza non cesserà con la fine dei combattimenti: ci sarà la ricostruzione materiale del Paese e, ancora più importante, si dovranno sanare le ferite nel corpo e nell’anima di bambini, adulti, famiglie. In un Paese devastato dalla guerra, la tutela delle persone più fragili è l’unica strada possibile per mantenere viva la speranza nel domani. |
?”Affamati d’amore”, F. Sarzanini – @Corriere racconta i #disturbialimentari
Disturbi del comportamento alimentare: un’epidemia silente, una battaglia che si può vincere
di Mirella Taranto
Nella Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla dedicata ai disturbi alimentari, in ISS si è svolto un seminario durante il quale è stato presentato il libro di Fiorenza Sarzanini, vicedirettore del Corriere della Sera, “Affamati d’amore”. Pubblichiamo l’intervista che la giornalista ha rilasciato a RaraMente per ricordare che i disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, obesità), pur non essendo nel novero delle malattie rare, sono importanti fattori di rischio in gravidanza, da monitorare per la prevenzione primaria delle malformazioni congenite. E per far germogliare in chi legge un seme di speranza, perché “il futuro si può riscrivere”.
Per la giornata dei disturbi alimentari una testimonial speciale, un messaggio di fiducia e di speranza per tutti coloro che, intrappolati nell’ossessione della fame e del digiuno, possono guardare a una battaglia vinta, anzi stravinta.
Lei è Fiorenza Sarzanini, vicedirettore del Corriere della Sera che nel suo libro, “Affamati d’amore” ha sentito l’urgenza di raccontare quel tempo in cui la bilancia era la sua ossessione e il cibo la barriera che metteva tra sé e il mondo. Raccontarlo perché, chi per mestiere scrive, altro non può fare per capitalizzare un dolore, per fare in modo che non sia passato invano e per metterlo a servizio di chi oggi, stretto in un cerchio di solitudine, non riesce a guardare oltre la bilancia.
La Sarzanini con questo libro fa un viaggio che attraversa se stessa nelle storie che racconta, fa un percorso in cui la cronaca da oggetto diventa soggetto del racconto e afferma un’istanza, quella di una rete in cui contenere genitori e figli perché questa epidemia silenziosa venga affrontata ad alta voce.
Oggi i disturbi alimentari, ci dicono le cifre, sono esplosi, il 40% di casi in più, e la pandemia ha scoperto la punta di un içeberg. Lei ha deciso che era ora di parlarne in prima persona. Perché?
“Perché, dopo aver parlato le persone che intervistavo, puntualmente, la la domanda finale, al termine di ogni conversazione era: si può guarire? E così ho pensato che, per come era andata poi la mia vita, fosse un dovere testimoniare il fatto che possiamo riscrivere il finale della nostra vita”.
Uno stile insolito per una cronista di lungo corso come lei.
“Quando ho cominciato a raccontare queste storie, ogni volta che mettevo in mezzo la mia, che dicevo “lo so”, cambiava il registro della conversazione. Diventavo immediatamente credibile e cadevano tutte le barriere. Non ero più soltanto una cronista di quel vissuto, diventavo una portavoce. Non avevano bisogno di spiegarmi che quel rapporto con il cibo non è un capriccio, ma un dolore immenso, un valico insormontabile tra se stessi e il mondo”.
Quando ha deciso che era ora?
“Quando è morto mio padre. È stato come mettere in pratica, fino in fondo, la più grande lezione di giornalismo che mi ha lasciato: raccontare una storia standoci dentro, senza cambiarla, ma non da bordocampo, presenti nella partita che si gioca. E l’ho fatto con la mia”.
Lei e loro. Un viaggio lungo otto storie.
“Loro sono diventati lo specchio di quello che io ero stata quando ancora il disturbo alimentare era uno sconosciuto. Scambiato per un vizio, un capriccio. È stato rivedere tutto insieme, la fragilità e la forza che alimentano questa patologia, l’incarnazione di un ossimoro. Ho rivisto l’ostinazione assoluta a non guarire, come una forza che si innesta a fronte di un indebolimento progressivo delle forze, un esaurimento della forza vitale che resta solo nella determinazione ad annullarsi”.
Lei è guarita grazie a un medico ma anche grazie a una rete familiare e sociale che non le è mai mancata. Quanto conta il sostegno emotivo e quanto quello medico e sanitario.
“È una rete che deve abbracciare questi malati ma anche le loro famiglie. Il disturbo alimentare fa arrabbiare, viene scambiato per capriccio, non è visibile come altre patologie, si misura solo quando si arriva a una soglia alta di allarme. È necessario spiegare ai genitori che se tuo figlio non mangia devi trattarlo come se avesse la febbre o qualsiasi altra patologia. Quando, poi, si va oltre una certa soglia di disagio servono strutture e queste oggi mancano in molte regioni”.
Oggi però di disturbo alimentare se ne parla. C’è persino una giornata.
“Ancora troppo poco. Non si sa quanti siano davvero le persone che soffrono di questo disturbo. Ci sono stime, mancano ancora dati solidi. E le famiglie sono sole. La pandemia ha mostrato la punta di un’içeberg, Abbiamo visto che spesso a questo disturbo si associano comportamenti autolesionistici. Non basta prenderne atto, anche per questo ho scritto il libro, perché si possa alzare la voce e chiedere di più, nella speranza diventi un obiettivo strategico di prevenzione ma anche di cura”.
Maschi e femmine. Che differenza c’è?
“Nessuna rispetto al bisogno di essere riconosciuti che sta alla base della malattia, alla richiesta di attenzione, al modo in cui il digiuno o la fame ossessiva cercano di scuotere rispetto al bisogno d’aiuto, alla stessa fame d’amore che sta dietro ognuna di queste ossessioni.
I modelli influiscono, è vero. La proposta di corpi magr, patinati, di creature diafane su tutte le copertine influisce, ma è solo un pretesto per chiedere altro, qualcosa che viene prima, il bisogno di essere riconosciuti, accettati. Ho visto le stesse fragilità in uomini e donne, adulti e bambini, ciò che è diverso è solo il modo in cui poi impattano con la propria storia personale che ha un valore nel processo di guarigione”.
Cosa è più difficile capire rispetto a un disturbo alimentare?
“Che non bisogna entrare a gamba tesa in quel disagio. Che insistere nell’offerta di cibo, parlare di cibo, dare lezioni di nutrizione, di cui tra l’altro queste persone sono espertissime, o di qualsiasi genere aumenta l’ostinazione a resistere e costruisce una barriera, disegna automaticamente un “noi” e un “loro”. Ciò che serve è l’ascolto. Serve presenza, lasciare che la voce emerga da loro, attendere che parlino senza chiedere. Bisogna rispettare quella malattia come si fa con le altre. L’ascolto aiuta a contenere il dolore. Fare in modo che l’altro trovi la forza di chiedere aiuto è l’unico approccio capace di accompagnare qualcuno in un percorso di risalita”.
La bilancia è rimasta nella tua vita. Che significa?
“E la mia sveglia, il mio allarme. È la mia bussola per il rischio. Oggi serve a non tornare indietro. Quell’ago non può scendere sotto un certo limite. Guarire significa anche imparare a riconoscere il rischio a raccogliere sempre, quando sei più fragile, la forza per arretrare. Sono diventata esperta di me stessa. Ho imparato a riconoscere quando devo fermarmi”.
E la felpa sulla sdraio, quella che ti scaldava d’estate dove sta ora?
“Indelebile, nella mia memoria, questi ricordi non mi lasceranno mai perché servono a riscrivere il futuro. E il futuro può essere bellissimo”.
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